«Legittimismo» italiano?

Proponiamo il testo di una lettera dello storico conte Gioacchino Volpe pubblicata il 16 aprile 1949, sul quotidiano di Roma ”Il Tempo”.

Caro direttore, più di una volta mi è capitato di leggere o sentir parlare, con tono di irrisione, di «legittimismo» e «legittimisti» a proposito degli attuali monarchici italiani. Giusta irrisione, se realmente esistessero un legittimismo e dei legittimisti in Italia. Legittimismo sarebbe, grosso modo, il riconoscere ad un re o ad un ex re un diritto proprio sul trono, da mantenere o recuperare anche quando sia venuto a mancare il fondamento popolare su cui poggia: di­ritto di origine patrimoniale o divina. Ora l’età dello Stato patrimoniale, l’età della Monarchia di diritto divino è morta da un pezzo: né sembra che debba risorgere (per quanto nulla sia da escludere nella libera e tortuosa storia degli uomini, che una volta conobbe l’impero romano e poco dopo il travaglio della età barbarica, la dissoluzione e la rifusione della società...).

Più che altrove questo legittimismo è morto in Italia, nell’Italia che fece il Risorgimento. Qui, un re, il Re che la nazione si diede, negò esso per primo, col suo stesso collaborare alla demolizione dei vecchi troni e col ricevere dal popolo il regno, ogni diritto che non fosse fondato su queste nuove basi popo­lari. E quanto al popolo italiano, esso non conferì il trono ai Savoia ricono­scendo un loro qual si voglia diritto, se ne togli quello, tutto morale, che pote­va nascere dall’opera, allora insostituibile, prestata da essi per dare indipen­denza e unità alla nazione; ma lo conferì esercitando un proprio diritto. Esso, dandosi un re, creando uno Stato nazionale monarchicamente costituito, obbe­diva ad un sentimento profondo, particolarmente vivo nelle grandi masse, e ad esigenze intrinseche dell’impresa che si voleva compiere.

La monarchia si affermò in Italia come fatto naturale e spontaneo, senza coartazione di altri principi e programmi, anzi dopo il fallimento di altri prin­cipi e programmi come sbocco necessario di un travaglio cinquantennale: vo­lontà della storia o giudizio di Dio, non arbitrio di classi o partiti. I trenta anni di propaganda mazziniana, agendo potentemente e consapevolmente nel senso della unità, agirono essi stessi, inconsapevolmente, nel senso della mo­narchia, sola dimostratasi capace di dare quella unità, sola capace di non su­scitare reazioni di popolo. Dico «inconsapevolmente»: ma non sono da dimenti­care la chiara e ben motivata evoluzione, nel decennio 1849-59, di tanti anti­chi mazziniani verso la monarchia; non lo stesso atteggiamento di Mazzini in più di un’occasione. Scriveva egli nella primavera del 1866, incoraggiando gli arruolamenti dei volontari sotto Garibaldi, sebbene agli ordini del re, e rispon­dendo al riluttante Egisto Bezzi: «Mi duole assai del dissenso vostro e degli amici; ma confesso non intenderlo. Ho predicato con voi tutti guerra di inizia­tiva popolare: veneti e italiani non l’hanno voluta. Intanto viene guerra gover­nativa. E' guerra per Venezia, contro l’Austria, con un fine nazionale. E' chiaro che dobbiamo prendervi parte. Il continuare a dire vogliamo guerre di iniziati­va popolare, quando nessuno risponde, in verità tocca il ridicolo».

Così da queste scaturigini, nacque la monarchia in Italia; e da esse la mo­narchia derivò non debolezza, ma forza. In Italia poteva esserci, e ci fu, un le­gittimismo borbonico e magari lorense o estense-asburgico o papalino; non poteva esserci e non ci fu e neppur ci sarà un legittimismo monarchico-sabaudo, negato nel momento stesso che il regno si costituiva e per il modo come si costituiva.

E allora? Allora, se ci sono oggi in Italia dei monarchici e parrebbero molti e molti milioni, stando al referendum, e da allora forse piuttosto cresciu­ti che diminuiti, certo essi fondano il loro monarchicismo su altri motivi e ra­gioni che non siano quelli della legittimità. E sono poi gli stessi motivi e ragio­ni che già operarono nel 1859-60, accresciuti, arricchiti dall’esperienza di ot­tanta anni di regime monarchico che sono stati di progresso grande per l’Ita­lia, di freno all’estremismo dei partiti, di crescente adesione di popolo alla vita della nazione, cioè di unità morale e sociale oltre che territoriale. E oggi altri motivi e ragioni si sono aggiunti, purtroppo quasi solo negativi.

Diciamo la verità: che cosa è questa nostra repubblica italiana, nata come è nata, dalla sera alla mattina, sotto l’imperio di passioni tumultuose, ma su­perficiali, suscitate dalla sconfitta, di interessi antitaliani, di programmi sov­vertitori, di basse opportunità? Non escludo antiche e sincere ma ristrette convinzioni e aspirazioni. Ma questa repubblica l’hanno covata, riscaldata col loro fiato, più che altro, i «liberatori» a cui premeva di annichilire in Italia ogni centro di resistenza ideale; comunisti che nella monarchia vedevano degli argi­ni al loro totalitarismo; non pochi plutocrati che hanno creduto deviare da sè la torbida onda di tanti risentimenti, scaricandola contro la monarchia; «popo­lari» a cui sorrideva calare in nuovi stampi l’Italia del 1860 e del 1870; non­ché dozzine di scrittori e scrittorelli in funzione di storici, messisi per la occa­sione a fare un ridicolo processo a casa Savoia.

E altre domande si affacciano. Che cosa è questa straripante vita di par­tito e di partiti o meglio fazioni, poiché ad essi manca ogni senso del limite? Che cosa è questa Italia senza un visibile capo, creato da tutti e da nessuno, che immane in tutti e trascende tutti, in cui si ritrovino, come in tanti momen­ti gravi o lieti si sono ritrovati, quanti italiani vivono e lavorano, dalla Sicilia alla Val d’Aosta, dall’Argentina alla sponda orientale del Mediterraneo? Non minaccia, essa, di perdere corpo e svaporare nel nulla o risolversi in mera ma­terialità, senza questo capo, come una religione senza templi, senza sacerdoti, senza riti, senza simboli? Basteranno a tenerne viva l’immagine e il sentimen­to il carabiniere, l’agente delle imposte, un presidente o un governo che esco­no anch’essi da partiti e durano cinque anni o cinque mesi o cinque giorni? E in un paese, in una città che ha l’alto onore di essere sede del grande capo della Chiesa, chi gli sta, non contro, ma di fronte, come capo dello Stato, mo­dernamente laico? Il discorso potrebbe seguitare.

Questo ed altro diceva a me l’altro giorno un amico monarchico, ed io a lui. E concludevamo: legittimismo, dunque, no: ma convinzione nostra di un insostituibile compito assolto dalla monarchia in Italia. Noi potremo essere discussi e combattuti: ma per quel che siamo, non per quel che altri immagina o vorrebbe che noi fossimo.

 

Grazie dell’ospitalità e credetemi vostro, eccetera.

 

da: "Il Pungolo", n. 3, Settembre 1989

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