II Capitolo - "La mia vita" di Antonio Saccà

La madre di Antonio Saccà, in alto a destra

 

 

La morte, l'uccisione, irresponsabile, ignobile di mio padre rese folle mia madre, per quanto poi conobbi, mesi, qualche anno, forse. Mia madre non fu in condizioni di ragionare, e la famiglia, benestante, amoroso, felice tra i coniugi e con i figli, anche se mio padre si scialava, pare. qualche altra donna, si smembrò. Non posso ricordare, ero appena nato, mi venne notizia dai ricordi di mia madre e dei miei fratelli. Un bambino biondo, piccolissimo, come ho detto, bastava che mi giocassero, mi sorridessero ed io sgambettavo e rispondevo con gran sorriso, a tal punto che avevano concepito un ritornello: Povero, povera zucca pelata, son venti soli, che bella risata! I miei capelli minimi e minuti a quell'epoca, li avrò, dopo, fortissimi e li mantengo sebbene mutati di coloritura. Ci disperdemmo, da Catania. Mio fratello, le sorelle, in collegio. Io pervenni alla madre di mia mia madre, in un paesino, Gualtieri Sicaminò, che diverrà mitologico nella memoria familiare materna. La madre di madre di rispettabile estrazione, gli occhi più belli che si possono immaginare, celesti azzurrini lievissimi, sciolti capelli ondeggianti, il padre di mia madre se ne invaghì passionalmente, possessvamente. Era coniugato, e padre di Giovanni, con il quale ebbi poi qualche rapporto. Per questa fanciulla il padre di mia madre spezzò ogni ostacolo, riguardo,
impedimento. Era il massimo proprietario, un palazzetto al centro al paese accanto alla cattedrale, una signoria, un signorotto, dopo il Duca d'Averna, aristocratico di nome vistoso. Prepotente, capelli avvinti al tondeggiante cranio, irti, come di ergastolano rasato o di monaco, occhio duro su di un faccione fermo, spesso, lento, pesante, il passo, quasi stesse in una armatura, lo conobbi piuttosto in età, mai sorriso, parole di comando, anziano, forse malato, saldo nel voler comandare, un comando che gli sfuggiva. Mia madre gli era devota quale uomo davvero uomo, al modo antico. Da giovane andava, con i servi, a caccia di bestie e di femmine. La fanciulla bionda dagli occhi celesti e celestiali lo eccitò ad averla irrimediabilmente, da signorotto. La rapì, la violentò, la costrinse al matrimonio. Dopo lo stupro non vi era diversa scelta, allora, quantunque i parenti della fanciulla negassero quella decisione., e la fanciulla rifiutasse. Non so che ne fu della consorte del padre di mia madre, era coniugato, infatti. Morì, fu uccisa, si annullò il matrimonio? Di certo sposò questa ragazza, ne nacquero otto figli, con perpetua violenza, immagino, poiché si odiavano. Li ho nella mente, mai parola, e se avvicinati si maldicevano, il padre di mia madre sussurrava cupo: Caterina brutta donna, Caterina donna infame; e la madre di mia madre: Niru diavuluni vattinni di cà (Diavalo nero, vattene). Ogni volta che si accostavano si oltraggiavano.
Abitavano questo palazzo al centro del paese, come ho detto, sontuoso per un piccolo borgo. Ingresso in pietra, le mangiatoie dei cavalli e di fronte le stalle. Odore stantio, di vecchio muffito, non vi erano ormai cavalli, le mangiatoie spoglie e impregnate, il suolo in pietre accostate. A destra, una scaletta in legno, nera, logora, primo piano, stanzino modesto, panchetta, sedie, credo il camino, bracieri, in quel posto ci raccoglievamo e ci riscaldavamo, finestra sul giardino. A sinistra un corridoietto poco illuminato, libri antichi, molto antichi, secoli, incartapecoriti, mi pare, e spade, questo breve corridoio giungeva in una stanza lucente che recava all'esterno il balcone dalle bombate coste ferree, la base in pietra o marmo, alquanto macerati, al cospetto della piazza, proprio la casa del signorotto, accanto al Duomo, i due poteri. Alla sinistra di questa luminosa stanza, uno stanzino, splendente, mattonelle rosse, fulgenti, viventi, curatissime, gioielleria domestica, ma tutto brillava, anche i mobili, un letto per singolo confezionato a modo, i bianchissimi cuscini, lenzuola odorose riversate accanto ai cuscini, ornate di uncinetto, una porta finestra con tendine trinettate e fuori un balconcino, che mancava, la parete troncata di sporgenze, forse devastate dai terremoti come altre parti dell'edificio. Aprire la porta finestra, e c'era il vuoto a piombo. Questo il ricetto accoglientissimo del figlio predilettissimo della madre di mia madre, il figlio ultimo, che di suo la amava alla perdizione, e vivrà per lei, e morirà vecchissimo con il nome della “mamma” sillabato come un infante che non volle crescere per rimanere figlio, di certo visse per farle da cavaliere contro il coniuge di lei e di lui padre. Si chiamava Piero, questo fratello di mia madre e nostro zio.
A destra della stanza con il balcone sulla piazza la camera matrimoniale, mobili secolari, robustissimi, letto ampio, solenne, ammantato, recintato da sostegni neri dipinti, comodini alti, una stanza funerea, troppo austera, chi sa quanto pativa la madre di mia madre che vicino dormisse o la agguantasse colui che lei avversava con sommo odio. La stanza non aveva respiro, io, pochissime volte, vi entravo come nella notte senza luna. Se invece dopo l'ingresso non camminavo nel corridoietto, potevo entrare in un vasto stanzone per la domestica, vi maturavano anche le sorbe, i pomodori venivano essiccati, una tettoia di tegolato altissimo per me piccolissimo, odori grevi salutari, anche i fichi squartati venivano essiccati. Dalle finestre dallo stanzino con il caminetto vedevo il giardino, galline indaffarate, qualche gallo a cresta alta, imperioso, erotomane. Tutto questo lo considerai quando ci stabilimmo a Gualtieri temendo la guerra che invadeva la Sicilia e Messina. Già prima, la madre di mia madre mi aveva accudito ed io la consideravo mia madre, è un momento incerto, la mia madre reale fuor di mente, e sua madre la soccorre. Chi sa che me ne venne. Io ho sperimentato la maternità, la paternità non l'ho conosciuta, la maternità, forza della vita nella vita, mia madre la penso come vita della vita, un essere umano non si stacca dal regno animale, una leonessa, una tigre, stupefacente che può fare la maternità. Lo stesso avverrà per l'amore paterno o per l'amore in genere, io dico di mia madre perché il mio esempio è in lei. Tornò alla ragione, ritornando alla ragione ritornò ai figli, la sua ragione di vita, a ventinove anni quattro figli, nessun reddito, nessun stipendio, la famiglia pur benestante viveva di rancori, invidia, mia madre era avversatissima per il matrimonio con un bellissimo uomo, i quattro figli, il benessere in città, Catania, attiva, commerciale, soprattutto qualche sorella le opponeva inimicizia. Mia madre, risorgendo, prese i figli, li raccolse dai collegi, me da sua madre, stabilendoci a Messina è incredibilmente, davvero incredibile, studiò e si diplomò maestra, e comincio ad insegnare. Tale la forza della sua animazione volitiva ma anche del suo corpo che destava impressione in chi la avvicinava. Fiera, non alta, ma così impettita vibrante da sembrare altissima, decisissima, ho un'immagine con i suoi alunni. Comincia un'avventura non comune nella mia esistenza. Siamo all’inizio degli anni Quaranta, mia madre insegna ma non insegna a Messina, deve, dobbiamo viaggiare, i miei fraterni sono rimessi nei collegi, a tratti vengono in casa. All'alba ci svegliavamo, prendevamo i mezzi, andavamo non lontano dalla città. Non era un'automobile che ci conduceva, un trenino, un treno, la scuola sulle montagne, se ben ricordo Galluffi, Roccalumera. Cominciano i miei ricordi, proprio miei, non comunicati dagli altri. Il primo ricordo che ho coscientemente, sul treno o il mezzo di trasporto, facevano pagare il biglietto ai bambini secondo l'altezza è il colui che controllava non era certo che io non dovessi pagare, capii qualcosa e mi abbassai, riuscii a non pagare ingannando il controllore. Lo ricordo come un'ombra al vento. Ma il ricordo netto è questo: non potevo stare in classe con mia madre, meno età e del resto non credo che un figlio potesse e possa diventare alunno della madre, me ne restavo dietro l'edificio sfruttando le parole di mia madre con una voglia di conoscenza che non mi ha abbandonato, forse la mia voglia di conoscere venne da quella situazione, ascoltare mia madre, in ogni caso la ascoltavo. Desideroso di rendermi studente compii un secondo atto, nella memoria fermissimo. Mi presentai a mia madre con una pagella fantasticando che andavo a a scuola e che ero stato ottimamente promosso. Non sapevo né leggere né scrivere. A detta di mia madre e dei miei fraterni, che si beffavano di me, la pagella era di completa insufficienza, ma io ero e resto orgogliosissimo di essere stato promosso e sono certo che mi ingannavano per sorridere. I discorsi di mia madre, la scuola, gli esami, le pagelle, le promozioni, le bocciature mi disponevano a quella vicenda.
Per molto, molto tempo vissi una condizione inconsueta, non ero separabile, separato da mia madre, un suo prolungamento, quel che le accedeva lo sentivo in me, se lei soffriva, soffrivo, se era felice, ma non era felice, non eravamo felici, io sarei stato felice, se lei faticava io ne sentivo la fatica, e quanto metteva a rischio l'immedesimazione mi angosciava in modo così terribile da spingermi al panico delirante. Senza mia madre nessun rimedio, inconcepivo sostituzione. Una volta accadde, forse mia madre aveva saputo di poter essere malata e disse, anche ai miei fraterni, che sarebbe andata via giorni, ma lo disse come un addio, o io lo sentii come un addio. Mi scagliai sul pavimento, sotto la finestra, una devastazione panica e grida e pianto, perduto, finito, nessun conforto, né luogo, né persona cui avvincermi, lei, mia madre o la fine. Non avvenne la fine. Mia madre restò Chi sa perché disse quel che disse. Voleva concludere la fatica di esistere? Visse cento anni, sapendo che mi avrebbe confortato vivendo, visse cento anni, per me. E per amare. Ma ripetiamo situazioni, ogni qual volta mi viene a mancare chi amo, la vita si disperde ed è vano continuare, moriamo quando perdiamo chi amiamo, poi forse quando cessiamo di vivere altri moriranno con la nostra morte.
Era tempo di guerra, le sirene, i rifugi, le esplosioni contro gli aeroplani nemici, scoppio in alto, il fumo ,guardavo come uno spettacolo, talvolta spettacolo rischiosissimo, davanti alla porta di casa una scheggia, cominciò a vorticare, poteva colpirmi, uccidermi , velocissima, contro il muro, cadde, la raccolsi, acciaio fitto, denneggiato, bastava che mi colpisse ovunque per uccidermi, dissanguarmi. Ci riparavamo nelle gallerie, sentivo lo scoppio delle bombe, il tremare del suolo. Ci raccoglievamo sotto le ali di mia madre, decise, via, al suo paese, Gualtieri Sicaminò, dove ero stato appena nato, il palazzetto del padre di mia madre, la madre di mia madre che mi era stata madre, la famiglia di mia madre, nuovi ricordi di infanzia.

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