I Capitolo - "La mia vita" di Antonio Saccà

 Giuseppe Saccà seduto con un amico
Quando si perviene  ad un'età nella quale il passato  è di molto superiore al futuro possibile, certo, occorre, se vogliamo, continuare a vivere, ma anche, se vogliamo e sentiamo, ricordare quel che abbiamo vissuto. La memoria è l'unico modo per sottrarre alla totalità della dissoluzione noi stessi. La memoria regge dopo di noi, avveturosa, desolata, non conta, essenziale: ricordare. Anche il vuoto, ricordato, colma. Vi sono state individualità intensissime, uomini che hanno nella loro vita, sempre recisa dopo un battito, rarissimi uomini che lasciano segni d'opera. Tuttavia l'esistenza è la radice insradicabile per colui che la vive come vita propria,e vuole e sente, se vuole e sente, curarne memoria, dire a sè, ad altri: ho vissuto, questa è la mia vita, rievocare amori, vicende, ideali, coloro che furono  a noi legati dai quali ci siamo disvelti con dolore, rimpianto. Se così avvenne. La morte durante la vita.
E dunque, la mia vita, non  soltanto la mia vita, è la vita di una generazione che in grandissima parte ebbe una speranza, un'ipotesi di avvenire favorevole, speranza atterrata, ne cercò altre, le distrusse tutte, ed ora sta nel vortice di scelte, precipizio o  scalata alle cime. A quale uomo, a quale umanità? Vedrò, vedremo.  Dopo la guerra cercammo la vita ancor più della pace, o altre guerre ma per la libertà, la giustizia, il benessere. Ideali, traversie, tempo dei sacrifici, tempo dei risultati, anni Cinquanta, Sessante, Settanta, verso la giovinezza. Fino al presente. Molta preoccupazione, oggi, per il tempo a venire. E, dietro, il (mio) passato, ucciso dal Tempo. (Auto)biografia di una generazione che incarno perché ho vissuto me stesso in quelle speranze, illusioni, delusioni. E' del tutto la mia biografia ed una autobiografia indiretta degli altri. Ciascun  individuo è intrecciato a ciascun individuo restando solo. L'individuo è  un assoluto. Donne, amici, opere, viaggi, coscienza di vivere, e di non vivere, di incoscienza interminabile. Narrare,   tutto diviene narrazione, il passato subisce questa mutazione,si fa narrazione, dall'universo alla più minuziosa  formica, tutto sotto il segno del Tempo, il grande narratore. In questa trama sterminata vi fu, vi è ancora un  io  soggettivo consapevole di esistere. Un io che è stato e resterà: Antonio Saccà.
 
 
 
 
 
 
LA MIA VITA
Nell'anno 1936 il 10 maggio alle due della notte feci ingresso nella vita , ultimo  di una coppia, i miei genitori, prolitici, quattro figli . Ne venni fuori di sette mesi, ignoro se per mia voglia di esistere  nel mondo o perchè mia madre subì timore per qualche avvenimento che rese precoce la nascita. Non so con certezza, credo nello spavento di mia madre. Pesavo al minimo, minimamente, questo  continuamente dichiarato da mia madre, una misura di pane, non oltrepassavo una misura di pane, esattamente un chilo e dueento grammi, un residuo, fu utilizzato latte di asina, suppongo anche latte di  mia madre, per qualche mese, come dirò. La disposizione vitale mi  diede  forza suppletiva tanto neccessaria difettivo come ero. Ritengo  ci fosse meno capacità scientifica per la sopravvivenza, allora,dunque   la disposizione alla vita  costituiva il fondamento. Vivere, dunque, amato, amatissimo, mio padre aveva dichiarato che io concludevo la famiglia. Quand'ecco,  una vicenda da manicomio,  la pazzia in uscita, l'inimmaginabile realizzato,sconvolgente, sconvolgentissimo, su di me, la mia famiglia,  noi, eravamo padre, madre, quattro figli, mio padre di 36 anni,  mia madre di 29 anni,  una coppia appassionatamente avvinta, si amavano, mia madre era innamoratissima, mio padre credo senz'altro lo stesso, la tradiva, rientrava nel dongiovannismo, il modello dell'epoca, oltretutto mio padre era bellissimo. Qualche sua immagine, la serenità dello sguardo, la signorilità  dei tratti, siciliani come nettezza e tuttavia raffinati, una certa malinconia di persona pensosa, tutto di lui è dignitosa distinzione,   persona matura, responsabile,  forza contenuta che può erompere, lo sguardo del sognatore. Forse il  tempo lontano dell'immagine  trasfigura quel presente andato in questa sospensione vagheggiante. O forse è la vicenda che dirò a  trasformare l'immagine, quella vicenda. Eccolo,  seduto, vestito a puntino,  sicuro, in se stesso, giovame ma di virile serietà matura, a quel tempo gli anni si valutavano  non come oggi, gambe accavallate, in abbandono, capelli nerissimi,  levigati all'indietro.  Mia madre, in altra immagine, abito cincischiato, gli occhi anneriti, accesi, sprofondati, chi sa, per gli inganni di mio psdre, per  eccessi di amore, una donna  degli anni trenta, la  manifestazione dell'essere donna femmina, abiti serici stretti al corpo, e lo sguardo  appassionatissimo,  gli occhi avidi e sprofondati come da insonnia o eccesso di amore,  dicevo,o angoscia, immagini che sembrano statuarie, “pose”, quando ancora esisteva  una ritualità individualistica. Negli otto anni anzi nove anni di matrimonio, anche se allora  avveniva comunemente, non vi era risparmio della paternità e della maternità,  figli a mareggiate,, ho detto, quattro, inizialmente  donne,Caterina, otto anni più di me, Ermanna, sei anni più di me, Francesco, quattro anni più di me,  ed io. Mio padre era geometra,di sicuro   faceva misurazioni, agrimensore, aveva un suo potere, estimazione da colleghi e dipendenti, un titolo di studio allora  riceveva considerazione e prevalenza, anche autorità e autorevlezza. Anni, molti anni dopo, incredibilmente incontrai il genitore di un mio conoscente, era stato al servizio  di mio padre, incredibilmente, insisto, mi disse che mio padre era  valentissimo parlatore e bellissimo uomo. Fu il solo estraneo a dirmi su mio padre, certo me ne parlavano mia madre, i miei fratelli,  poi conobbi  fratelli e sorelle  di mio padre, conobbi anche genitori,  sorelle e fratelli di mia madre.
Io ero, mi diranno,  un esserino  felice, anche se mia madre soffriva gli inganni del coniuge,  si amavano ed amavano i figli, ed i figli, anche io, con  qualche spicciolo di esistenza, pare che manifestassi  gioia al loro amorevole sguardo. Mi canticchiavano questo motivetto:”Povero, povero zucca pelata, son venti soli, che bella risata”, ed io scambettavo festoso. I miei capelli erano  quasi inesistenti. Poi ne ebbi  e li mantengo.
Vivevamo a Catania, non  la “nostra” città, mio padre e mia madre erano  del messinese, mio padre di Messina, mia madre di un psesino non lontano da Messina. Una famiglia dall' avvenire certo. Ma vi è vi è qualcosa nel giro delle sfere, una zampa di gatto, una mescita avariata, un pendolo senza l'asta,un binario arruginito, un'onda irregolare,  tu guardi il cielo, fiducioso,e ti sprofonda il piede!  Mio padre viveva per i figli. Mio padre fu ucciso! Millenni  passati, e passeranno millenni, io voglio, io devo ricordare. Io non posso dare la vittoria al silenzio. La morte di mio padre. Io devo risarcire la sua morte. Io che non conobbi mio padre ho l'obbligo di farlo conoscere. Ora, prima che il Tempo si ritragga anche da me. Non può,  non posso lasciarlo   smarrito nella dimenticanza, lui giovane, bello, così appartenente  alla vita, ombra svanita. Mio padre fu ucciso, lui che viveva per noi figli, li aveva generati per la vita con noi.  Assurda l'intera esistenza, forse,  ma di certo si aggira la follia. Mio padre, vedere i figli, Villa Pricipessa Mafalda,estate, nel 1936,forse primi giorni di settembre. io di pochi mesi, la domestica mi reca in Villa, mio padre giunge dal lavoro, vedere presto i figli, scorge sulla panchina un ragazzo che dà fuoco ad un anziano per scherno, mio padre lo schiaffeggia o altro,il ragazzo corre dal padre, costui  si intossica di umori vendicativi, si arma, corre, cerca mio padre, lo scorge, lo uccide. 1936, io sono appena nato,  mio padre appena ucciso
(CONTINUA).
 
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