“Ignacio Vicens y Hualde. Quattro Quartetti per un moderno Terenzio” di Ciro Lomonte

Nel 1979 – ero iscritto al primo anno di Architettura – partecipai ad un convegno internazionale, promosso a Roma dall’Istituto per la Cooperazione Universitaria. Lì conobbi fra gli altri Nicolas Ramirez Garcia, un ragazzo di Saragozza che studiava presso la Escuela Tecnica Superior de Arquitectura di Madrid (ETSAM). Mi disse che dovevo assolutamente conoscere il giovane professore di Proyectos Ignacio Vicens y Hualde. Aveva ragione. Era una persona assolutamente straordinaria. Lo è tuttora.

Negli anni successivi lo incontrai spesso alle nuove edizioni dello stesso convegno, al quale era  abitualmente presente, con un approccio da educatore paterno e insieme esigente. Ricordo una volta che alcuni residenti del Colegio Mayor Moncloa stavano facendo uno scherzo piuttosto puerile ad un altro residente. Il prof. Vicens li vide e si limitò a commentare (efficacemente): «Sembrerebbe una bugia che voi siate universitari!».

Negli anni successivi diedi vita al Club di Architettura della Residenza Universitaria Segesta, alle cui attività invitammo numerosi docenti, anche stranieri. Proposi al prof. Vicens di tenerci due lezioni a Palermo, invito che lui accettò con la generosa disponibilità che lo contraddistingue. Fu così che nel 1987 ci aprì gli occhi sulla storia dell’architettura nella penisola iberica (“eterodossa”, ci spiegò, in quanto non è riducibile agli schemi rinascimentali imperanti in Italia) e sulla nuova generazione di architetti contemporanei spagnoli. Nel secondo caso i ragazzi palermitani rimasero pensierosi di fronte all’affermazione perentoria secondo la quale «Il cliente non ha mai ragione!». Quando lo accompagnai a visitare lo ZEN2 di Gregotti e compagni, osservò tutto con estrema attenzione e alla fine dichiarò: «Ammesso che questa sia architettura, è architettura per ricchi non per proletari, perché richiede continua manutenzione».

Nell’estate del 1997 lo incontrai nuovamente a Byblos, in Libano, o meglio in una località montana chiamata Lehfed. Il Paese dei cedri era appena uscito da quella che era stata ingiustamente definita “guerra civile” (in realtà uno scontro delle potenze confinanti sul suolo dei libanesi, ammirevoli per la loro capacità di convivere pacificamente, nonostante le diciassette confessioni religiose presenti nel territorio). Era iniziata la ricostruzione. Un folto gruppo della Moncloa e alcuni ragazzi del Centro Monte Grifone di Palermo ci rimboccammo le maniche in un campo di lavoro organizzato per rimettere in piedi alcune strutture educative del paesino. In quel caso mi colpì molto la notevole capacità del prof. Vicens (Nacho, come lo chiamavano tutti) di dialogare con tutti, persone semplici o autorità, alternando con disinvoltura l’uso del castigliano, del francese, dell’inglese e dell’italiano. Suonò anche la chitarra e ci cantò Il mondo, la canzone del 1965 di Jimmy Fontana, che aveva un valore speciale per lui.

Sapevo che uno dei suoi cavalli di battaglia era la differenza fra Bernini e Borromini, due giganti coevi dell’architettura barocca, in competizione fra di loro. A Roma guidava i ragazzi alla scoperta delle opere dell’uno e dell’altro. Lui predilige Bernini, indubbiamente più solare dell’ombroso Borromini, benché il secondo fosse più geniale nel superare le discontinuità fra strutture portanti e coperture mentre il primo, più innovativo come scultore, fosse molto ligio ai canoni dei trattatisti rinascimentali. Vicens portava gli studenti a visitare il luogo in cui Gian Lorenzo Bernini aveva chiesto di essere seppellito, sotto un gradino del presbiterio di S. Maria Maggiore.

Il prof. Vicens mi ha spesso incoraggiato a fare “proselitismo architettonico”, aiutando le persone a comprendere che l’architettura è un’arte difficile, le cui note peculiari, purtroppo, sono poco note ai profani dei nostri giorni. Non era così un tempo. Anche le persone semplici avevano contezza delle differenze fra un quadro, una statua e un’architettura, mentre oggi persino alcuni critici d’arte annaspano in questo ambito. Va detto pure, a onor del vero, che alcuni architetti contemporanei rendono più difficile il dialogo, perché sono più o meno elitari, altezzosi, gnosticheggianti. Sono tanti i motivi per cui ammiro Ignacio Vicens. Uno è la sua indole spagnola, vale a dire concreta, pratica, risoluta, diversa da quella teorica, indeterminata, altalenante, degli italiani. Uno studente italiano in un anno di corso elabora un solo progetto, uno spagnolo almeno sei. C’è poi una frase di Terenzio, inserita nella commedia Heautontimorumenos, che il prof. Vicens ama molto: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto». È un motto a cui si è sempre ispirato. Ecco perché il volume celebrativo a lui dedicato si intitola Nulla di ciò che è umano ritengo estraneo a me.

L’iniziativa parte dalla direzione del Colegio Mayor Moncloa, in considerazione di tre eventi simultanei: gli 80 anni della residenza universitaria madrilena, i 40 anni di impegno educativo del prof. Vicens nella residenza, il riconoscimento del titolo di professore emerito della ETSAM al prof. Vicens. Il sottotitolo del libro è I Quattro Quartetti di Ignacio Vicens y Hualde. Il riferimento esplicito è ai quattro poemetti di T. S. Eliot (uniti in unico libro nel 1943, lo stesso anno in cui venne inaugurato il Colegio Mayor Moncloa). Il riferimento colto è ai quattro aspetti della poliedrica personalità di Nacho Vicens: architetto famoso ma estraneo alle stravaganze da divo delle archistar; cattedratico dal carisma più unico che raro; educatore e mentore; uomo di cultura e mecenate. Reputo un grande privilegio, inatteso, che lo stesso prof. Vicens mi abbia inviato una copia del libro in omaggio, con dedica accuratamente personalizzata. Sapevo già che, come si dice a Palermo di una personalità pazientemente coltivata e ricca a 360°, “dove lo tocchi suona”. Ma non conoscevo tanti aspetti della sua vulcanica attività.

 

 

 
   

Dopo la prima lettura avrò da studiare ancora a fondo il testo, pieno zeppo di testimonianze di colleghi, allievi, amici. In prima battuta mi incuriosisce molto come una persona così estroversa progetti architetture tanto ermetiche. È un maestro nel fissare confini, erigere mura levigate, ritagliare un

mondo chiuso all’esterno. Allo stesso tempo gli interni sono rutilanti di luce, proveniente dall’alto o da asole sorprendenti. Al barocco ha tolto l’intero apparato ornamentale. Del barocco ha mantenuto il sussulto emotivo provocato dalle soluzioni magniloquenti, imprevedibili. Dentro una sua opera si resta di stucco. È un’eco di quella citazione di T. S. Eliot, tratta dai Quattro Quartetti, ripetuta spesso da Nacho a lezione: «Human kind cannot bear very much reality» (“Il genere umano non può sopportare troppa realtà”).

 

 

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