Maria Patrizia Allotta, "Il giglio e l'ortica" (Ed. Thule)
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- Category: Scritture
- Creato: 08 Marzo 2018
- Scritto da Redazione Culturelite
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di Franco Trifuoggi
Con questa pregevole raccolta (Il giglio e l’ortica, Thule Ed., Palermo 2016) Maria Patrizia Allotta ritorna all'appuntamento con la poesia. Docente nel prestigioso liceo “Regina Margherita” di Palermo, collaboratrice del periodico “Spiritualità e Letteratura”, curatrice dei volumi Luce del pensiero, l’autrice, saggista e componente delle Giurie di molti premi letterari, ha curato, tra l’altro, il volume Essere nel mosaicismo, dialoghi con Tommaso Romano ed è Accademica di prestigiose Istituzioni.
Nelle trenta liriche di questa silloge, distribuite in due sezioni, Zolla dell’anima e Incontri sul campo, risuonano le note di una poesia “alta e solenne, intima e dolente, forte e umile nel contempo” - come scrive Tommaso Romano nella lucida postfazione -, racchiusa nella “metafora del campo di ortiche, spesso aspre e pungenti, e del giglio del vero bene e, quindi, dell’armonia da non obliare al vento delle contingenze”. Anche qui, come nella precedente silloge Anima all’alba, l’autrice rivela “un’acuta virtù introspettiva, attenta ad analizzare i moti più reconditi del fitto tramaglio del suo animo oltremodo sensibile”, e al dettato poetico “affida il compito di esprimere l’ansia e di tradurre la materialità del contingente in purezza di spiritualità”.
Già nella lirica eponima traluce, vivida, la presenza delle ortiche in “campi vuoti”, come la ricerca di “gigli essenziali”, fautori di lievi riposi: vi aleggia la mestizia del sentore di “albe che non sorridono più”, del vanire delle “possibili speranze” sotto l’incalzare dei turbini. E in Nient’altro una “strana / orchestra di emozioni” fa da “sottofondo delicato” all’invocazione del silenzio. E sormonta (Dipanare allora) la deplorazione della rovinosa assenza dell’ “orizzonte metafisico” nel trionfo della decadenza che connota la palude della modernità. Ma ecco che (Fiato all’alba) in un contesto scintillante di pensieri, dubbi, tensioni , alfine “fiato d’alba / apre luce al sole”, suscitando il fervore di un “nuovo entusiasmo” che alimenta il coraggio di “ogni sfida”, mentre (Aspra in marina) la solitudine in Aspra marina affranca dai veleni e dalle spine del male, e al “nero / di certe lingue”subentra lo splendore di tremule stelle, così come riaffiora il “pensiero assoluto / verso invisibile luce”. Un sentore di malinconia e di sconforto si diffonde, tuttavia, su un trittico di lacerti poetici (Sole d’agosto; L’ultimo mare; Dieci agosto): è triste il sole di agosto che più “non sfavilla / fino a tardo meriggio”; non sorridono più come prima “le acque settembrine”, sono “reminiscenze i sogni”, mentre l’ombra avvolge il mare e il silenzio angoscioso “prende l’anima”; “sempre più distanti”, le stelle cadenti “neanche per San Lorenzo” donano speranza, ai papaveri rossi subentrano “crisantemi in nero prato”. Sentimenti diversi esprime il trittico consacrato a festività religiose (Insolito Natale; Epifania; Ognisanto): un dicembre gelido, spoglio di doni e di decori, ove prevale lo sgomento nell’attesa della guarigione; l’avvento di “nuova stella Cometa” con purificante dono di incenso, e “balsamico profumo…tra i corpi insanguinati” nel segno dell’attesa di una “redenzione umana / forse ancora possibile”; nel tiepido Novembre la preghiera tacita consolida “i ricordi / dei cari andati” nell’estasi di un incontro che dissipa “le beffe demoniache” e disperde il dolore. E con Maia la prima sezione si chiude nel lucore di una nuova alba e nel tepore del sole con il rifiorire della speranza e il trionfo del vivere e della poesia: nonostante tutto, “gli intelletti sperano ancora, /poetando”.
La seconda sezione vede l’intenso respiro di alta spiritualità dell’autrice animare non soltanto la riflessione sulla propria interiorità, ma anche la dipintura della sensibilità delle persone amate come in un tacito, sottinteso dialogo, e anche la partecipazione all’angoscia di un “drammaturgo eterno” e al dramma di una donna uccisa: un panorama cangiante, illuminato tuttavia dalla meditazione esistenziale dolente e insieme anelante con vigore al superamento del buio dell’incomprensibile destino, all’infinito e all’eterno, all’incontro vivificatore e pacificatore con la Verità. Come in Respiro (A Fabio mio) il corpo resiste ai “patimenti” nell’intravedere “il nettare dell’impalpabile senso / che desta Verità”, e l’angoscia viene dissipata dal chiarore di una melodia; così in Primavera attesa (A me stessa) si celebra l’attesa fiduciosa di un tepore foriero dell’avvento di nuove primavere. E in Nobiltà (A mio padre) rivive il vigore dell’attesa nella connotazione di una nobiltà persistente “secondo il verbo / dei padri” e ravvisata nella condotta di colui il quale, nonostante la propria “odissea esistenziale”, riesce, comunque, a contemplare “la luce fioca / di ogni Tramonto”, attendendo, “sempre con lo stesso coraggio, determinazione e volontà”, i bagliori di un’ “Alba” che ancora una volta “desteranno in Lui meraviglia, stupore, commozione per il Cosmo tutto”. Un ardire, un coraggio che sostengono l’autrice rinfrancata dagli “obblighi / che costringono” (Il treno ha fischiato). La nobile figura del suo Maestro “senza meta”, Gonzalo Alvarez Garcia, ispira, poi, i versi di Errantia. La rinascita dell’alba conclude un’ appassionata consolatoria (Silenzio), tenera esortazione a una Dirigente perché cerchi la pace “eliminando ogni falsa speranza”. E il dramma del vivere, la crisi di un io consapevole che “l’esserci / teatro già è°, riflesso nel dipinto di “un flusso vitale / che travolge anche la forma” trova accenti ammirati in Pirandello. Chiude la silloge, nel segno dell’attualità, La durlindana del dolore, con una amara, suggestiva sequenza impressionistica che scolpisce in successione assorta di visioni, riflessioni e accenti gnomici, il ritmo tragico di un femminicidio in cui “si specchiano / nuovi labirinti”.
Il dipanarsi della “nitida spola” della sua esistenza, ove le pene sono costellare da “indicibili gioie”, del tutto aliena dall’indulgere a quello che Luca Caniato definisce “autocapestro metrico”, si manifesta in un ductus lirico che ne asseconda con docile duttilità il vario articolarsi: fluisce spesso entro un periodare limpido e disteso, o si compiace talora dell’ariosa misura di un adagio descrittivo, e raramente si rapprende, caricandosi di ellissi e di analogie, in una tensione verso l’essenzialità, che rischia di comprometterne la pervietà semantica, ma non mai smarrisce il suo timbro personale. Anche in questa, come nella precedente silloge, il susseguirsi delle inquietudini, delle emozioni e degli stupori si rispecchia nella suggestione dello spettacolo iridescente della natura. Donde l’incanto di questa poesia nasce spesso dall’osmosi pacata tra l’intensità degli affetti e la variegata autenticità delle parvenze naturali, ma trova momenti di grazia anche quando la parola accarezza con la soavità tutta femminile la trepida vicenda di attese e delusioni, di commozione e “rinnovata speranza”. E questo sormontare – pur nell’ “odissea esistenziale” – della luce di albe e del fervore di speranze trova una parola chiave che ne sintetizza il faticoso emergere: “nonostante”. Accanto ad essa, significativamente rivelatori dell’oscillante vicenda psicologica appaiono stilemi come “labirinto di dubbi fatali”, “inedia spirituale”, “l’estasi dei momenti d’oro”, “rigenerante futuro”, “madreperlati ardenti cieli”, “l’amara diaspora dialettica”: esempi felici di una oraziana virtù di incisivi accostamenti lessicali; mentre qua e là pare balenare, discreta, una nostalgia di canto nella suggestione di qualche assonanza (“prevale…andare”; “cedere…cenere”; “esistenziale…contemplare”) o di cadenze litaniche e di clausole monosillabiche.
Una silloge, dunque, questa, che rivela nell’autrice – come scrive nella dotta prefazione Gonzalo Alvarez Garcia – “la signora del suo stile”: essa, infatti, mentre conferma la scaltrita perizia letteraria e il profondo spessore culturale di Maria Patrizia Allotta, è segno inequivocabile di una singolare purezza spirituale e tensione metafisica che sanno tradursi in originalità di accenti lirici.