Giuseppe Pappalardo "Çiuri di notti" (Ed. Thule)

di Franca Alaimo 
 
Giuseppe Pappalardo nel suo ultimo libro in dialetto “Ciuri di notti” ci consegna una mappatura della vita in toto, così svariati sono gli argomenti dei suoi testi, in cui accanto alle tante ed emozionate incursioni nel profondo di sé, ardono parole di forte impegno civile e una pietas sincera nei confronti di tutti i derelitti e i perseguitati e della storia recente (lo sterminio degli ebrei, per esempio) e di quella attuale: migranti, senzatetto, donne violentate, vari focolai di guerra, sperequazione sociale.
Questa ampiezza tematica conforta senza dubbio la tesi della contemporaneità di ogni dialetto, che, se non usato solo per ripetere temi appartenenti ad una nostalgia  (che potremmo definire “crepuscolare”) delle belle e buone cose andate, può prestarsi ad un'indagine a raggiera, verso ogni direzione, del presente, rendendo testimonianza alla legge dell'inarrestabile dinamismo che caratterizza ogni processo espressivo.
Ecco perché il dialetto di Pappalardo, sebbene legato, come deve essere alla tradizione,
suona attuale. Della tradizione il poeta conserva l'uso delle rime, certe strutture, come il sonetto, che peraltro ritorna anche nella produzione di molti autori contemporanei (dimostrando come una forma chiusa possa essere del tutto aperta ad altre sonorità e idee), o la filastrocca tanto cara ai bimbi di altri tempi; così come si sente la liricità del Meli o quella di altri autori dialettali siciliani.
E tuttavia nella sua poesia accade quel che deve accadere: che la tradizione dia luogo al nuovo. L'introspezione psicologica, infatti, rivela un uomo tutto sprofondato nella tipica inquietudine moderna, che dice “io” pensando alla collettività,  che tra osservazione e immaginazione si sforza di cogliere la complessità non risolvibile a priori della realtà.
L'elogio della donna, che sembra, per un verso richiamare addirittura i poeti della scuola siciliana che ne glorificavano la bellezza attraverso una molteplicità di immagini attinte dalla natura, si attualizza nel momento in cui Pappalardo accusa l'uomo non solo di non saperla più rispettare, ma di non comprenderne la libertà come essere capace di scegliere da sola il proprio destino.
La lingua si piega facilmente alle varie intonazioni, ora elegiache, ora descrittive, ora dolorose, ora felici, la qual cosa dimostra la lunga familiarità dell'autore con la lingua, di cui è da anni uno studioso appassionato.
Il libro è diviso in quattro sezioni, seguite da un’appendice che comprende solo due testi, l'ultimo dei quali dedicato alla straordinaria figura di Rosa Balistreri e che ci fa venire in mente uno di quei cunti che un tempo, recitati nelle piazze, ammaliavano un pubblico del tutto misto.
La sezione che ho letto con maggiore coinvolgimento è la prima, quella che dà titolo all'intera raccolta e in cui prevale l'atmosfera notturna. Forse perché è la più intrisa di contemplazione e la parola poetica appare investita da emozioni vive e profonde; è quella in cui maggiormente si sente la bellezza della vita minacciata dall'ombra della morte e, nonostante questo, essa riluce insieme al firmamento notturno. Sarebbe facile parlare di un'influenza leopardiana, se non si ammettesse che l'astro notturno è ormai un archetipo, che non ha nulla quasi da condividere con quella violata dal piede umano, che essa sconfina in un atteggiamento mentale in cui versare insieme malinconia e speranza, luce e e mistero, tanto più resistente in un'epoca in cui il giorno, come scrive lo stesso Pappalardo nel testo “Lu iornu, la notti”, è una sorta di urlo incessante, velenoso e febbricitante, e certe condizioni, come la riflessione, la memoria, il silenzio sembrano non più praticabili.
Lo spazio in cui la luna naviga, inoltre, diventa libero e illimitato come l’inconscio del poeta, e certamente questo indagare dentro di sé è cosa nuova nel panorama dialettale moderno, se si eccettuano poche voci, come quella, giusto per fare qualche esempio, della Bonfiglio o quella, più lallante e visionaria, di Daìta Martinez.
 
 
 
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