L'autunno siciliano di Marie Luise Von Kaschnitz
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- Category: Scritture
- Creato: 29 Marzo 2018
- Scritto da Anna Maria Bonfiglio
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Nella tarda metà del Settecento ebbe inizio in Europa quel fenomeno che ancora oggi viene ricordato con la denominazione di Grand Tour. Una “moda” di carattere culturale, nata dall’esigenza di scandagliare le istanze del neoclassicismo, che spingeva aristocratici ed intellettuali ad intraprendere lunghi viaggi verso l’Italia.
In principio il percorso si concludeva a Napoli, oltre la quale, era credenza comune, sorgessero le Colonne di Ercole. Ma in seguito all’esperienza del barone von Riesedel che, sollecitato dall’antiquario Winckelmann oltrepassò lo Stretto, si verificò in Sicilia un forte incremento di viaggiatori. L’Isola, che i compilatori cosmografici del Cinque e Seicento avevano descritto come terra selvaggia di miniere e caverne di zolfo, cominciò a vivere in quel periodo la stagione mitica della sua riscoperta, un’età felice che si sarebbe conclusa nei primi anni del Novecento con il dissolvimento delle due ultime dinastie commerciali: i Florio e i Withaker. Fino a quel momento la Sicilia aveva ospitato nomi illustri di artisti, di scrittori e di regnanti. Numerosi e prestigiosi furono soprattutto i viaggiatori di lingua tedesca quali, solo per citarne alcuni, Goethe, Freud, Wagner. Quest’ultimo dimorò a lungo a Palermo dove, chiuso in una camera del raffinato Grand Hotel et des Palmes, che a lui avrebbe intestato in seguito una delle sue grandi sale, completò il suo Parsifal.
Nell’autunno del 1951 arriva in Sicilia la scrittrice tedesca Marie Luise von Kaschnitz. L’Isola le si presenta nella realtà di un dopoguerra che la vede dilaniata, sì, dai bombardamenti, ma ancora custode di un passato di arte e di civiltà che nessuna guerra avrebbe potuto cancellare. Da questa esperienza di viaggio nascono nove poesie che alla fine del secolo scorso sono state pubblicate dalle Edizioni della Battaglia con il titolo di “Autunno Siciliano” e con la traduzione di Maria Teresa Galluzzo e Fabio Oliveri. Nove poesie ciascuna delle quali ritrae e racconta alcuni dei luoghi dell’isola.
Se Jean Houell aveva saputo cogliere i colori e le atmosfere dei paesaggi e dei palazzi nobiliari; se Norman Douglas aveva denunciato la misera realtà dei carusi delle zolfatare; se August von Platen era stato ammaliato dalla sacralità della bellezza classica e Goethe aveva cantato la terra dove “umil germoglia il mirto, alto l'alloro...”, Marie Louise von Kaschitz riesce a coniugare lo splendore della civiltà classica con lo squallore e il degrado post-bellici.
La silloge si apre con un testo che tratteggia il profilo dell’isola:
“Vi disegno il profilo. Un’ala come dalla spalla d’una dea
della Vittoria.
Lo schizzo, una zolla di monti rocciosi
rimasta in piedi sotto il fulgore del sole,
mentre con alga e sabbia e moto dei pesci
il mare ricopre le dolci pianure.”
Sei versi nei quali l’aspetto geografico viene delineato come da una esperta matita d’artista.
E continua addentrandosi nei particolari attraverso una scelta semantica che ne esplora colori, contorni, riti, dominazioni:
“Questa dalla terra ferma, questa dall’Africa,
questa dalla Spagna, questa dal Peloponneso:
ecco le vie dei navigli dei conquistatori stranieri.
Ora sollevate dal sentiero del giardino i ciottoli bianchi
a due, a tre. Non vi risplendono
simili a templi e duomi nella luce lunare?”
Oltre l’annientamento bellico ecco rifulgere le vestigia delle antiche civiltà che nulla riesce a cancellare. Le pietre perdono la loro valenza di detriti rimasti ad indicare lo sfacelo e la distruzione e assumono valore di testimonianza nei confronti di un passato di arte e cultura rimasto inciso nel tempo.
Dieci distici e un quadrisillabo finale raccontano Palermo in sequenza ossimorica: Palermo che luccica di chiese e gelsomini e Palermo di tanfo di morte e germogli color carne; Palermo “arcobaleno e nave arrugginita”, “tunica ridotta a polvere corona e spada”. Nessun’altra parola poteva dire meglio la duplicità di una contraddizione radicata nel tempo e nella storia.
L’atmosfera autunnale induce la poetessa ad indagare la natura e le cose. Nelle gocce di pioggia respira l’arcobaleno, gli uomini sugli asini “cavalcano ai margini del cielo”, nelle capanne rurali si dialoga di pene antiche e miseria, ma infine il sole che “risucchia dal fango fattorie e vetri” risplende come “piccola luce rossa”. E via via tutto viene incluso nel dettato poetico: banditi e cattedrali, templi e miti, rovine e splendori, vivi e morti, una tassonomia in cui non si classificano generi e specie ma nella quale si riconosce il segno della potenza affabulatoria dell’autrice. La Sicilia che si presenta a Kaschnitz è luogo di miseria ma anche crocevia di siti e figure che hanno lasciato il segno: Agrigento, Siracusa, Selinunte; Pirandello, Aretusa, Empedocle.
“La tempesta ha spezzato il cavo. Non c’è luce
nel duomo d’Agrigento.
Solo candele intorno al rigido catafalco
e le preghiere grigie delle ombre.”
Un incipit che immerge subito nell’atmosfera mistica e al contempo spettrale di un luogo sacro in cui si ritrovano figure religiose e personaggi della mitologia greca:
“Fedra nella luce delle candele, l’Addolorata
esce dal sarcofago e Ippolito.
Gli zoccoli scalpitano e la santa camera ancora
risuona del folle lamento d’amore.”
A Siracusa Kaschnitz ritrova “la ninfa /che vaga tra i rami, ricoperta/di frutti di martorana”
“Ti prenderanno, Aretusa?
Già mormori di nuovo
colori di muschio nel pallido papiro,
già si muove il tuo indocile amante,
riversa oltre il muro nella luce dell’alba
onde di schiuma salata.
Ma trova parole di pietas anche per il bandito “che ha concluso la sua vita come Gesù Cristo/per mano di un traditore”, nel quale ci è consentito individuare quel Salvatore Giuliano ucciso nel 1950. E’ la Sicilia che ancora e sempre vive nella contrapposizione, nel contrasto stridente, nell’antitesi, e che questo poemetto ha consegnato ai lettori di due secoli quale prova illuminante di come la poesia possa rendersi anche documento storico.
Marie Luise von Kaschnitz nacque nel 1901 a Karlsruhe ma ancora giovinetta si trasferì con la famiglia a Berlino. Nel 1925 sposò l’archeologo Guido von Kaschnitz-Weniberg e con lui nel 1941 si stabilì a Francoforte sul Meno che considerò sempre come la sua vera “patria”. Compì molti viaggi e soggiornò a lungo a Roma. Scrisse poesie, romanzi, saggi e biografie e conseguì diversi premi letterari. Morì a Roma nel 1974.