Le “Favole” di Trilussa fra tradizione e modernità - di Maria Nivea Zagarella

 

 

Centocinquanta anni fa (26 ottobre 1871) nasceva a Roma Trilussa (Carlo Alberto Salustri), poeta satirico, favolista, e lirico in sordina. Nella patina romanesca di un italiano borghese, dal tono medio e colloquiale, seppe calare con un umorismo ora giocoso e brioso, ora più seriamente riflessivo, pungente o malinconico, i costumi del suo tempo, giungendo -soprattutto attraverso l’allusiva simbologia animalesca delle Favole- a una raffigurazione metastorica e universale dei difetti e vizi degli uomini. Coltivò la favola specificamente durante il ventennio fascista, ma aveva già esperito il “genere” sin dal 1901 con le Favole romanesche, e nel 1903 con Er serrajo.

           

Fra  “tradizione” e “modernità” creativa

Trilussa reinventa originalmente i modelli classici di Esopo (VI sec. a.C.), Fedro (I sec. d. C.), La Fontaine, l’abate Meli (presente nella sua libreria), vivacizzandone il campionario con animali anche di piccola stazza e meno abituali nel repertorio favolistico, quali pulci, pidocchi, tarle, lumache, grilli, lucertole, mosche, ragni, lucciole, farfalle…accanto ai più tradizionali lupi, agnelli, pecore, somari, leoni, volpi, topi, cani, formiche, cicale, con scelte preferenziali per il gatto, il cane, il porco, la scimmia, il pappagallo. Animali tutti “rivisitati” e modernamente adattati o rovesciati. Ma protagonisti saranno, come normale nel “genere”, anche uomini, piante e cose inanimate: se già in Esopo troviamo il muro, il chiodo, l’olivo, il melograno..., in Fedro la lima, la montagna…, in Trilussa parlano la spada, il coltello, la violetta, l’albero di bosco, lo specchio, l’olivo…(Favole moderne, Le storie, Giove e le bestie). Lo scetticismo sociale avvicina il poeta moderno al pessimismo/fatalismo di Esopo e Fedro, ma Trilussa rispetto all’apologo esopico “librato nell’assoluto”-come lo definiva nel 1985 Mandruzzato- appare più simile a Fedro per gli agganci visibili alla contemporaneità e per certi esiti risentiti, che nella gnome fedriana “sapevano” di tradizione giambica alla Archiloco e alla Ipponatte. Se già per Fedro “gli uomini visti da vicino (alias la Roma imperiale di Tiberio, Caligola, Claudio) sono sempre <<l’uomo>>” (Mandruzzato), questo è vero pure per Trilussa, il cui occhio non guarda solo all’“universale umano”, ma attraversa con ironica disinvoltura o punte di sarcasmo gli eventi dell’Italia giolittiana, la Grande Guerra, il primo dopoguerra, il regime fascista. Inevitabili dunque le varianti rispetto alla tradizione favolistica e l’invenzione di nuove favole, come d’altronde già fece Fedro rispetto ad Esopo, emulando, non ripetendo (ne solus esset, studui…nec haec invidia, verumst aemulatio). In Trilussa, l’agnello infurbito e l’agnello prudente (negli anni ’30) non si lasciano abbindolare dal lupo. Il primo, al lupo che lo lusinga a passare sull’altra riva, dice: accetterò l’invito/ quanno avrò sete e tu non avrai fame; il secondo al lupo che gli chiede: Che ne pensi de me?...spieghete mejo…risponde: Me sento troppo debbole/ pe’ diventà sincero. La cicala trilussiana, sullo sfondo della Roma mondana e corrotta pre e post anni Venti, in inverno si fa mantenere dal grillo che la corteggiava a giugno. Il “suo” sorcio ricco de la capitale rassicura l’ospite sorcio de campagna, spaventato dalla trappola intravista, affermando che lì, in città, le trappole sono una cojonatura: vi finiscono solo i sorcetti poveri e sciocchi, non quelli ricchi; le formiche laboriose sono “invase” nella loro casa dal ragno prepotente con una azione assimilata ironicamente a una “conquista coloniale”; il leone generoso verso la volpe astuta, che lo ha adulato, vuole pubblicizzata (propaganda del regime ammaestrando) sul giornale la propria generosità; nella raccolta Ommini e bestie (1923) il re della foresta si fa radere la criniera perché oggi un Sovrano pratico/ dev’esse democratico/ specialmente nell’abbito che porta e il frizzo politico era già nella ambigua polisemia del titolo della favola: Democrazzia reale (sic!); nella silloge Acqua e vino (1944) un topo, sfuggito prima al gatto rosso, poi a quello bianco, cade alla fine della giornata tra le grinfie di una micia nera, e riflette amaramente che la tinta cambia, ma la fine è quella. Quanto al “lupo” innumerevoli sono negli anni le variazioni: un lupo sinceramente convertito dalla vista/scoperta delle stelle, metafora delle cose belle, mescolatosi al gregge con addosso la pelle di un abbacchio morto, si rivela più coerente e umano del vecchio che scanna invece tutte le pecore e contratta su di esse, e il lupo conclude che l’omo predica la bontà, ma all’atto pratico… è un lupo dipromatico/ che specula sur sangue de l’agnello; diverso il lupo convertito da “necessità”, perché, caduto in un precipizio, ha battuto il grugno e ha perso i denti, conversione la sua simile a quella della vipera ormai vecchia e sdentata la cui forzata crisi di coscienza il pipistrello ridimensiona obiettandole: er veleno c’hai sparso fra la gente… resta sempre quello. Altrove entra in scena Giove, che ora al lupo -che si sente “calunniato” dalle pecore di rubare troppo- risponde: Rubba meno, ora alla pecora -che ricorre a lui contro i guai che le procurano i lupi- dice invece (e siamo negli anni 1928/1932), con tipica morale esopica e alla Fedro, di stare zitta e sopportare: Hanno torto, lo so, nun c’è questione/ ma li lupi so’ tanti e troppo forti pe’ nun avé raggione. E non mancano la volpe rivoluzzionaria e antimilitarista che vuole aboliti gli eserciti e le barriere fra nazione e nazione, e divora poi il cappone che ha convinto ad abbattere il recinto messo intorno ar gallinaro; e il coniglio umanitario e socialista e perciò contrario a qualunque armamento (e siamo negli anni 1915/1917) che convince il leone a farsi tagliare l’ogna da un callista. Emblematico e originale è pure il confronto tra l’indecifrabile “raglio” dell’asino che, ragliando, slarga le froce, ride e guarda il sole, e il “grugnito” sempre eguale e chiaro nel significato del porco col muso immerso nello scodellone, confronto che porta il poeta a chiedersi chi è più felice e più contento. Chi, pur vivendo a stento, conserva in cuore una fede e una speranza, o chi raggiona solo co’ la panza? Trilussa -come si vede- si muove consapevolmente fra passato e presente, fra condizione umana universale e agganci al proprio tempo, fra leggi invariabili dei rapporti umani e verifiche nell’attualità di tale ripetitività. Le due dimensioni sono compresenti nella favola lunga Er serrajo dove la rivolta per la libbertà, contro il domatore e la domatrice, degli animali in cattività passa significativamente attraverso le fasi del Comizzio (confronto fra le diverse posizioni e proposte dei singoli animali: leone, asino, lupa, orso, cane, gatto, tigre, aquila nera, jena, maiale, serpente, coccodrillo),della Ribbejone (chiusura nelle ex gabbie del leone e della jena del domatore e della domatrice, e requisitoria contro di loro della Scimmia), e della Fine de lo sciopero, con la vittoria finale dell’astuto domatore grazie al linguaggio da lui sfoderato, artatamente social-progressista (popolo miocompagni…), e al patto stretto sempre da lui sottovoce con i due rappresentanti dei ribelli, il maiale e il gatto opportunisti, i quali convincono gli altri a rientrare nelle gabbie, agitando entusiasti l’ipocrita ritornello populista: Avemo vinto…avemo vinto…ciavrete/ qualunque concessione chiederete, a condizione però che finisca subito la cagnara degli scioperanti. Va velocemente osservato, quanto alla continuità con la tradizione favolistica, oltre l’inevitabile fallimento del sogno di libertà e l’immobile divisione nel mondo fra servi e padroni ribadita dal serpente, che nel Comizzio le argomentazioni dell’asino sulla sua condizione riflettono la famosa favola 15° del Iibro I di Fedro sul “basto” destino equivalente sotto ogni padrone, e la 1° del libro IV sempre di Fedro sull’asino sfruttato dei Galli di Cibele divenuto dopo morto tamburello, e che la funzione della scimmia inquirente e giudicante è già in Esopo e Fedro, anche se ampiamente dilatata da Trilussa nella Ribbejone e giocosamente integrata del “mito” cristiano (l’omo umano fatto da Dio co’ la fanga) e darwiniano (e c’è chi dice poi/ che [l’uomo] sia venuto da un abborto mio [cioè dalla scimmia]). Quanto al “presente” invece, risultano a un tempo godibilissime sul piano artistico-creativo e amarissime sul piano politico le due “trovate” del domatore nella Fine de lo sciopero: quella di una nuova politica un po’ mista/ uguale a la politica italiana,/ con una monarchia repubbricana/ clerico-moderata-socialista… e l’altra delle iniezioni da fare al popolo ogni mattina (“iniezioni” di sapore orwelliano!) co’ la morfina… che significa -si ribellerà inutilmente il cane- provede a li bisogni/ co’ quello che se vede ne li sogni! In alcune Favole il piacere dello scherzo e della inventio poetica fine a se stessa supera ampiamente il risvolto moralistico e/o storico. Dal lungo elenco possibile in tal senso (El leone riconoscente, La violetta e la farfalla, Er rospo e la Gallina, L’omo e la scimmia, L’antenato, L’ortolano e er diavolo, L’omo e er serpente, La fine der filosofo…) basta isolare la storia di Er re e er Gobbo, dove il Gobetto che campa allegramente dando i nummeri a la gente (sic!) dice che ha copiato dal Re; quella de La pecorella, dove l’imprudente pecorella annegata è compianta dall’uomo, con opportunistico lapsus rivelatore, non come Povera Pecora, ma come Povera Lana!; quella di Er disarmo, dove l’incorreggibile vipera e il porcospino non vogliono il disarmo generale, perché alla “vipera” andrebbe a male tutto il veleno, tranne l’eventuale fortunata (sic!) scappatoia della redazione di un giornale (e Trilussa viveva della sua attività giornalistica!), e il “porcospino”, senza le spine, rimarrebbe solo porco. La maggior parte dei testi però oscillano fra storia e metastoria, e alcuni bene marcano, per la peculiarità dei contenuti, la fase storica che li ha ispirati. Inscrivibili nella dimensione metastorica sono quelli che ritessono, in prospettiva ciclica, la forza dell’istinto carnale (La porchetta bianca, La carriera del porco, La corte del leone) o l’inguaribile viltà, ipocrisia, astuzia/crudeltà, egoismo/opportunismo, calcolo/avidità, violenza/prepotenza degli uomini, mascherati spesso di umanitarismo e mimetizzati, nel perseguimento del loro utile, dietro il comodo paravento degli Ideali e della Morale. La mosca, musicista “involontaria” con le sue cacche/note musicali, rimprovera il maestro di musica senza ispirazione, che prima se ne è servito nutrendola a zucchero e canditi e dopo che gli ha sporcato le camice bianche vuole ammazzarla, dicendogli: Vojantri sete tutti eguale:… nun fate caso a certe puzzonate/ finché ve fanno comodo, ma quanno/ capite che ve possino fa’ danno, diventate puliti…; il “cane” fedele di Fedro che non si fa ingannare e corrompere dalla generosità del ladro, in Trilussa farà sì il moralista con il gatto, che ha rubato la bistecca e fregato il padrone, ma saputo che nessuno lo ha visto, né il cuoco, né il padrone, chiede al gatto di fare a metà; il ragno falsamente umanitario in una favola salva col suo filo la mosca caduta nel barattolo di marmellata, per mangiarla lui, e in un’altra inveisce contro il sistema barbaro e feroce della striscia di carta moschicida, perché la carta, catturandolo, ha sottratto alla sua fame il moscone. Al funerale del gatto e a quello del leone vengono fuori le ipocrisie della gatta moglie e dei falsi amici. La volpe, incontrando un gallo, lo risparmia magnanima (?) solo perché sazia della gallina appena divorata. Le scimmie e gli scimmioni dello zoo si ritrovano con pudichi calzoncini e calzoni di tela cachì, perché il direttore ha un parente che fabbrica quella tela. La tartaruga che ha chiesto a Giove una casa piccola a misura di poche amiche sincere (fonte qui è Fedro nella cui favola protagonista è Socrate) si sente dire dal dio (proprio perché fedrianamente Vulgare amici nomen, sed rara est fides): Te lo prometto… ma sarai costretta/ a vive in una casa così stretta/ che c’entrerai tu sola. Un topo bravo a “rosicare e magnare“ cerca di sfuggire al gatto facendosi scudo ora del quadro di Giordano Bruno, martire del libero pensiero,ora di quello di San Lorenzo martire, anch’egli morto “arrostito”. Quanto al “gatto”, nei testi in cui è protagonista, è sempre campione dell’indipendenza personale (Adamo e er gatto), di una solidarietà che è convenienza (La solidarietà der gatto), di un umanitarismo interessato (La previdenza, dove la sua previdenza sembra anche allineata con la politica delle nascite pro patria del regime), di una furbizia egoistica (Er gatto avvocato) che lo rendono sempre poco affidabile (come i gatti lettighieri di Fedro della favola 16° dell’Appendix perottina), ed è sempre lui che “ammodernato”, con abile accomodata retorica di circostanza porta ogni volta alla misera gallina la notizia della “bella” morte da martire/eroe del marito Pollo, cucinato col pomodoro della gloria. Nella favola La libbertà de pensiero (in Favole moderne,1922) lo troviamo nelle vesti di un Gatto bianco presidente del circolo der Libbero Pensiero che intima a un Gatto nero, libero pensatore come lui, di dare le dimissioni dal partito, perché  -gli dice- qui la poi pensà liberamente… ma a condizione che t’associ a l’idee der presidente/ e a le proposte de la commissione, con il risultato -sottolinea Trilussa- che il Gatto nero pe’ restà ner Libbero Pensiero/ da quela vorta nun pensò più gnente.

             Risvolti politici e lirici delle Favole

Nella favola or ora citata e in quelle qui di seguito elencate (La purcetta anarchica, Er congresso de li cavalli, Le bestie e er Crumiro, L’incarico a la Vorpe, Er Leone e er Conijo, La Paura, La Lega, il Ragno bianco, Le Lucciole e lo Scorpione, Er pastore e gli agnelli, L’Ape, Er Baco e lo Scorpione) l’invenzione letteraria incrocia la “storia”, così come ai tempi di Fedro, che annoveravano la pratica delle delazioni alluse nelle false accuse del lupo all’agnello (Haec propter illos scripta est -moraleggiava l’autore latino- homines fabula, qui fictis causis innocentes opprimunt I°,1), il servilismo cortigiano (lI°,5; I°,6), la persecuzione politica ai danni dello stesso Fedro (vedi la favola esopica del sole e delle rane ripresa da Fedro e allusiva a Seiano suo nemico…). In Trilussa la “storia”, filtrata dal sorridente disincanto e dalla scettica leggerezza del poeta, dà validamente una mano alla “metastoria” nell’Italia degli anni pre e post Grande Guerra. L’Italia cioè dei partiti e della “disciplina di partito”, delle lotte sociali e degli scioperi, della formazione/crescita di una coscienza di classe e delle promesse non mantenute ai reduci, dei Governi mutevoli e delle scissioni interne ai socialisti, dei contrasti fra neutralisti e interventisti, della spregiudicatezza degli “imboscati” e dei “pescecani” che hanno a loro “mentore” lo Scorpione. Anni quelli anche di una confusa ricerca della Pace e della inefficienza della Società delle Nazioni. Se in Esopo la “pulce” rea di punzecchiare tutto il giorno un uomo, quale simbolo negativo del male, andava schiacciata senza pietà, nel rovesciamento per così dire positivo che ne attua Trilussa diventa, in Favole moderne, una purcetta anarchica che va in soccorso delle rotelline sfruttate dell’orologio, ma il suo generoso sacrificio (alleggerito dalla sottile ironia del poeta che le fa dire ad hoc da una rotellina: voi che ci avete er sangue (sic!) ne le vene!) risulterà inutile, perché non riesce a cambiare l’ingiusto, gerarchico, ingranaggio della società/orologio. Comode poi si rivelano le divisioni interne al fronte dei cavalli “protestatari” per il padrone, che può continuare a frustarli; solidali con il cavallo che sciopera, per avere più fieno e biada, si dichiarano il mulo e il somaro, che si rifiutano di fare i crumiri, non l’uomo, che il crumiro invece -precisa il poeta- lo fa co’ vera passione: per un sordo se vende er fratello,/ pe’ du’ sordi va dietro ar padrone, finché un giorno tradisce e rinnega/ er fratello, er padrone e La lega. Lucido è il cane che alla volpe che deve formare un ministero suggerisce che un Majale ar governo po fa’ gioco/ p’avé l’appoggio de la maggioranza…; e sintomatico di tutta una temperie socio-culturale è il cavallo, che gonfio di nazionalismo imperialista (so’ coraggioso e forte) dice al mulo che lui va ar campo pieno de fede… tutto contento de sfidà la morte e sacrificare la vita pe’ la conservazione de la razza e il mulo gli risponde: su per giù pur’io/ che davanti ar pericolo rinculo,/ non conservo la razza a modo mio? Idem gli agnelli che, dopo le iniezioni fatte loro dal Pastorello per sviluppare in essi l’istinto sanguinario, diventati “leoni” e vinto il “lupo” (cioè vinta la guerra), non vogliono più tornare agnelli “tranquilli” alla fattoria e dicono a chi li ha richiamati a suon di zampogna: sta attent’a te, ché d’ora in poi/ li padroni der campo semo noi! E mentre il Ragno bianco (Benedetto XV) cerca nella burrasca con la sua barca/mezza noce di salvare er seme de quell’arbero d’ulivo/ che ce darà la Pace Universale, il cane e il gatto, finita la guerra, stringono fra loro una Lega (?) che fra alterni e reciproci “sgraffi agli occhi” e reciproco “prendersi per il collo”, si rivela come controscena del fittizio “volemosi bene” della Società delle Nazioni. Significativa è inoltre, in relazione al discorso che stiamo facendo, la “metamorfosi” comportamentale, nel passaggio storico dal regime liberale al fascismo, del pappagallo trilussiano che, negli anni 1915/1917, torna nel suo bosco istruito e borioso come un professore di università per avere imparato a memoria (sic!) le 12 belle parole con cui gli uomini formeno la Storia e che so’… le litanie dei discorsi e de le poesie  (Iddio, Patria, Famija, Fratellanza, Onore, Gloria, Libbertà, Doveri, Fede, Giustizzia, Civirtà, Uguajanza), ma negli anni Trenta al gatto che gli chiede: Perché nun parli mai?, risponde: Più che le parole, ho imparato a sta’ zitto, e in Acqua e vino, la raccolta che riunisce testi scritti fra il 1931 e il 1944, lo ritroviamo, per essersi rotto il becco nel tentativo vano di togliersi l’anello della catena, con un grave difetto di pronuncia: invece de di’ <<viva [la libertà] >> dice <<fifa>> e ‘r rimanente je s’incastra in gola. E con sulla bocca la smorfia quasi strafottente di Pasquino, il Pasquino che non ha ancora detto l’urtima parola, scorrono, negli ultimi anni prima della morte (21 dicembre 1950) le altre favole di Trilussa: dopo il lontano brioso antecedente della gatta nera che sotto l’arco di Tito rifiutava nel 1923 il mezzo biscotto inglese perché mangiava solo trippa nazionale, troviamo ora la mosca che, visto nella bottega del droghiere <<Il Vero Insetticida Nazionale>>, commenta: Me farà più male,/ ma per lo meno è produzzione nostra; la lumachella della vanagloria che, strisciata la bava sull’obelisco (allusivo a tutte le “fanfare” del regime), dice che lascerà un’impronta nella storia; il Vento che alla Canna, che gli ricorda che non può spezzarla, spiega, cinicamente, che se ne ride di lei: me contento -proclama- che te pieghi e t’inchini quanno passo (sic!); il misterioso fischio (gemello della misteriosa risata del surreale racconto di Pirandello C’è qualcuno che ride) che accompagna ovunque l’Imperatore, che non capisce se è di un cristiano o della ruota della berlina che ha bisogno di un po’ di grasso. E infine le favole coraggiose e splendide del Grillo zoppo, che per sfuggire dal cappio del ragazzino e tornare nel suo giardino, si tronca da se stesso la zampetta: Er dolore fu granne -afferma- ma la stilla de sangue che sortì da la ferita/ brillò ner sole come una favilla./ E forse un giorno Iddio benedirà/ ogni goccia de sangue ch’e servita/ pe’ scrivere la parola Libbertà; e dei Nummeri, dove il numero Uno, allo zero che non vale niente dice: Io invece se me metto a capofila/ de cinque zeri tale e quale te,/ lo sai quanto divento? Centomila… è quello che succede ar dittatore/ che cresce de potenza e de valore/ più so’ li zeri che je vanno appresso. Ride dunque Trilussa di cuore nei suoi musicalissimi versi, e con franca spigliatezza, ma anche riflette con l’amaro in bocca, perché gli uomini sempre se magnano fra loro, come fa notare la Jena al leone ne La scappatella del leone, e troppo facilmente scadono nella dignità (La ricetta magica). Tra le pieghe del suo pirotecnico “divertimento” satirico, che è linguistico-letterario, concettuale, intellettuale e al quale spesso ogni presunto “progresso” si configurava come regresso (Er gambero e l’ostrica), “divertimento“ quanto mai fertile -come abbiamo visto- di invenzioni, battute, trovate, stoccate, Trilussa ha disseminato pure molti, sensibili, segni del suo “culto” per la Poesia, sebbene reso più spesso (e in allusivo sottinteso dialogo con gli altri autori romaneschi) attraverso il suo rovescio: il sorcio letterato che, per esse rimarcato/dar pubbrico bestione, montato sul cataletto del leone morto, improvvisa un sonetto ricopiato, il merlo che non vuole fare nei testi trilussiani la parte dell’imbecille stereotipo uccelletto che sa solo “trillare”, il somaro che strappa tutte le penne all’oca per innalzarsi a “poeta” e scrivere li sonetti romaneschi. Figure invece proiettive e altrimenti emblematiche sono la cicala de Le pretese der camaleonte, e il somarello de La fine del Leone. Se in Fedro la cicala che disturbava con il suo insistente canto diurno il sonno della civetta, veniva punita e uccisa dalla civetta inascoltata, Trilussa, con un rovesciamento positivo qui della figura simbolica della cicala che fa riandare alla poetica di Callimaco, e soprattutto all’abate Meli che disprezzava la pricchia (avara) formica, si identifica invece con lei, perché la cicala difende la libera trasparenza del suo “immobile” canto al sole (la luce der sole è sempre eguale) dai rimproveri minacciosi del camaleonte, non curandosi del mutare di colore di questi, ora rosso (socialista), ora verde (massone), ora più nero der carbone, e perciò scocciato dell’”immobilità” del canto di quella. Emblema positivo pure il somarello della seconda favola, perché non cerca, come il su citato sorcio “letterato”, applausi dar pubbrico bestione, e non piange con lacrime spremute da un rimario, ma de core, la morte del leone, preferendo restare somaro come prima, cioè essere se stesso. E tracce ha lasciato diffuse pure nelle Favole, anche se a pennellate brevi e veloci, il poeta romano del suo “lirismo in sordina”, quasi temesse di venire troppo allo scoperto con la sua anima. Un lirismo che confessa il suo disagio per la “pianta uomo”, che quanno vo mannà per aria/ quello ch’ha stabilito la natura,/ se nun ce po arivà co’ l’impostura,/ ricorre a la barbaria (Un martire: l’uccello de richiamo) e per la “storia”, nella quale tutto rimpicciolisce, se la si guarda dall’alto: L’ommini stessi -dice l’Aquila- o principi o scopini/ da lassù, sai che so’? Tanti puntini.  Tutta gente -osserva contrariato lo Specchio- che me passa davanti e me se specchia [ma] che ce rimane? Gnente. Nucleo intimo e profondo del Trilussa lirico sono la nostalgia -come detto altrove- delle “cose belle”, metaforizzate in genere nelle stelle (La tartaruga, Lo specchio, L’omo e l’arbero, Er vento e la nuvola, i versi finali de Er nano diplomatico, il nano di buon senso satira della magalomania bellicista e sconsiderata del regime); l’amore semplice per la Natura: il sole, che riaccende le illusioni; le lucciole in poetica gara/sfida notturna con il chiarore della luna; il merlo che sgrulla la guazza della pianta di rose, s’arinfresca e canta, l’albero/miracolo carico di olive benedetto dal sole e da Dio, olivo che in Esopo non voleva diventare Re e in Trilussa, messo su un altare, non sa che farsene di una religione/superstizione; la quercia stecchita dal fulmine (ricordo pascoliano) coperta nella ferita dalla Natura con foglie di rosa; le nuvole di maggio gonfie di pioggia e cariche del fuoco del tramonto mentre romba un trimotore da bombardamento; l’ape che succhia un bottone di rosa e se ne va. L’accettazione infine rassegnata della perdita delle illusioni, nate quanno m’mmaginavo -dice- che la vita/ fosse una strada commoda e pulita (Soffitto). I testi che forse meglio sintetizzano il grumo lirico della sua anima e gareggiano fra loro in bellezza e ricchezza di significati sono quello della Tartaruga che, fatto un passo più lungo (sic!) della sua zampa, cade co’ la casa vortata sottinsù, contenta però che prima de morì [vede] le stelle, e la poesia/parabola Cortile che, nel luminoso domestico sbandieramento di panni stesi al sole che giocano col vento, descrive l’umile “microstoria” di una camicia bianca che s’abbotta d’aria… arza le braccia ar celo e le spalanca come a dire: Tutt’er monno è mio!, ma cambiato il vento, gira, se sgonfia, resta appennolone…/ E un fazzoletto sventola l’addio. Nessun vittimismo tuttavia in Trilussa, nessun auto-compatimento! Solo la lucida coscienza/presenza sempre a se stesso der savio che tutta la vita si è mascherato da matto! Il “savio” appunto messosi alla scuola anche della sapienza di Esopo e della fierezza di Fedro.

 

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