“Antichi ponti romani e ponti moderni” di Carla Amirante

   Di recente, noi tutti, abbiamo visto nei telegiornali le terribili immagini del grande ponte crollato a Genova, che ha causato vittime e devastazione; il fatto drammatico ha fatto riemergere inevitabilmente il solito paragone tra questo ponte moderno costruito circa 50 anni fa e quelli edificati molti secoli prima dall’Impero romano, i quali sono ancora in piedi e spesso ancora agibili. Ci si è chiesto come mai ciò sia stato possibile e si sono cercate delle risposte che hanno attribuito le cause di quest’ultimo disastro essenzialmente all’inquinamento atmosferico, alle condizioni atmosferiche avverse, al pesante traffico viario di auto, camion e mezzi articolati. Ma soprattutto la maggiore responsabilità del crollo è stata data ad avere utilizzato nella costruzione il cemento armato, un nuovo conglomerato usato nella recente edilizia e rivelatosi ben presto non idoneo per realizzare grandi opere.  
  Infatti le costruzioni moderne, tra cui i ponti moderni, sono stati tirati su con tecniche e materiali come il cemento armato, invece quelli più antichi, in particolare di epoca romana imperiale, sono stati realizzati in pietra. Come si legge nel libro dell’archeologo V. Galliazzi, gli antichi ponti romani sono circa 1270, compresi quelli in legno, e sono sparsi tra le terre che una volta facevano parte dell’Impero e andavano dall’Africa del Nord all’Europa, per arrivare fino in Iraq.
 Gli esperti, archeologi e ingegnieri, spiegano che il segreto della longevità di quei ponti è dovuta all’uso della pietra, un materiale non deperibile e senza metalli all’interno. Ora invece per la costruzione di opere civili si usa il più economico calcestruzzo armato (detto cemento armato), che ha fatto la sua prima comparsa, nel 1883 nella realizzazione di un palazzo a Pavia e in principio è stato usato con un po’ di  vergogna perché ritenuto una “scorciatoia costruttiva”. Gli edifici, costruiti con il nuovo ritrovato, venivano poi rivestiti di intonaci e stucchi per dare l’immagine illusoria di essere stati realizzati ancora con materiali nobili, come la pietra e il laterizio, e assemblati secondo le antiche leggi statico-architettoniche. Questo modo di costruire è durato fino alla fine degli anni ’30 e un esempio di questo stile è il Palazzo della Civiltà Italiana, nel quartiere romano dell’Eur, inaugurato nel ’38. Il palazzo era stato costruito in cemento armato, rivestito poi di candido travertino per nascondere la struttura in cemento armato, ritenuta non bella, e per proteggere dagli agenti atmosferici il ferro dei tondini e delle putrelle, travi di piccole dimensioni profilate d’acciaio.
  Il cemento armato è costituito da una miscela di cemento, acqua, sabbia, aggregati, come la ghiaia, in cui è presente un’armatura metallica, ma questo agglomerato è deperibile e dopo breve tempo mostra lesioni, segni di ruggine, ossidazione e infiltrazioni dovute all’umidità. Infatti questo materiale venendo a contatto con l’anidride carbonica subisce una reazione chimica, detta carbonatazione, mentre  l’acqua piovana, entrando dentro, arrugginisce il ferro e crea fessure. Inoltre si deve aggiungere il fenomeno della corrosione galvanica dovuta alle correnti parassite che, propagandosi lungo l’armatura metallica, elettroliticamente corrodono il ferro; per ridurre gli effetti di tale fenomeno si ricorre alla “protezione catodica” con dispositivi elettrici. Così il ponte, già sottoposto al peso del grande traffico dei mezzi pesanti di trasporto, perde le proprietà di resistenza e resilienza, si rigonfia, presenta spaccature nel cemento e necessita verifiche e restauri frequenti.
  Tutto ciò non avveniva nei ponti romani che, per dare maggiore elasticità e stabilità alla costruzione, usavano l’arco, che lavorava per compressione e scaricava il peso sulle parti laterali. Invece i ponti attuali sono realizzati con l’architrave, un elemento orizzontale, che opera per trazione, inoltre porta spesso su se stesso altri elementi e ha la parte centrale sospesa nel vuoto.
 
  I Romani non furono i primi a costruire i ponti perché avevano appreso il mestiere dagli Etruschi e ritennero questa tecnica così importante da considerarla un’arte sacra, ars pontificia (pontem-facere). Fu così che il capomastro, preposto alla costruzione dei ponti, ebbe il titolo di Pontifex Maximus, il massimo grado religioso, in seguito acquisito dagli imperatori romani e dopo il 376 assunto nella Chiesa cattolica dal vescovo di Roma per la sua funzione mistica di tramite fra l’uomo e Dio. Infatti molti popoli antichi hanno dato un sigificato religioso al ponte, probabilmente guardando l’arcobaleno, un fenomeno naturale che da sempre ha affascinato l’uomo e si manifesta proprio come un ponte ad arco che unisce la terra al cielo; così l’arcobaleno, fu visto come un legame con la divinità celeste da Noé, e similmente per i Greci, i Cinesi, i Norreni e altri.
  Ma il ponte ha anche molte valenze simboliche, rappresenta il passaggio, l’andare oltre gli ostacoli ambietali, facilita il cammino verso terre lontane, le quali, poiché sono sconosciute, rappresentano l’ignoto con molti pericoli ma anche con la possibilità di offrire esperienze nuove, conoscenze, amicizie, legami e commerci. Perciò questa struttura architettonica ha avuto nella storia dell’umanità una grande importanza avendo messo in comunicazione fra loro popoli e civiltà distanti; senza ponti le nazioni sarebbero separate, le città divise, i villaggi dispersi. Fu il ponte sul Tevere che  creò le condizioni necessarie perché un piccolo villaggio di pastori, come la Roma primitiva, sia divenuta prima una grande città e poi la capitale di un grande impero. Questo destino è avvenuto anche per altre città famose, come Venezia, con i suoi 436 ponti, come Firenze con il suo Ponte Vecchio sull’Arno, simbolo della sua città e cosi è pure per molte altre città italiane. Per le grandi capitali europee, si possono citare Parigi sulla Senna, Mérida sul Tago, Magonza e Colonia sul Reno, Londra sul Tamigi e per il resto del mondo ci limitiamo a ricordare in America New York sul Hudson e in Australia Sydney sul Parramatta. Tutte queste città sono centri urbani nati vicino a un corso d’acqua, gli abitanti  del posto hanno avuto la necessità di attraversalo per mezzo di un ponte e la loro storia è sempre stata intimamente legata alla presenza di un fiume.
    Fra tutte le città e i popoli civili, Roma, nata sul Tevere, in particolare ha sentito la necessità di unificare le molte nazioni vinte in un’unica patria e dare a loro la sua civiltà, fatta di cultura, diritto e invenzioni; essa ha collegato allora le regioni del mondo antico sotto di essa con una fitta rete stradale, che è stata l’espressione tangibile del processo di urbanizzazione e di romanizzazione del suo immenso impero. Gangli vitali di questo grandioso progetto furono i ponti urbani e stradali, fatte di barche o navi, di legno o di pietra, oppure ‘misti’ con ‘sottostruttura’ di muratura e ‘soprastruttura’ di legno, talora su grandi fiumi, il più delle volte su corsi d’acqua piccoli o medi, con una varietà di materiali, situazioni e tipologia. Comunque tutti questi ponti furono sempre realizzati molto bene o da architetti di grande valore, come Apollodoros di Damasco o Gaius Iulius Lacer, oppure da un’ottima manodopera civile e militare; così per mezzo di queste opere ogni terra del mondo mediterraneo fu sempre vicina al cuore dell’Impero romano e alla sua capitale Roma, nonostante la vastissima estensione territoriale, andando essa in longitudine dalla Scozia in Gran Bretagna fino al deserto del Sahara in Africa, e per latitudine dalla sponda atlantica fino alla Mesopotamia in Asia. Così in tutto il territorio fu lasciato un patrimonio grandioso, che per molti secoli, dopo la caduta dell'Impero, non fu arricchito ma spesso devastato o lasciato andare in rovina. Solo nel medioevo, a partire dal XII sec., grazie alle confraternite dei Frates Pontifices, religiosi il cui lavoro veniva pagato dai vescovi con le indulgenze, si iniziò la restaurazione dei ponti romani, e si ricominciarono a costruire, anche se mai tralasciati, i ponti in legno.
 
  La costruzione del ponte, che cercheremo di spiegare in forma molto breve, era un’ opera molto complessa, ma, come si è detto, l’abilità degli ingegneri e della manodopera civile e militare dei Romani riusciva a realizzarla anche in tempi brevi. C’è il racconto di Giulio Cesare, nel De bello gallico libro IV, che descrive la costruzione del ponte ligneo sul Reno avvenuta in solo dieci giorni di lavoro.
 [XVII] Per i motivi che ho ricordato, Cesare aveva deciso di oltrepassare il Reno, ma riteneva che l’impiego delle navi non fosse abbastanza sicuro e non lo giudicava consono alla dignità sua e del popolo romano. Così, sebbene si presentassero gravi difficoltà per costruire un ponte – come la larghezza e la profondità del fiume, la rapidità della corrente – egli tuttavia stimava necessario adottare tale soluzione oppure rinunciare all’impresa. Ecco come progettò la struttura dei ponte. A distanza di due piedi univa, a due per volta, travi lievemente appuntite in basso, del diametro di un piede e mezzo di altezza commisurata alla profondità del fiume; poi, mediante macchinari le calava in acqua e con battipali le conficcava sul fondo del fiume, non a perpendicolo, come le travi delle palafitte, ma oblique e in pendenza, in modo da inclinare nel senso della corrente; più in basso, alla distanza di quaranta passi e dirimpetto alle prime travi, ne poneva altre, sempre legate a due a due, con inclinazione opposta all’impeto e alla corrente del fiume.  Nell’interstizio collocava pali dello spessore di due piedi – pari alla distanza delle travi accoppiate – e, fissandoli con due arpioni, impediva che esse in cima sitoccassero; perciò, poggiando su travi separate e ben ribadite in direzione contraria, la struttura del ponte risultava tale, da reggere, per necessità naturale, tanto più saldamente, quanto più impetuosa fosse la corrente. Sui pali venivano disposte, in senso orizzontale, altre travi su cui poggiavano tavole e graticci; inoltre, come sostegno, a valle venivano aggiunti, obliqui,pali fissati al resto della struttura per resistere alla corrente impetuosa; così pure altre travi, a monte, venivano collocate non lontano dal ponte, allo scopo di frenare eventuali tronchi o navi che i barbari avessero lanciato contro la costruzione per distruggerla: l’impatto sarebbe stato attutito e i danni alponte limitati.
 
  La costruzione dei ponti in pietra era più complessa ma iniziava nello stesso modo con la scelta del posto dove poterlo costruire, quindi si cercava un luogo roccioso su cui fondare le spalle dei ponti perché resistessero alle piene e alle alluvioni del fiume. In origine si operava con la temporanea deviazione del corso d’acqua mediante palizzate e dighe, poi si scavava fino a raggiungere il massiccio roccioso su cui fondare i piloni necessari per erigere il ponte. Quindi veniva alzata una struttura lignea a sagoma semicircolare, su cui venivano appoggiati i conci, pietre squadrate con taglio trapezoidale. Si utilizzavano delle gru dotate di paranchi a più livelli ed un sistema di carrucole per sollevare i carichi al fine di ridurre la forza necessaria per il sollevamento dei pesi. Così si potevano posizionare le pietre sulla centina di legno, (la struttura provvisoria per sostenere gli archi e le volte) e le si univa al centro dell’arco con la “chiave di volta”, un concio più grande degli altri. A volte, le pietre venivano legate fra loro con della malta. Rimossa la struttura di legno, tutto il peso della struttura si scaricava sul terreno ed era in grado di sopportare enormi carichi.
 
  Si può dire quindi che una buona parte del successo delle costruzioni romane, così resistenti nel tempo, sia dovuto all’uso dell’arco perché gli elementi che lo compongono lavorano quasi esclusivamente in compressione. Le sollecitazioni generate dai carichi permanenti e accidentali, che la struttura deve sopportare, scaricano sempre in compressione, sfruttando al massimo la capacità di resistenza dei materiali, come la roccia o il calcestruzzo non armato. Al giorno d'oggi, le travi in calcestruzzo sono rinforzate con armature per sopportare le sollecitazioni di trazione, ma i romani non avevano questa conoscenza tecnica e supplivano a questa mancanza cognitiva aumentando il raggio di curvatura dell’arco. Si può affermare che la capacità dell’arco di sopportare i carichi è superiore a qualsiasi altra tipologia strutturale, anche a quelle attuali proprio per la sua struttura che funziona a compressione e, se costruito bene, in pietra non necessita neanche dell’uso della malta tra i conci. Poi un arco sottoposto a carichi, che creano basse sollecitazioni e tensioni sui materiali, nel lungo periodo presenta uno stress minimo o nullo, con punti di rottura al di là dei valori di carico, e regge fino a quando la roccia o la struttura resiste agli agenti atmosferici, quindi molto a lungo.
  I romani per costruire, come fu per il Colosseo, usavano un tipo di calcestruzzo stimato 10 volte più debole del moderno cemento, tuttavia il loro calcestruzzo era molto più resistente agli agenti atmosferici di quello attuale per l'abbondanza di cenere vulcanica utilizzata nella sua composizione. Ciò ha permesso ai loro edifici di arrivare fino ai giorni nostri conservando in maniera quasi intatta tutta la loro bellezza originaria. Infatti essi sono stati realizzati con archi di varie dimensioni per aumentare la luce con apertura diverse che vanno dai 5/20 m. fino a 40 m. e oltre, un esempio è l’arcata del ponte-viadotto di Narni. I pilastri venivano protetti da speroni per evitare che l'accelerazione dell'acqua in prossimità dei passaggi corrodesse l'alveo creando sprofondamenti, e spesso furono alleggeriti con aperture sopra il pelo dell'acqua, gli occhi da ponte, che aumentavano la superficie di deflusso durante le piene, come si vede nel Ponte Milvio a Roma e nel Ponte di Pietra a Verona.
 
  Le fonti antiche avevano già detto che Roma non aveva avuto alcun guado sul Tevere, un fiume che soprattutto in età romana era guadabile soltanto in casi eccezionali: le sue rive erano troppo alte e la corrente fluviale presentava grandi difficoltà perché troppo  larga, assai rapida e profonda; in pratica il guado era quasi impossibile. Ma le genti romane delle rive opposte sentirono il bisogno di comunicare tra loro; perciò fu costruito un primo ponte in legno che, secondo Tito Livio e Dionigi di Alicanasso, fu il Ponte Sublicio, nel 621 a.C., quando regnava Anco Marzio. Il ponte fu eretto nell'unico punto in cui era possibile unire le due sponde del basso Tevere, inoltre era facile da proteggere militarmente e adatto a controllare il traffico fra l'Etruria e l'Italia meridionale. In origine, sempre a Roma, i ponti erano in legno, ma dal 142 a.C le strutture lignee furono sostituite con quelle in pietra ed il primo ad essere ristrutturato fu il Ponte Emilio (l’odierno Ponte Rotto), che era stato realizzato nel 241, in concomitanza all'apertura della grande via consolare, la "via Aurelia" e poi completamente rifatto nel 12 da Augusto in veste di Pontifice Massimo.
  Con l'espandersi dell'Impero romano, per l'importanza geopolitica delle grandi strade consolari e con i perfezionamenti nelle tecniche murarie, i ponti in pietra si moltiplicarono a dismisura perché divenivano un fattore unificante dell'intero territorio dello Stato. Fu grazie all’uso della pietra che i ponti in muratura sono giunti fino a noi, mostrando un’importanza che va ben oltre la funzione di attraversamento essendo strutture intimamente legate all’architettura e al suo progresso. Studiandoli è possibile capire la manipolazione dei materiali, le tecniche della posa in opera,  l’utilizzazione dell’arco in ogni sua possibilità e la ricerca estetica della monumentalità.
  Dei ponti romani, tra le più grandi e durature opere dell’antichità, ne  vanno ricordati in particolare alcuni iniziando  da quello fortificato, in legno e calcestruzzo, di Traiano, progettato da Apollodoro di Damasco, in assoluto il ponte più lungo costruito dai romani, che misura 1.135 m. in lunghezza, 15 m. in larghezza e, per oltre un millennio, in Romania, rimase sospeso a 19 m. sopra il livello del Danubio.
  Ma accanto al ponte di Traiano ve n’erano altri dalle dimensioni più varie a seconda delle necessità, così si va dal piccolo ponte Pont-Flavien a Saint-Chamas nella Francia meridionale a quello spettacolare del Pondel in Val d’Aosta, allo straordinario Ponte sulla Guadiana a Mérida, lungo 788,95 m., che in origine misurava circa 832m. ed è il più lungo ponte di pietra di tutto il mondo romano.
  Vanno pure ricordate le molte realizzazioni di dimensioni intermedie dei ponti di Roma, imitati dagli architetti d’Italia, Francia e Spagna e dai costruttori di tutte le moderne nazioni occidentali. Impressionante poi è il Ponte-Viadotto di Augusto a Narni, una sorprendente costruzione di attraversamento imitata dagli autori dei trattati rinascimentali. Il Pont-Julien a Bonnieux presso Apt, i ponti di Boisseron e di Sommières nella Gallia Narbonensis hanno rappresentato dei modelli indispensabili da studiare e imitare per l’Académie Royale d’Architecture e soprattutto per il ‘Corps
des Ponts-et-Chaussées’.
  Molto interessanti ancora sono il ritmico Ponte di Salamanca, il grandioso Ponte di Alcántara sul Tago in Spagna; dobbiamo menzionare ancora lo spettacolare Ponte di Kâhta vicino all’Eufrate in Turchia con un’arcata a pieno centro di ben m. 34,20 di luce e una decorazione ancora quasi intatta.
  Finiamo il breve elenco, perché ve ne sono tanti altri, con il Ponte sul Göksu (Singas), affluente dell’Eufrate in Turchia, che presenta un allineamento ad angolo retto, e fu considerato un’opera meravigliosa dai Bizantini e poi dai mussulmani una delle 4 meraviglie del mondo.
  Ma già Plinio il Vecchio parlava dei ponti considerandoli dei miracula e li enumerava tra le meraviglie di Roma. Diversamente da quello che si crede, a Roma, le grandi opere non venivano costruite dagli schavi ma da uomini liberi, operai che costavano di meno perché con loro non era necessario pagare delle guardie che li costringessero a lavorare. Gli unici infortuni che potevano distruggere un ponte romano erano dovuti ad assestamenti imprevisti del terreno, per i terremoti, oppure durante le guerre, quando poteva essere necessario distruggere il ponte per tagliare la strada al nemico invasore.
 
  Ci si chiede oggi se ancora pensabile ispirarsi all’architettura romana per realizzare opere che resistano al mezzo secolo di vita e la risposta, che si può leggere su internet, ci viene data dal presidente dell’Ordine degli Architetti di Roma, Flavio Mangione: “Realizzare opere pubbliche con muratura portante mista e, magari, in legno con effetto antisismico sarebbe anche possibile, ma avrebbe dei costi significativi. Il punto fondamentale riguarda sempre la scelta di materiali e dei soldi da investire: oggi è possibile costruire un ponte di cemento armato che duri anche 200 anni, purché sia realizzato con acciaio e cemento di qualità altissima come quelli impiegati per costruire centrali atomiche. Si può anche decidere, viceversa, di costruire un’opera a “obsolescenza programmata” con materiali di minore qualità, purché si preveda, dopo un tot di anni, la sua demolizione e ricostruzione. Tutto dipende dalle scelte politiche: se c’è una visione generale, estetica, culturale e costruttiva si possono realizzare grandi opere durature. Una condizione indispensabile è però che il denaro non si perda nei rivoli della corruzione. Quello che possiamo mutuare oggi dai Romani non riguarda tanto le tecniche costruttive quanto l’approccio culturale: ampiezza di visione, importanza degli investimenti e severità assoluta nei controlli”
 
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