“L’ETERNA QUESTIONE SICILIANA” DA RACCONTI DI ALTRI TEMPI TESTO DI GIOVANNI TERESI

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Dopo la seconda guerra mondiale, la voglia di riprendere la vita ed iniziare tutte le attività lavorative era tanta, come era forte il desiderio di libertà agognata e sofferta, solo che doveva essere ben disciplinato ed organizzato dalle istituzioni pubbliche. Il 15 maggio I 946 veniva approvato lo Statuto della Regione Siciliana.

Da quel momento ha inizio l’esperienza autonomistica che ha influenzato la successiva elaborazione della Costituzione Italiana, entrata in vigore il primo gennaio del 1948. Come sappiamo, prima di quella data lo Stato italiano, in tutta la sua storia e nei diversi regimi politici che si sono succeduti (il liberale prima e il fascista poi), sì era caratterizzato come Stato accentrato. I poteri legislativi erano concentrati nel Parlamento nazionale ed i poteri amministrativi erano attribuiti al Governo ed ai ministri da esso dipendenti.

Lo Statuto siciliano segnò quindi una svolta nella storia istituzionale italiana.

Nella seconda metà degli anni Cinquanta, nell’Italia invischiata in una fase di instabilità politica eppure lanciata sulla strada del «miracolo economico», la “questione siciliana”  conquistò via via il centro della scena. Grazie alla scoperta del petrolio infatti l’isola divenne un laboratorio per le politiche industriali e terreno avanzato di scontro sulle vie dello sviluppo meridionale.

In una regione contesa tra il miraggio della crescita industriale e un presente ancora vittima della povertà e di un nuovo esodo emigratorio, emergevano forti tensioni nel rapporto tra il centro (o meglio i centri) e una periferia speciale, dotata di ampia autonomia istituzionale e marcata identità territoriale. Attriti e convergenze che sfociarono nell’ottobre 1958 in un originale caso politico, definito “milazzismo”. L’esperimento dei governi guidati da Silvio Milazzo, un agrario calatino allievo di don Sturzo, era caratterizzato da un’anomala convergenza tra destra e sinistra che spaccò la DC, relegandola all’opposizione, e diede corpo ad un blocco regional-sicilianista, che affermava di voler difendere gli interessi dell’isola dalle ingerenze delle segreterie centrali dei partiti e dei monopoli economici settentrionali.

Il “milazzismo” rappresentò – seppur con le sue contraddizioni e i suoi limiti – il tentativo di tracciare una via di sviluppo regionale, legata alle risorse dell’autonomia speciale, e fu la risposta politica periferica ad una stagione di grande cambiamento che investì tutto il Paese, ma lasciò irrisolti alcuni nodi della storica questione meridionale.  L’autonomia nasceva quindi all’insegna del conservatorismo e del protezionismo di sempre, con il rifiuto del “vento del nord”, un vento che per Scelba si tingeva di rosso, del pericolo comunista, per il quale bisognava dimenticare i trascorsi fascisti di intellettuali e funzionari, creare anche con essi una aggregazione forte attorno alla DC.  In taluni Siciliani l’attaccamento a quella che potremmo definire un’isola dalla paurosa bellezza, sembra farsi quasi carnalità forte e misteriosa, passione d’amore e di rovina, come per una donna dal fascino che si vuole con forza domare, possedere per sé.

Ma da ben altri interessi erano mossi i fautori del separatismo, interessi spesso personalistici o di classe, non esclusa quella illegale che trovò terreno molto fertile. Ma fino a che punto poi le altre classi volevano essere legali? Tutti comunque si celavano dietro la bandiera dell’indipendenza della Sicilia.

Il separatismo, che sembrava in Sicilia essere frutto di un Dna nel quale si confondevano grecità, mollezze e genialità araba, pragmatismo normanno-svevo e rudezza sicula, divenne un fenomeno allargato.

I Siciliani, amministratori generalmente poco interessati a salvaguardare lo splendore della loro terra e il particolare patrimonio di civiltà, erano simili a coloro che essi chiamavano “quelli del continente”, altrettanto incuranti della propria terra, depauperata da amministrazioni di ogni colore, da connivenze col potere economico corrotto, non salvaguardata nella bellezza, nella eredità di tesori d’arte ovunque presenti. L’aspro scontro tra DC e PCI intorno alla “questione siciliana”, che toccò l’apice nel corso della campagna per le elezioni regionali del giugno 1959 era palesemente evidente dai vari comizi che si tenevano nelle varie piazze  e dal materiale di propaganda prodotto dai due maggiori contendenti.

Ai tempi dei comizi erano veramente pochi i cittadini che capivano i messaggi politici. Il linguaggio troppo istituzionale non arrivava ai cittadini. Vigeva il costume di votare in base all’appartenenza a gruppi definiti. Il borghese lombardo e il contadino siciliano votavano cosi la DC in nome delle loro frequentazioni cattoliche, mentre l’operaio romagnolo, che frequentava circoli marxisti, non poteva che votare il PCI.

Con l’avvento della televisione negli anni ’60, il linguaggio politico cambiò radicalmente. Si appiattì sempre di più al linguaggio colloquiale del pubblico e permise l’allontanamento incondizionato dalle fedeltà politiche. Il pubblico diventò attivo e inferiva sui discorsi. I leader si concentravano su come raggiungere il bacino di utenza più ampio; quali “trucchetti” utilizzare per affascinare il pubblico. L’ideologia venne meno e passò in secondo piano.

Al centro dell’attenzione c’era il “come” si comunica non più il cosa”.

Giovanni Teresi

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