“L’Orfeo gotico” di Lorenzo Fabris

Rosengarten
 
 
 
 
Al castello di re Laurino.
Alzai gli occhi nell’ora del tramonto e vidi incendiarsi il Giardino delle rose. Mentre salivo verso la montagna, nella mia mente si ricomponevano le immagini della leggenda del re tradito dalla bellezza del suo reame. Il ricordo della regale e straziante passione stranamente non mi spingeva a percorrere a ritroso il cammino iniziato. Vidi stagliarsi su una parete di roccia la trama millenaria della storia e ogni leggenda, ogni fiaba della Terra delle montagne prendeva forma a colori accesi. I grandi affreschi nelle sale del castello fissavano per sempre amori, trionfi e tragedie e tutto si lasciava contemplare in un silenzio senza lacrime.
Riviveva il mondo degli antichi tornei. Cavalieri che avevano solcato le alpi giostravano in una ridda di colori e stemmi gentilizi ad maiorem gloriam dei. Salii sulla torre più alta e vidi il Giardino delle rose nel suo splendore di favola e allora si schiuse il ricordo di un passato lontanissimo trascorso nella città gotica.
 
 
La morte dell’Uomo Selvatico.
Aprii gli occhi e i primi attimi di vita sigillarono l’atroce. Poco lontano, ai margini del bosco, si compiva il sacrificio di colui che anticamente era sceso a valle per portare agli uomini il bagliore di un mondo dissolto. L’Uomo Selvatico veniva fatto a pezzi tra grida e canti bestiali da contadini e pastori con il volto tinto di bianco. Si ripeteva così il destino del figlio di Zeus e di Persefone, il dio tracio massacrato dai Titani (Essi affondarono la lama del Tartaro nel corpo di Zagreo, mentre contemplava un’immagine ingannevole riflessa sullo specchio). Oltre il delirio degli assassini, tra il crepitio dei tanti fuochi accesi, non ci fu promessa di resurrezione.
 
 
La fuga degli angeli
In una torrida notte d’estate vidi gli angeli abbandonare i patriarchi. Lungo le vie della città vecchia i sacerdoti piangenti andavano cercando il bagliore di qualche piuma caduta a terra. Per troppo tempo la stirpe di Abramo aveva carpito l’effimera vicinanza di chi ormai concedeva fulgide apparizioni solo a pochi poeti già in punto di morte. Le schiere celesti anelanti a nuova vita lasciavano la città gotica e varcavano le soglie del tempo. In un castello poco distante da Trieste, nell’abbraccio di un impero decrepito, un poeta attendeva il loro ritorno.
 
 
Il maso
Arrivai all’antico maso e il sole stava tramontando. Dalla stalla uscirono quattro uomini e portavano un carretto biascicando una nenia. Una vecchia distesa, vestita di nero, gli occhi serrati e un rosario tra le dita ossute. Io riconobbi la balia che per secoli aveva intonato sul trono di legno le fiabe e le leggende della valle. Passandomi accanto quegli uomini non si avvidero della mia presenza né di quella di mio padre e proseguirono per il sentiero che entrava nel bosco. Presi dallo zaino un libro e mi fermai a sedere su un ceppo; mio padre mi esortava a proseguire e raggiungere la casa. Non feci così caso all’incedere insicuro di chi mi si faceva incontro, un bambino in abiti troppo larghi seguito da tre conigli e tutti mi passarono vicino e non mi videro e anche loro presero il sentiero del bosco e furono inghiottiti dalla selva altri secoli di dolcezza e serenità. Mio padre mi indicò la porta con la punta di un coltello (non volli guardare se c’era del sangue) e allora lasciai cadere il libro e camminai fino all’ingresso.
Il profumo del cirmolo e le immagini sante alle pareti della Stube. In alto la croce del dio morente e le spighe di grano (di nuovo torna alla mente il dio tracio. Divorato dalle donne o condannato dal Sinedrio?) Si squadernò un intero mondo e sopra la panca di legno in alto sulla stufa e oltre le fiamme e i grani del rosario si levava alta la preghiera e mi traghettava nel sogno dove poi tutto (legno, fuoco e santi) si ricomponeva e si offriva all’abbraccio di Mnemosine.
 
La morte del precettore.
Il mio precettore morì in un caldo pomeriggio d’estate. Si fece sera e si celebrò il funerale nella cappella di famiglia. Mi avvicinai al feretro per baciare la fronte dell’uomo che per primo aveva dischiuso per me i cancelli che davano su mondi bellissimi e struggenti. Lo guardai e il suo volto era quello insanguinato di un fanciullo. Avevo quindi già dimenticato il colpo di fucile e le grida e il profilo del corpo che cadeva a terra? Un prete diceva messa e Requiem Aeternam, mentre i mendicanti strisciavano verso l’altare e allungavano le mani a riempire le loro unte bisacce con le ostie consacrate.
 
 
La scuola nelle catacombe.
Ricordo un dedalo di umide gallerie e pareti a tratti illuminate dalle torce. Lì sotto trascorrevano eterne le giornate altrove assolate dell’infanzia. Per lungo tempo scordai le montagne, troppo distanti e irraggiungibili, scordai le montagne, le cime innevate e i laghi dove un tempo mi ero immerso sotto lo sguardo benevolo di un fauno. Lì sotto uomini e donne con le ossa lunghe e il viso scavato vagavano per i cunicoli con una lanterna in mano, salmodiando a bassa voce preci e articoli di fede. Incrociandomi, mi chiedevano del sole e delle altre stelle per essere sicuri che non ne serbassi alcun ricordo.
 
 
La biblioteca del monaco.
Non so come alla luce fioca di una lampada da tavolo il dorso dei libri illuminasse di riflesso la mia figura. Un uomo sprofondato in una poltrona di pelle, lo sguardo fisso davanti a sé. È cieco” mi disse qualcuno che mi era vicino, qualcuno che mi aveva condotto fin lì. Sugli scaffali si susseguivano le ombre di creature favolose, cavalieri e burattini. Una fanciulla restava distante e si copriva il volto con le mani di fronte a quelle figure. Fuori era la rivolta. Rumori e grida giungevano attenuati ma io vidi una testa rotolare sotto un lampione. Qualcuno picchiò forte alla porta, poi il tumulto cessò. Ripresi a guardare le ombre che si muovevano lungo gli scaffali, la loro eleganza contrastava con l’aspetto stravolto della fanciulla che ora giaceva in un angolo. Oltre alle ombre non vedevo che gli occhi spenti dell’uomo, e di colui che mi aveva accompagnato in quel luogo sentivo solo un profumo forte e dolciastro di tabacco.
Vennero a prendere la morta e la portarono via e quando il corteo dei beccamorti sparì nel buio del vicolo, il grillo parlò (abitava in quella stanza da più di cent’anni): “Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori e che abbandonano capricciosamente la casa paterna. Non avranno mai bene in questo mondo e prima o poi dovranno pentirsene amaramente”. Allora la lampada si spense.
 
 
Sarentino.
La casa dei contadini sorgeva su un dirupo spaventoso. Fuori imperava la paura e di taluno ancora oggi si narra: “Morì precipitando nell’orrido”. Dentro era la serenità dei volti e degli occhi in cui mi perdevo precipitando anch’io, ma in mondi alpestri di erba falciata e di voci a radunare la famiglia nell’ora del tramonto. Preghiere antichissime a invocare la grande dea sotto l’immagine pietosa della Vergine, volti benevoli di cristianissima favola e ore lunghissime che trascorrevo nella neve, disteso su una panca di legno mentre il sole mi bruciava il viso.
 
 
Primo incontro con gli antichi maestri.
Mentre camminavo su un prato ancora bianco di brina vidi portare al fiume il corpo del sacerdote di un antico culto solare. Lo deposero sulla riva e lo abbandonarono alle acque. Una voce conosciuta mi chiamò dall’alto del ponte invitandomi a distogliere lo sguardo. Altri corpi senza vita in abiti talari giacevano dall’altra parte del fiume e una vecchia rinsecchita li ricomponeva e serrava loro gli occhi e quando un nuovo corpo veniva sospinto in acqua, mormorava una nenia che nessuno intendeva. Tutt’intorno le risa sguaiate degli uomini non turbavano il suo ufficio. Riconobbi la voce di chi mi aveva chiamato dal ponte: i miei antichi maestri parlavano fitto l’uno con l’altro e le loro parole, la stanca litania della vecchia e le risa del popolo si alzavano penose verso il cielo incendiandolo orrendamente.
 
 
I sapienti.
All’alba mi trovai di fronte al palazzo dei sapienti che in tempi lontani avevano forgiato le leggi della città gotica. Il profondo fossato, scavato per difendersi dagli assalti nemici, correva tutto intorno a un luogo sorto per il silenzio e la preghiera. Un vecchio dalla lunga barba bianca mi chiamò a sé con un cenno della mano e nel suo sguardo vidi il rimprovero di chi si sentiva esautorato. Io avevo respinto il verbo venerando, l’antichissima parola che non erra. Condotto dinnanzi al giudice rimasi silente ad ascoltare la sentenza. Mi portarono poi quattro carcerieri nelle segrete del palazzo dove l’odore di muffa si mischiava a quello dei corpi in decomposizione di chi mi aveva preceduto.
 
 
Primo Vere.
Si aprì la porta dell’ostello in cui trascorrevo le mie notti e sospinto per vicoli bui mi trovai di fronte alla cattedrale. Mi vidi seduto sui gradini di pietra in una sera di aprile e accanto lei, gli occhi abbassati e il capo coperto da un grande cappello nero. A fatica l’enigmatica fanciulla rompeva un silenzio millenario mentre un corteo di donne entrava, entrava e usciva dalla chiesa passandoci accanto. Il lume tremolante delle candele che stringevano tra le mani illuminava a tratti i nostri volti sui quali andava dipingendosi la gioia di una grazia già minacciata dal tempo. Era la sera in cui gli angeli chiamavano gli uomini a sostenere il loro sguardo terribile e le divinità dei laghi intonavano un canto lontano, nordiche creature delle acque che dimoravano da sempre in quei luoghi.
 
 
Nella vecchia Parrocchiale.
Forse fu sul volto della Vergine nella vecchia parrocchiale che intesi per la prima volta la disperata impresa di sottrarre gli angeli precipitati senza colpa nel mondo mortale allo sguardo bestiale di servi e carrettieri. Corone e vesti preziose apparivano le uniche degne testimonianze di una grazia fragilissima e negata alle braccia scheletriche della morte. In quella piccola chiesa riviveva il mito di una religione ancestrale a celebrare la purissima infanzia già pronta ai sacrifici più cruenti.
 
 
Le sere di fuoco.
Nella memoria ritornano le sere del terribile rumore, le strade della città vecchia invase dal suono di pifferi e tamburelli, luci e vampe di fuoco e gli androni dei bordelli spalancati ad accogliere e dar rifugio a studenti e soldati in licenza. File intere di storpi e mutilati, soldati a cavallo armati di sciabola, orribili brandelli di carne si mescolavano confusamente negli abbracci e negli amplessi. Qualcuno tracciava cerchi di gesso colorato sulla via ricoperta di escrementi, altre voci mi invitavano a cercare rifugio sui tetti. Resisteva in me quasi un ricordo di martirio a illuminare una promessa di inauditi piaceri.
 
 
La prima ascesa alla montagna
Lasciai la città che era ancora notte. Lo sciacallo che dormiva sul mio petto era scomparso, ingannato forse dal rumore degli spari sulla strada. Attraversando un vicolo lo vidi attorniato da un gruppo di soldati in pattuglia. Ridendo forte quegli uomini e rotolandosi a terra la bestia, passai veloce e non visto al sentiero che portava alla montagna. Da una baracca di lamiera mi giunse l’eco di una musica ammaliante e quando si aprì la porta io vidi bene in un cono di luce padre e figlio legati insieme e il grosso ariete con la gola squarciata. Lo sciacallo si voltò a guardarmi e sorrideva.
Ripresi il cammino ma subito mi sentii chiamare per nome e una voce infantile dal folto del bosco intonò una melodia che avevo scordato. Un momento, e nella mia consapevolezza apparve una bambina e mi faceva strada illuminando il sentiero con una torcia infuocata. Oltre il ricordo si stagliò allora l’ancestrale bagliore di fuochi accesi sulle cime ad allontanare gli inverni. Bellezza delle fiamme che si levavano altissime nel placarsi di ogni angoscia.
 
 
Gli assassinati.
Spesso mi accompagnavo nei tristi giorni della scuola a giovani devoti alle Muse che tentavano il sortilegio decifrando la poesia sul volto glaciale di fanciulle morte anzitempo. Passeggiavamo tra gli alberi lungo il viale del parco, intenti a riconoscere nel suono delle nostre voci ogni minimo accenno di magica vocale (seguivamo allora le orme del poeta di Chalerville). Ore e ore trascorse ai tavolacci di una vecchia osteria a leggere e a scriver versi. Ricordo una sera, in quattro stavamo seduti a un tavolo e una donna dallo sguardo laido ci serviva da bere. Raccontava di essere la figlia della figlia di una concubina del poeta ragazzo, acquistata in Africa insieme a una partita di fucili. Non prestavamo orecchio al suo racconto e le sue parole si perdevano inchiodandola a una volgare pazzia, mentre i miei sodali vivevano attimi di grazia lontanissimi dal vino pessimo che la donna ci mesceva. Mi commuoveva la loro insistenza disperata fino al muro dell’esecuzione. In molti morirono sotto i colpi del fucile, altri si lasciarono prendere dalle acque del fiume.
 
 
Secondo incontro con gli antichi maestri.
A un tratto mi trovai nella vecchia locanda dove i miei antichi maestri si riunivano a pregare. Udivo i peana intrecciarsi agli inni sacri (appresi solo dopo, in un sogno lucidissimo, che mai uno di quei canti varcò la soglia d’Oltretomba). L’oste grasso e sudato portava da bere strisciando tra i tavoli su cui erano ammassati i libri. Una vecchia nana in pose che si susseguivano sempre più oscene giocava con un anellino, portandoselo ora a un dito ora un altro della mano sinistra. Sarà la tua sposa disse l’oste rivolgendosi a me. Ero stato promesso e già fervevano i preparativi del matrimonio. Il più giovane, il più riverito dei maestri tracciava segni su fogli bianchi con una penna intinta nel sangue e quei segni componevano versi che subito si seccavano divenendo illeggibili. Il vino sporcando la carta non ricomponeva il disegno.
 
 
Sopra un ritratto di Santa Caterina.
Contemplavo finalmente in un altrove di silenzio la grazia della santa che aveva legato alla ruota e alla spada il suo martirio e nei tratti delicati del volto riconoscevo colei che in paese avevano sepolto poche settimane prima. Anche la fanciulla che ora vagava nell’Ade aveva patito il supplizio di un mondo irriconoscibile e a nulla era valsa la fuga nei boschi innevati (la rincorrevano cani rabbiosi e uomini a cavallo e suoni gutturali che si inseguivano tra gli alberi). La spada che le mozzò la testa e poi il corteo funebre e i poeti che portavano in processione quel corpo senza vita per riporlo in una grotta e farne sepolcro e luogo di preghiera, tutto questo ancora rintocca terribilmente nel cuore eppure viva è la forza che dalle cristalline parole di quel capo mozzato, capo di Orfeo, sorgente eterna di canto, scaturisce a ogni nuovo giorno.
 
 
La seconda ascesa alla montagna.
Da giorni avevo oltrepassato il bosco, ma ancora non riuscivo a vedere il vecchio convento dove aveva trovato rifugio la principessa scampata al massacro d’autunno. I bambini della scuola l’avevano trascinata per i capelli giù dalle scale del palazzo e poi inseguita per le vie della città armati di bastoni. Ora lei viveva lì, mutilata nelle carni e nell’anima, e le era di unico conforto la compagnia delle monache e il tempo trascorreva nel tentativo di ricreare l’arabesco dei giorni scomparsi disegnando sui muri del convento i proibiti sentieri che portano alla luce. Arrivai e bussai forte al portone. Una vecchia venne ad aprire ma non mi fece entrare e indicò muta il camposanto dove da secoli trovavano sepoltura le sorelle. Non per volontà ma come spinto da una forza occulta mi ritrovai a varcare il cancello. Le lapidi riportavano nomi e date e improvvisamente sentii il tocco gelido di una mano sul braccio. La principessa mi guardò e mi sorrise e poi mi mostrò le dita macchiate di pastello. “Oltre questi colori non vi è mai stata speranza per nessuno” disse. E poi sparì.
 
 
Passaggi.                         
Le sere d’estate a volte mi strappavano alle favole antiche e così mi trovavo a camminare nel giardino della villa dove secoli sontuosi e insanguinati avevano visto danzare leggerissime nelle vesti incantevoli le delicate fanciulle di Fragonard. Note chiarissime volavano oltre i cancelli a raggiungere satiri e ninfe e i loro amorosi giochi tra gli alberi. Una notte presi per mano la principessa muta che seguivo dai più lontani giorni d’infanzia e ci perdemmo su strade di campagna illuminate dalla luna. Le sue parole erano silenzi e sterminati paesaggi di paradiso si aprivano a ogni nostro passo solo nelle linee, solo nelle curve tracciate dalla mia mente. In un attimo ebbi la certezza nel disfarsi in polvere dei suoi occhi gentili che anche quel maestoso e tremendo sogno mi veniva negato per sempre.
 
 
Terzo incontro con gli antichi maestri.    
Gli antichi maestri mi istillarono odio e ferocia contro i sapienti che avevano scritto la storia della città. Il livore covava da secoli in quegli uomini avvezzi alle più ardue imprese dell’intelletto e livore e purificazione mi insegnavano nelle lunghe ore trascorse in una stanza buia. Venne poi la lunga veglia in armi e la promessa che l’alba mi avrebbe infine visto uomo, soldato e amante. Una notte eterna in una cella monacale, meditando cupamente sull’inutile sorte di ogni cosa mentre fuori i tamburi ritmavano il passaggio dei lunghi cortei di invitati al banchetto nuziale. Alle prime luci dell’alba vennero a prendermi e attraverso vicoli tortuosi mi portarono in una sordida locanda. Lo sposalizio con la vecchia nana doveva avere inizio.
 
 
Gli amori della notte infame.
Lungo i portici della città gotica gli antichi maestri attendevano l’ora del tramonto per accompagnarsi ai sapienti. Deposte le armi intrecciavano i loro corpi in danze selvagge. Le loro copule orrende avvenivano al buio perché nessuno doveva sapere dell’insana passione sorta sul corpo straziato dell’Uomo Selvatico. In quelle stesse notti, in un’altra cittadina della Terra delle Montagne io sostavo in silenzio sotto la statua tricipite di colui che come Dioniso poteva ora risorgere per il solo straziante desiderio dei musici e iniziavo a comprendere in modo oscuro e confuso la salvezza concessa dall’arte dopo la morte di ogni divinità.
 
 
Terza ascesa alla montagna. La fine.
Mi trovai a salire l’erto sentiero ben oltre le ultime case e la chiesa ormai bruciata. Due notti e due giorni, brevissime le soste per riposare, fino all’immenso ghiacciaio. Lassù, lontanissimo da ogni legame terreno, si compiva per l’ultima volta il sacro rito: la vergine stava per essere incoronata. Avvolta in un manto celeste, il viso infantile e lo sguardo di chi accetta su di sé l’estremo pericolo (l’amore dei poeti, l’inestinguibile fiamma) veniva condotta dalle sue ancelle nella sala di vetro. Il suono di un organo si diffondeva scendendo fino a valle e la natura tutta veniva magicamente vivificata da un’unica e pur effimera promessa di salvezza. Mi ritrovai di nuovo nel Giardino delle rose al bagliore intenso di un fuoco acceso. La regalità di Laurino splendeva e illuminava di rosso vivo, laggiù, l’orizzonte della città gotica.
 
 
******
 
Pin It

Potrebbero interessarti

Articoli più letti

Questo sito utilizza Cookies necesari per il corretto funzionamento. Continuando la navigazione viene consentito il loro utilizzo.