“Mutamenti tra tempo ed eternità” di Carmelo Fucarino

Da tempo ormai, con le conquiste della tecnica, badiamo della” tecnica”, ma poco della scienza ormai ferma al credo apodittico e assoluto di Einstein con qualche insignificante aggiornamento noto agli addetti ai lavori, si parla e si dibatte su “mutamenti” epocali, per dirla con un brutto aborto semantico. Il tutto poi si modula in una cadenza diacronica, in quel dio Kronos: «Prima la stirpe aurea di uomini mortali gli Immortali fecero che tengono le case olimpie, loro erano sotto Kronos, quando regnava sul cielo, come dei vivevano avendo l’animo senza affanni» (Hes., Opere, 109--112). Il tempo, misura convenzionale dello scorrere della vita umana, quella che è in quanto soffio (thumòs, fumus) che si espande e poi svanisce. Da anni in rapporto a questa convenzione della misura del tempo si parla di secolo “breve”, secondo la definizione di Eric John Ernest Hobsbawm (Alessandria di Egitto, 1917, London 2012):  «Il Secolo breve è stato un'epoca di guerre religiose, anche se le religioni più militanti e assetate di sangue sono state le ideologie laiche affermatesi nell'Ottocento, cioè il socialismo e il nazionalismo, i cui idoli erano astrazioni oppure uomini politici venerati come divinità» (Il secolo breve, 1914-1991: l'era dei grandi cataclismi, traduzione di Brunello Lotti, Milano, Rizzoli, 1995, p. 650). Il susseguirsi di queste diacronie si è inquadrato nel concetto di “mutamento”, che poi non è che la «forma più letteraria di cambiamento (lat. tardo cambiare, voce di origine gallica). Nella filosofia di Aristotele, il termine (gr. μεταβολή) designava il passaggio da un contrario all’altro, e precisamente dal non essere all’essere (la nascita), dall’essere al non-essere (la morte), da un essere ad un altro essere (il movimento)». In area sociologica circoscrive «il complesso delle variazioni e alterazioni, non temporanee, che avvengono nelle componenti strutturali, o nei maggiori sistemi sociali… in senso stretto, ogni singola trasformazione significativa che si produce in un determinato periodo, nella struttura della società». (Treccani, s.v.). La sua radice linguistica in effetti è più antica, la latina e rimanda al verbo “mutare” (da cui mutus, “muto”, o addirittura muto-nis, “membro virile”) con vasto spettro semantico, da “mutare”, “modificare” a “spostare”, da “scambiare” e “barattare” fino a “alterare” o “migliorare”, da “colorare” a “tradurre” o “differire”.

L’area ideologica è troppo vasta, perché se ne possano oggi circoscrivere i piani referenziali, perché si possa dare una precisa e definitiva qualificazione. Lo sviluppo delle idee è stato troppo veloce e ha coinvolto troppi ambiti spazio-temporali. Si può intendere “mutamento” nella sua forma archetipica e archeologica di metamorfosi, la cui sintesi estrema e globale furono i Metamorphosĕon libri XV di Ovidio, a partire da quel «Natus homo est, sia che costui fece da seme divino quell’artefice del mondo, origine di un mondo migliore, sia che la terra recente e separata or ora dall’alto etere, conservava i semi del cielo da cui era nato». Ed è soprattutto la sintesi perfetta in quell’incipit fulminante (I, 1-2): il suo estro (animus) lo spinge a dire di forme mutate in corpi nuovi. «O dei, le cose cominciate, - infatti voi mutaste anche quelle – favorite («In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora; di, coeptis (nam vos mutastis et illas) / adspirate meis)».

Eppure la storia del pensiero moderno occidentale, con quella particolare scienza solo nostra che fu poi denominata “filosofia” dopo Socrate e Platone, ebbe inizio nella ricerca della physis, la “natura”, con questa percezione del mutare delle cose, in quella sintesi del pensiero di Eraclito (Efeso, 535-475 a.C.), l’aforisma del "tutto scorre" (πάντα ῥεῖ), non in lui documentato, ma forse da attribuire al suo discepolo Cratilo, in Simplicio, Phys., 1313, 11, πάντα ῥεῖ ὡς ποταμός, «tutto scorre come un fiume»). Certamente ha origine dall'aforisma eracliteo: «Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va» (Diels-Kranz, fr. 91). Pertanto credeva solo nel Logos immutabile «dal quale si può intuire che tutto è Uno, e che l'Uno è tutto» (Diels-Kranz fr. 50). Si potrebbe opporre a questa sua ideologia del “divenire” la potenziale forza dell’”essere” di Parmenide di Elea, la Velia salernitana (circa 515-450 a.C.). Mi affascina di lui quella sua premonizione della sfera ripresa da Einstein con la sua teoria della relatività, come volgarmente si scrive: «Se prendessimo un binocolo e lo puntassimo nello spazio, vedremmo una linea curva chiusa all'infinito».

In questa breve analisi che serve ad indicare dei punti fermi, a partire dai cosiddetti fisici presocratici, protagonista è stato lo spazio tra il suo essere e il divenire sempre nella prospettiva del mutamento spaziale.

Eppure anche nell’ambito del tempo la problematica è stata impostata nell’antichità e citiamo la formula più esemplare, quella che sviluppa Agostino nella sua spiegazione di Dio. Si tratta dalla celebre esclusione del tempo come dato oggettivo.

Già Plotino in Enneadi, III, 7, definiva il tempo come “vita dell’anima” (ζωὴ ψυχῆς), nel movimento per cui essa passa da un atto all’altro. Ma la grande questione che imposta e discute è l’essenziale differenza che intercorre tra tempo umano e eternità, diacronia che è scomparsa dal dibattito odierno, volto a scandire solo il presente e a cronometrare l’attimo che sfugge, quel tempo non definibile tra il pensiero e l’azione, tra l’attuazione e il passato dell’idea divenuto atto passato. La tecnica della precisione che con l’elettronica spacca il milionesimo di secondo. Così egli ragionava: «L'eternità e il tempo, noi affermiamo, sono cose differenti l'una dall'altra e l'una concerne la natura atemporale, mentre il tempo riguarda il divenire, cioè questo mondo; di conseguenza, proprio grazie alla familiarità intuitiva con la loro nozione, crediamo di possedere di esse una qualche impressione evidente nelle nostre anime, parlandone sempre e nominandole in ogni occasione. Se tentiamo, però, un esame più serrato di questi temi giungendovi quando più vicino possibile, nuovamente ci troviamo in difficoltà con le nostre convinzioni. Prendiamo allora in esame le affermazioni degli antichi su questi argomenti, e ne assumiamo ognuno una diversa, ma forse anche le stesse in maniera diversa, e ci fermiamo ad esse, considerandoci soddisfatti quando siamo in grado, una volta interrogati, di ripetere le loro opinioni: così siamo paghi e rinunciamo a proseguire la ricerca sull'eternità e il tempo. Bisogna, dunque, ammettere che alcuni tra gli antichi e beati filosofi hanno scoperto il vero. A chi ciò sia capitato in modo particolare e come anche noi possiamo entrare in possesso di una conoscenza di questi temi è questione che occorre affrontare.» (III 7, 1, 1-16). E concludeva: «Se poi qualcuno volesse rappresentarsi che cosa è il tempo prima di avere completato l'eternità, potrebbe farlo risalendo per mezzo dell'anamnesi da questo mondo fino a lassù e gli sarà concesso di vedere ciò cui il tempo è simile, sempre che, quest'ultimo abbia con quella un rapporto di somiglianza» (III 7,1, 21-27).

Più sfumata è la soluzione di Agostino che nelle Confessioni si sofferma specificamente sulla definizione di tempo e se ne esce con il celebre paradosso: “Che cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so” (XI, 14, 17, quid est ergo tempus? si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti explicare velim, nescio). La convinzione di sapere che se nulla passasse, non ci sarebbe passato, e se nulla avvenisse non ci sarebbe avvenire, se nulla esistesse non ci sarebbe presente, dato che il passato non è più e il futuro non è ancora, ne deduce che il presente «se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità». Stabilita l’equivocità dei concetti di passato e futuro e di presente pone la questione del tempus longum et breve per giungere alla conclusione: «ma come fa ad esser lungo o breve ciò che non è? Il passato non è più e il futuro non è ancora. Del passato dunque non dovremmo dire “è lungo”, ma è stato lungo e del futuro “sarà lungo”» (XI,  15, 18). Passato, presente e futuro nella loro unità costituiscono il tempo. Sulla scia di questa definizione, riconduce il tempo allo scorrere della vita propria dell’anima, che implica continuità d’azione.

Ecco, c’è un’altra dimensione temporale che muta prospettiva da uomo a uomo, ma anche nello stesso uomo nelle tre fasi, il passato che ci fa quello che siamo oggi nella irradiazione di quello che saremo nel futuro. La somma suggestione della metafora platonica di “immagine mobile dell’eternità” (Timeo, 37d). Oppure l’aristotelico “numero del movimento secondo il prima e il poi” (Phis. IV, 12, 219b). Più surreale la metafora di Thomas Hobbes come “fantasma del movimento” (De corpore, 1665, 7,3). Per passare al fluire uniforme delle idee nell’intelletto di John Locke fino al “modo di comprendere, sotto una comune misura, la durata di tutte le cose” (René Descartes, Principia philosophiae, 1644, I, 57). Oppure la “misura sensibile ed estesa mediante il movimento” (Isaac Newton, Naturalis philosophiae principa mathematica, 1687, I). Potremmo proseguire con Immanuel Kant ed G. W. Friedrich Hegel per giungere infine all’innovativo e destabilizzante Henri Bergson come fluire non spazializzabile di stati di coscienza, senza distinzione di prima e poi, indistinti momenti che trapassano l’uno nell’altro, si mescolano in un tutto unitario, la “valanga” che si va ingrossando, in cui ogni istante è nuovo e si conserva (Durata e simultaneità, 1922). Chiudiamo con Martin Heidegger e la ripresa delle tre dimensioni agostiniane, ma espresse nella dimensione essenziale e costitutiva dell’”esserci” (Dasein), per proiettarsi nella “fenomenologia della coscienza interna del tempo (195-1911) di Edmund Husserl, “vissuto” ed “estasi”, “ritenzione” del passato e “protensione” del futuro nella coscienza del “presente”.

Nella pratica dai grandi mutamenti, globali perché coinvolgono tutto l’ecumene, quelli più strettamente fisici e geologici, il tanto blaterato mutamento ecologico, mai affrontato seriamente, se non con la faccina di una bambina simbolo e oggi deposto in favore del vetusto carbone, dallo scioglimento dei ghiacci all’incremento delle temperature, fenomeni già verificatisi nelle convenzionali ere geologiche senza l’odierno inquinamento procurato; dai seriali mutamenti geo-politici che hanno una loro periodicità e sistematicità dall’invenzione platonica di Politeia a quella aristotelica fino al sistema triadico vichiano e i suoi corsi e ricorsi o alle varie città del sole da Campanella in poi, dall’Utopia di Tommaso Moro a Francesco Bacone, Ernst Bloch e H.G. Wells fino alle moderne distopie da Stuart Mill a Aldous Huxley e George Orwell; dall’evoluzionismo darwiniano incontestabile a tutti i livelli, antropologici zoologici fitologici, naturale per adeguarsi ai mutamenti ambientali o forzati dall’uomo per suoi interessi di produzione e lucro; fino al sentimento di se stessi, complicato dalle fantasie freudiane che hanno reso malattie anche le emozioni.

In questa versatilità del mutamento nel nostro globo terrestre che tutto ingloba la scoperta più azzardata dei buchi neri in questo arcano universo che ci affascina e stordisce con i suoi anni-luce e le sue sonorità oltre il suono e le nostre capacità auricolari.

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