La “mobilità” come risorsa vitale ne “I vagabondi” di Olga Tokarczuk - di Maria Nivea Zagarella

Contenuti e struttura del libro “I Vagabondi” di Olga Tokarczuk, premio Nobel per la letteratura 2018, riflettono scelte comportamentali della stessa autrice, e la “frammentata” globalizzazione dell’esperienza umana contemporanea. Se i versi di Wislawa Szymborska (premio Nobel 1996) colpiscono per la potente capacità di sintesi storica novecentesca, per l’incanto naturalistico e l’ironia caustico-liberatrice, se la limpida fluente prosa narrativa di Svetlana Aleksievic (premio Nobel 2015) coinvolge in una poderosa anamnesi collettiva dell’era comunista e postcomunsta attraverso il pathos testimoniale di centinaia di voci anagraficamente reali, la scrittura di questa terza donna, irrequieta, vitalistica, trasgressivamente ironica e con espressionistici picchi allucinatori, immette in un altro tipo di storicità, l’attuale globalizzata mobilità, della quale dà una personalissima contraddittoria interpretazione. Propone la Tokarczuk il continuo movimento/cambiamento di spazi fisici e orizzonti mentali come reazione alla morte, al male/oscurità, ai lacci/staticità comunque essi vengano oggettivamene e soggettivamente configurandosi per l’individuo, ma non si nasconde anche il dramma di una ”mobilità” quale inconsistenza valoriale e assenza (purtroppo) ontologica di un termine, di una “meta”. L’io narrante del libro fugge dalla metaforica trappola/oscurità della sera da lei intuita già da bambina come il limite del mondo sognando fin da allora di essere una barca sulla volubile acqua vagabonda del fiume Oder che scorreva, sfilava, tutto preso dai suoi obiettivi nascosti all’orizzonte, in qualche luogo lontano al Nord. E il giovane serbo, che un giorno caricherà sulla sua auto mentre viaggia nella Repubblica Ceca, le dirà che, se prima o poi ogni permanenza in qualsiasi luogo rivela l’onnipresenza dei defunti (alias le generazioni che lì ci hanno preceduti), viaggiando non c’è tempo per tale sterile meditazione: a chi viaggia tutto sembra nuovo e puro, virginale e in un certo senso immortale. Nell’intersezione fra tempo lineare umano (la retta che corre dal nulla al nulla) e l’impenetrabile tempo circolare divino (il mistero privo di serietà di Cioran?) si gioca l’occasione/scelta soggettiva: la salvaguardia della personale libertà o l’appiattimento/assuefazione/etichettatura, la capacità di conservare la propria anima scintillante e colorata o la sua trasformazione in una piccola anima piatta, ritagliata dalla carta, dal giornale... I tiranni di ogni tipo -annota l’io narrante- hanno nel sangue  l’odio per i nomadi… costringono a diventare sedentarie tutte le persone libere, marcandole con un indirizzo che diventa la nostra sentenza, e altrove precisa che psicologicamente lo stato dell’isola è uno stato in cui si rimane entro i propri confini senza essere disturbati da influssi esterni… tutti i bisogni sono soddisfatti nel proprio ambiente. Solo l’io sembra reale, “tu” e “loro” sono fantasmi indistinti. Bisogna dunque non farsi “isola,” ma neanche “burattini” degli altri o delle cose (cosa comprare e cosa vendere); bisogna “muoversi”, saper cambiare, andare verso… spinti dal “desiderio”, anche se non si esce da un ordine vitale fatto solo di configurazioni effimere. Pertanto autostrade autobus auto treni traghetti navi ostelli metropolitane aerei aeroporti hotel hall di lusso scale mobili porte girevoli diventano nel libro spazi transitori di passaggio dei “fiumi” di viaggiatori, singolarmente colti o a gruppi/masse, protagonisti delle molteplici “storie” tutte autonome le une rispetto alle altre, che ora brevi ora più estese, ora del tutto inventate, ora costruite su aneddoti storici (dal ‘500 all’800) affollano le pagine del testo, incrociando in significativa sincronia i personali “pellegrinaggi” fisici e conoscitivi (viaggi, visite a musei anatomici, casualità di incontri) della stessa voce narrante. Una voce narrante curiosa di scienze, di religioni, delle strutture del corpo umano  (perfetto o con anomalie) a proposito del quale, visitando il museo di cere anatomiche di Vienna, il Josephinum, si chiede:<<Chi ha inventato il corpo umano e quindi chi ne detiene i diritti d’autore per l’eternità?>>, curiosa di quegli atti unici che fanno la rappresentazione dal titolo Vita. Anche la struttura del libro a frammenti, a episodi, o come spiega la stessa autrice “a costellazione”, mima la mobilità multisenso di cui stiamo parlando. Le storie individuali raccontano in genere di “sconfitte”. Per l’ordinato (ma distratto nella vita privata) rappresentante di libri Kunicki la sconfitta sarà l’inspiegabile (per lui) allontanamento/scomparsa, prima durante la loro vacanza nell’isola di Lissa, poi da casa, della moglie con il figlioletto, la quale tuttavia lo aveva già ammonito della sua trascuratezza nei loro confronti (così ti saresti ricordato che esistiamo). Per il marinaio giramondo Eryk, scappato giovanissimo dal suo paese (uno di quelli neutri, piatti e comunisti) e ridottosi, dopo molte avventure, a fare la spola 8 volte a giorno fra un’isoletta remota del Nord (In cosa si distingue qui il 1946 dal 1976 e quest’ultimo dal 2000?) e la terraferma, sarà l‘impossibile fuga ribelle con il traghetto verso l’oceano aperto, nel tentativo di spezzare per sé e i suoi abituali traghettandi la routine della linea retta. Analogamente per l’infelice Annuska la quale, accompagnandosi talora a una vagabonda seguace di una setta libertaria, vaga per giorni -come qualche altro irregolare simile a quella- dentro l’affollatissima metropolitana di Mosca in una fuga altrettanto vana dalla sua casa, dalla famiglia dove l’aspettano un marito silenzioso e un figlio dolorante a vita sulla sedia a rotelle, fra i quali farà ritorno. Da un’isola del Pacifico invece, dove secondo gli autoctoni Dio si è stabilito portando con sé tutta la bellezza del mondo, attraverso un lungo viaggio intercontinentale, tornerà temporaneamente in Europa, nella nativa Polonia e in una Varsavia ormai estranee (la sua famiglia era “fuggita” da quell’assurdo e ostile paese comunista alla fine degli anni ’60), una affermata biologa, ormai sposata, chiamatavi tramite email dal suo ex degli anni studenteschi, per aiutarlo a morire con una iniezione del veleno da lei creato, liberandolo così dal dolore continuo e dall’inesorabile paralisi progressiva. Oltre quel dolore -le aveva scritto- non c’è nulla, non è previsto nessun compenso…si va verso un’inimmaginabile oscurità…con decine di gironi di sofferenza…E non c’è (si noti il riferimento dantesco) nessuna guida, nessuno ti prende per mano e ti spiega la causa, perché non esiste nessuna causa, non esistono né punizioni né premi. Negativo come si vede l’approdo ideologico come per Annuska, alla quale in chiesa il volto di Cristo nell’icona scura sembra un volto di annegato, un Dio debole, che ha perso, un Dio che non aiuterà né sosterrà né darà conforto, non purificherà, non salverà. Con la morte vincente si misura pure l’ottantunenne professore che ogni anno, fisicamente in decadenza ma estremamente lucido di mente, coltissimo e entusiasta, fa la crociera primaverile attraverso le isole della Grecia tenendo lezioni di civiltà greca ai passeggeri e che ancora viene progettando un viaggio sulle tracce di Ulisse. Morirà cadendo sul ponte per la collisione della nave con uno yacht. Altrettanto fervorosa (ma illusione vana di immortalità per il retro pensiero ironico dell’io-narrante) l’ossessione del dott. Blau per il perfezionamento della scienza della “plastinazione” inseguito attraverso studi, congressi, pellegrinaggi nei musei ospedalieri sotterranei fino al misterioso laboratorio (vigilato però dalla sua vedova in calore) del più esperto dott. Mole. Per Blau è scandaloso che il corpo umano sia così fragile e delicato…e che gli si permetta di disfarsi sotto terra o di farsi bruciare come fosse immondizia. Altrove la voce narrante in visita al Mutter Museum di Philadelphia osserverà alquanto interdetta che oggi gli abili plastinatori sono gli eredi degli imbalsamatori, degli impagliatori, degli anatomisti e degli acconciatori di pelli del passato. Ma diverse erano le finalità di ricerca degli anatomisti secenteschi: Frederik Ruysch sezionava per poter conoscere meglio noi stessi e come ci ha fatti la mano del Creatore, e Philip Verheyen, ammiratore di Spinoza, credeva che tutto il nostro sapere sulla Natura fosse in realtà conoscenza di Dio. Riflettendo sul dolore fantasma presente nello spazio vuoto della sua gamba amputata (Perché mi fa male ciò che non esiste?) concludeva, evocando religiosamente una totalità organica e divina, che forse il corpo e l’anima sono una parte di qualcosa di più grande e generale…ogni smembramento accadrà in superficie, al disotto il piano rimarrà intatto e immutabile. Perfino il più piccolo frammento appartiene sempre al tutto…Il mio dolore è Dio? E nella varietà dei comportamenti umani, se di eroico amore si tinge il viaggio di Ludwika, la sorella di Chopin, che porta nella patria Polonia, sfuggendo al controllo dei gendarmi prussiani, il cuore del fratello dentro un barattolo nascosto sotto le calde pieghe del suo vestito, una forma di dispotica prevaricazione sui corpi umani è stato invece (e si fa spunto di un attacco al razzismo) il “mercimonio” di mummie umane che nel 700/800 andavano ad arricchire le “collezioni” stravaganti di chi era attratto dal diverso, dall’insolito, da persone di altre razze, oppure con deformità o malattie fuori dall’ordinario. Le collezioni ad esempio degli imperatori austriaci Giuseppe II e Francesco I, il quale ultimo fece imbalsamare il suo cortigiano nero, Angelo Soliman, esponendolo  -come denuncia la figlia nelle tre lettere con cui invano chiede, per dargli rispettosa e cristiana (sic!) sepoltura, la restituzione del corpo- alla curiosità della gente…in compagnia di altri esseri umani tra resti di unicorni, rospi mostruosi, feti bicefali immersi nell’alcol e altre stranezze. I “viaggi“ personali dell’io narrante, che si aggiungono alle storie singole or ora citate, accentuano la percezione di “flusso” esistenziale frammentario e di liquidità oggi nei rapporti umani per l’inconsistenza di punti valoriali di riferimento, sbiaditi, perduti, cercati, anche se ricorrente è l’immagine del globo terrestre visto “da fuori”, che crea l’idea positiva di una totalità spaziale che unifica e avvicina senza interposti confini: la goccia/viaggio che cola lungo la superficie del globo, la linea della notte che va da est a ovest inghiottendo sistematicamente il mondo, la rotta/istante fra Irkutsk e Mosca, il telecomando che salta liberamente da un canale all’altro, il grande stato della Rete, il “racconto” collettivo di Wikipedia che “circonda” il globo, la vista dall’alto da un grande aereo intercontinentale. Ma all’interno di tale “totalità” spaziale cosa è autentico “nomadismo conoscitivo”? Certo non la dipendenza dalla Rete, se fuori dalla portata della Rete scatta il silenzio e se la volenterosa (sic!) democratica Wikipedia resta pur sempre una miserella enciclopedia rispetto alla enorme grandezza di tutto quello che non sappiamo e che nessun motore di ricerca è in grado di gestire. Non il turismo di massa che inonda l’aereo del ritorno dell’odore forte, che emana la pelle dei turisti, di alcol, sudore e eccitazione sessuale non ancora smaltiti, odore e grassaggine che pare riescano a infastidire, secondo il loro allevatore, pure gli allenati asini trasportatori di accaldati pellegrini (?) fino alle rive del Giordano. Non gli avventurieri vecchi e nuovi logori di mondanità (donne dal trucco appena fatto… e con su di sé una nuvola di profumo, un’aureola santa, e uomini che abitano ai piani più bassi del proprio corpo, nella parte inferiore dell’addome) e scaltri di opportunismi come il teratologo ungherese rivale di Blau i cui occhi erano già annebbiati dal vino e brillavano della luce dell’imminente trionfo (accademico) perché disponibile al contrario di Blau agli approcci erotici della vedova di Mole. Ma l’io narrante fa anche altri incontri: l’ambientalista Aleksandra che va raccogliendo prove nel mondo delle infamie degli uomini verso gli animali (la Tokarczuk è vegetariana); oceanografi e geofisici in volo per Montreal per discutere del calo di intensità dei raggi del sole (inquinamento dell’aria, fuliggine, aerosol?); un uomo d’affari cinese buddista, pellegrino religioso dell’albero di Bodhi sotto il quale il Buddha giunse all’illuminazione, e che si interroga sulla sua fede; il fisico dalla calza bucata sul tallone che parla della materia oscura che occupa i tre quarti dell’universo e la cosa peggiore -dice- è che non sappiamo cosa sia. E perché. E non mancano la giovane donna dai capelli neri che in un pub modesto esegue la danza del ventre emozionando positivamente, per la sacralità del “femminino”, le altre donne (quella danza… era sacra- annota l’io narrante); donne coperte dal velo, truccatissime agli occhi come Cleopatre, che sull’autobus guardano incantate la ragazza che nel film” Lara Croft: Tomb Raider” atterra agilmente e vittoriosamente con le braccia e le cosce lucide soldati armati fino ai denti; o una musulmana come Jasmine che progetta di incoraggiare tutte le persone del suo paese a scrivere libri, tutti segni di una coscienza femminista a cui la Tokarczuck intreccia l’importanza liberatrice della “parola”: La lingua -leggiamo- è il muscolo più forte dell’uomo e il brano Parlare, Parlare si chiude sulle seguenti perentorie affermazioni a valenza a un tempo psicanalitica e sociologica: una vita raccontata è una vita salvata. Chi non ha imparato a parlare rimarrà per sempre chiuso in trappola. E ancora le osservazioni ad ampio spettro, anche cronologico, sui giovani ebrei chassidim che pogano sul lungomare vigilati da un rabbino, e allontanano le turiste svedesi che vorrebbero ballare con loro il can can; su taluni usi maori e buddisti, su certe macabro/fasulle reliquie cattoliche del ‘600, sulle svastiche rosse, antichi segni del sole e della forza vitale, che nelle città orientali indicano i ristoranti vegetariani, ma che la voce narrante usa come flash-back polemico indiretto sul “cannibalismo” nazista, cosi come ironizza con punte di acredine sul colonialismo inglese (La nuova Zelanda è stata, sembra, l’ultima terra che abbiamo inventata grazie a James Cook), sull’uso oggi universale, spersonalizzato, della lingua inglese, e sulla nascita nel 1841 della prima agenzia di viaggi ad opera di Thomas Cook, i due Cook per la narratrice (montalianamente) cuochi dell’affarismo moderno. E per finire, le variazioni sulle balene spiaggiate sulle coste australiane, accompagnate in genere nella loro morte da accesi dibattiti televisivi, locali e mondiali, di ecologisti zoologi furbi politici e che, se salvate dagli sforzi di decine di volontari e riportate a mare, sono destinate a essere catturate dai giapponesi e trasformate in cibo per i cani; o quelle sui sacchetti di plastica mobili e leggeri, ma longevi e quasi indistruttibili i cui corpi eterei impiegano circa 300 anni per distruggersi, rumorosamente svolazzanti e padroni di quasi tutto il globo dai grandi incroci autostradali alle spiagge ventose…ai pendii scheletrici dell’Himalaya. Una articolata panoramica -come si vede- planetaria e esistenziale fra ieri e oggi sul senso che vogliamo dare alla vita e alla morte, a quei viaggi/conoscenza/cambiamento in cui si risolve l’umana esistenza (soggettiva e collettiva), alla “mobilità” insomma fisica e mentale oggi così palesemente globalizzata, ma anche così a rischio di essere vuota come gli invasivi sacchetti di plastica fatti -scrive sarcastica la Tokarczuk- solo di superficie, vuoti all’interno, nuova specie evolutiva, segno come pensano alcuni che l’evoluzione oggi promuova le forme sfuggenti destinate forse (sic!) a guadagnarsi l’onnipresenza. E su uno sfondo che resta per la scrittrice di sostanziale purtroppo, anche se illuminato, disincanto. Lo ribadiscono, simbolicamente e visionariamente, la parete bianca in cui come viaggiatori ci imbattiamo alla fine di un emblematico dedalo di stradine, e oltre la quale non c’è nulla (Parete), e l’altrettanto simbolico imbarco che chiude il libro. Nelle ultime pagine infatti l’io narrante, dopo avere indugiato (con fine autoironia) sulla specularità dei nostri vanagloriosi diari di bordo vergati in aeroporto in attesa di un nuovo imbarco, diari in cui vorremmo “plastinarci” immergendoci nella formalina di pagine e frasi, descrive belle come angeli le hostess che ci instradano sulle morbide moquette dei tunnel che portano fino ai velivoli e sulla fresca via aerea verso nuovi mondi. Quel loro sorriso -conclude- mantiene, così sembra, una specie di promessa: forse rinasceremo e questa volta lo faremo nel luogo e al momento giusto. Il “forse” scalfisce crudamente tutte le nostre illusioni, e tuttavia, pur nelle nostre contraddizioni e oltre ogni scettica ironia, è questa la scommessa che ci fa “umani”!

 

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