La rappresentazione figurale e l’alfabeto magico nel Symbolon di Ester Monachino

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      Questo romanzo (o racconto lungo) di Ester Monachino è una scrittura fortemente magico-simbolica e incardinata su alcuni aspetti e principi sia della filosofia antica che delle dottrine orientali del Buddismo e dell’Induismo. Ciò è subito evidente nel titolo e nella copertina, nonché nell’incipit del testo, dove la presenza degli elementi naturali, legati alle storie che l’Autrice classifica in orizzontali (storie di terra, d’acqua, d’aria) e verticali (storie di fuoco), oltre a ricordare certi riti magici incentrati sul culto della natura, evoca gli archè: quelle forze primigenie, dalle quali, secondo gli antichi greci, tutto proviene e a cui tutto ritornerà.

      “Symbolon” non è qui la figura interna alla comunicazione, il semplice significante che rimanda a un contenuto ideale, diverso da ciò che il termine dato sembra indicare convenzionalmente; esso è l’elemento fondativo dell’intera narrazione, ed è la «cosa», una pietra, privata della sua materialità, della sua pesantezza e fisicità, la quale assume il significato e le proprietà del mandala, (raffigurato in copertina), e, dunque, la leggerezza del “simbolo” spirituale e rituale, dell’oggetto sacro che r-accoglie l’essenza delle cose, della natura, dell’universo, di cui la storia, o meglio, le storie narrate sono una rappresentazione figurale, nel senso che convergono tutte nel cammino di Otù e di Ula orientato verso l’Assoluto e la ricerca della verità, di quell’essenza segreta che richiede l’evoluzione dei due giovani protagonisti verso la maturazione e l’età adulta, la quale può avvenire solo attraverso l’iniziazione rituale e un potere magico, sacrale. Le storie, allora, sono, esse stesse, segni simbolici, figure che servono allo scopo, costruite, cioè, per significare l’erranza necessaria per giungere alla conoscenza e alla saggezza, le quali si possono acquisire solo attraverso la ricerca interiore. E qui il tema è misterico e soteriologico; c’è una chiara eco della dottrina buddista e un richiamo a Siddharta in Otù, il quale, presso un ruscello, dove lo incontriamo per la prima volta, “guarda silenzioso l’acqua che scorre e scorre. Come il tempo orizzontale, come tutte le cose della vita”. Tacere osservare ascoltare sono le qualità di Otù, le buone disposizioni dell’anima che costituiscono la sua grande virtù, e che bene esprimono la sua brama di “trarre il permanente dalle cose fuggevoli” abbandonando, attraverso la contemplazione, i ritmi frenetici e alienanti della vita quotidiana. La risposta del giovane alla fugacità del tempo e al divenire, al perenne nascere e morire  delle cose, è la possibilità di cogliere “in ogni piccola cellula” il tutto che “pulsa di vita” e “sentirsi fondere nella coralità”. Ed è ciò che l’ascesi gli consentirà, cioè di prendere consapevolezza della realtà dell’Essere: unico immutabile eterno, quale lo definì Parmenide, e dell’unità del Tutto, nonché della magica unione della terra e del cielo e tra la sua anima e il mondo, che il racconto prefigura nella bella e iniziale immagine del cielo, del suo possibile dimorare “dentro”, nella coscienza, o interiorità profonda di Otù, il quale però non rin-nega l’insegnamento di Eraclito: il divenire e il mutare di tutte le cose. Perché nella mutevolezza egli coglie la bellezza, e “la bellezza è amore”: il sentimento che lo lega a Ula, sbocciato quando “era un ragazzo appena gemmato di giovinezza” e che è così forte che egli  avverte la sua anima “combaciare con il mondo intero”. L’amore, dunque, ristabilisce l’unità; è pronunciato da “tutte le divinità”, ascoltato dalle “altitudini” e dagli “abissi” e innalza i due innamorati; fa combaciare le loro anime e le fa “consuonare nell’alfabeto intero dell’essere e dell’esistere”. Esso è l’universo, che vibra nei loro nomi quando sono pronunciati in silenzio, in un soffio, simile al suono della sacra sillaba Om, che racchiude in sé le energie che hanno dato origine all’universo.

      L’amore che in segreto si manifesta, che colma il cuore dei due ragazzi del sentimento dell’infinito restando loro sconosciuto, impalpabile nella sua natura misteriosa, questo amore, che rispecchia l’universo, ha bisogno della cura, di tutta l’energia spirituale affinché sia riconosciuto e conquistato. Solo allora le anime terrene possono combaciare in eterno e consuonare con l’anima cosmica. Ecco che la pietra, che Otù trova, non casualmente, è il segnavia che gli indica il cammino da intraprendere verso la rivelazione. Il giovane sa - lo ha appreso da Stilu, il Maestro - che tutti siamo “complementari”, come “l’asola e il bottone” , che “ciascuno non è senza l’altro. Ciascuno non è contro l’altro, ma per l’altro”. È l’inizio della rivelazione, il tempo della “scuola”, della “parola viva e del silenzio”, che parla “dentro”, dell’agire per ispirazione, assistito, guidato da una volontà superiore. Sa, Otù, che non può incamminarsi da solo, che “la vita non sempre è facile; talvolta fa brutti scherzi”, impone delle prove, le quali è più facile superare se si è in due. Sa che con Ula costituisce la coppia perfetta: bisillabo è il loro nome, come quello del Maestro, ed è un riflesso particolare di quella “dualità”, che richiede la complementarità, l’unione, la pienezza del combaciare. Tutto ciò è la pietra. Essa è il Symbolon dell’infinito, che Otù riproduce incidendo “due cerchi schiacciati uniti in un punto dove era la spaccatura”; è la totalità da separare, da spezzare nelle due parti che la costituiscono: quella femminile e quella maschile, il vuoto e il pieno da riunire, per ricomporre l’intero quando il tempo sarà maturo, quando Otù e Ula, che conserveranno un cerchietto ciascuno, dopo anni di lontananza, perché costretti a lasciare Tiaré, il loro Paese devastato da un’inondazione, torneranno a incontrarsi e potranno legarsi per la vita ed essere insieme anima combaciante con l’universo.  

      Il racconto, che presenta tratti fiabeschi, non ha una situazione iniziale, come è di regola nelle fiabe. L’Autrice ci presenta subito Otù immerso nel silenzio della natura e della propria intimità. Respiriamo con lui aria di attesa e di misticismo; comprendiamo che cosa pulsa nel suo cuore e nella sua mente. Ula è nel suo ricordo ed è la memoria che dà avvio alla narrazione, senza che nulla accada in questa prima parte. Neanche il ritrovamento della pietra costituisce un elemento d’azione o di sviluppo, pure essendo l’evento determinante per la vita dei due protagonisti e sul quale s’incardina e prende corpo la loro storia. Il Symbolon è il principio spirituale, la verità occulta, esoterica, ed è il mantra: lo strumento del pensiero, l’energia che consentirà a Otù di praticare la via dello spirito, di stabilire il contatto con l’assoluto e ritrovarsi nell’esperienza della non-dualità, ovvero, dell’unità del Tutto. Ma è l’amore, che è anche bellezza e sentimento dell’infinito, la condizione necessaria perché ciò accada, perché la “pietra”, il mantra, offra tutta la sua protezione e assolvendo alla sua funzione si faccia canto, “parola della vita” e “vita della parola”, oltre la magia, oltre il simbolo. Solo l’inondazione darà corso agli avvenimenti, e la storia procederà, tra il “gemellaggio di Eros e Thanatos”, tra gli ineluttabili fatti esteriori e la ricerca di una risposta tutta interiore, tra gli interrogativi e i consigli e gli insegnamenti di Nukao, fino all’equilibrio della mente e del corpo, fino alla quiete dell’anima, nel cui stato la quête avrà il suo approdo naturale.

      Tutta la bellezza di questo racconto è nel linguaggio, che ne fa una semina copiosa e veste il contenuto delle sue infinite figure, che sembrano tessute con i quattro elementi naturali. La poesia della Monachino è lo spirito di questo linguaggio, ed è, essa stessa, un mantra: la felice combinazione di sacre sillabe, che compongono un magico alfabeto che consuona con la natura e la fa parlare; ed è un canto “rivolto verso l’interno, verso quel luogo dove il corpo e l’anima combaciano”. È, ancora, un linguaggio vitale, “animistico”, che fa accadere le cose, le quali appaiono nuove perché esso ne rivela e rileva l’essenza, ne mette a nudo il volto lasciando cadere le maschere; un linguaggio “metamorfico”, che trasforma, si trasforma e si arricchisce come un seme, da cui “vengono tanti semi”; un linguaggio “mimetico”, che imita la vita e pulsa con i battiti del cuore; fatto “di ali”, di ciglia” e che vola alto e apre visioni.

Sì. Tutta la storia qui narrata è questo linguaggio, senza il quale questo libro sarebbe un altro libro, “un’altra storia”.

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