La Sicilia come oggetto estetico - Ricerca sul pensiero filosofico di alcuni grandi filosofi di Giovanni Teresi

 

 

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                                             Teatro greco di Siracusa

 

Lungo il corso del XVIII secolo, in Sicilia mancarono le condizioni per l’elaborazione di un pensiero estetico compiuto, ricettivo del coevo dibattito europeo o capace di apportare un contributo di originalità ch’esulasse dalla trita cultura erudita, di stampo ancora aristotelico.

Eppure proprio in questa precisa temperie, che altrove vede la fondazione dell’estetica nel suo statuto sistematico di “nuova”disciplina, la Sicilia diviene essa stessa un oggetto estetico. È come se, parallelamente all’atto fondativo di Batteux, di Baumgarten, di Winckelmann, l’estetica avesse scoperto un nuovo luogo in cui l’esperienza dell’arte, della natura, del bello trovassero una piena manifestazione.

 

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      Johann Joachim Winckelmann

 

 L’estetica eleggeva insomma un territorio “lontano” sì, ma non tanto da configurarsi come un “ tovpo", un non luogo della fantasia o dell’esotismo; una regione in cui la sensibilità potesse recuperare il bello dell’arte greca, la natura incontaminata, ma anche l’orrido e il sublime di paesaggi sconosciuti. Questo luogo era la Sicilia.

Fino alla metà del XVIII secolo l’Europa terminava a Roma. Del mezzogiorno d’Italia i “forestieri” conoscevano forse solo Napoli e qualche dintorno, peraltro qui attirati dalle prospettive che ora aprivano le campagne di scavo a Ercolano e Pompei in vista di favolosi recuperi di opere d’arte.

Dal 1750 in poi, parallelamente alla riscoperta dell’architettura dorica dei templi di Pæstum, l’orizzonte europeo si allarga dunque oltre lo Stretto a completare il quadro di una grecità altrimenti “monca”: la ricerca di uno stile “primigenio” nell’architettura non poteva ora prescindere dal dorico siceliota, che peraltro offriva un ampio arco di progressione cronologica e formale, dalla durezza arcaica alla perfezione classica.

Il ruolo decisivo assunto da Winckelmann a proposito della riabilitazione di uno stile che pure il classicismo rinascimentale aveva revocato in oblio, per volgersi a quell’antichità romana più “facilmente” accessibile. Lo stesso ordine dorico vulgato dalla tradizione vitruviana – un dorico piuttosto“romanizzato” – pareva ben poco corrispondere nel suo statuto proporzionale all’architettura templare della Magna Grecia, che ancora permaneva alquanto misteriosa.

È sorprendente tuttavia che l’estrema perizia con la quale il tedesco discetta dell’architettura dorica, nelle Osservazioni scritte nel 1759, sia in verità frutto di un sapere libresco, di un accertamento solo parziale (condotto sui templi pestani) che avrebbe necessitato di una diretta esperienza in Sicilia per trovare il suo completamento. Esperienza che non si concreterà mai nel pur più volte progettato viaggio nell’Isola: l’approdo sospirato e temuto a un tempo che, assieme alla tappa finale in Grecia, avrebbe rappresentato l’ultima frontiera per la verifica delle teorie del Neoclassicismo.

Eppure il viaggio in Sicilia di Winckelmann, cui ostavano la fama di pericolosità della traversata

(la pirateria per mare; il brigantaggio nelle vie terrestri, per di più estremamente disagevoli) e il mito di passioni repentine e violente degli abitanti, probabilmente non avrebbe mai avuto luogo nemmeno nelle condizioni più favorevoli.

La Sicilia, come la Grecia, doveva rimanere confinata nel limbo dei propositi irrealizzati.

D’altra parte, a Winckelmann bastava forse un viaggio “virtuale”, da compiere su testi fidati sia pure da sperimentare in quanto a veridicità. Il lontano archetipo del viaggio compiuto in Sicilia dall’olandese d’Orville 1 risaliva al 1727, sebbene la sua pubblicazione fosse avvenuta solo nel ’64, e dunque giusto in tempo per riaccendere il desiderio per una spedizione in Sicilia a questo punto urgente. I Sicula di d’Orville erano tuttavia un resoconto che, chiuso tutto nell’apparato di una erudizione sontuosa ma gelida, lasciava ben poco spazio ad aperture “sentimentali”: i tempi, d’altro canto, non erano ancora maturi. Nel frattempo, nel 1751-52, il teatino Giuseppe Maria Pancrazi aveva pubblicato Le antichità siciliane spiegate, che rappresentano il primo organico tentativo di illustrare, sia pure non esaustivamente, il patrimonio archeologico della Sicilia. Tentativo che Winckelmann stesso giudica disastroso (non esita a definire «quasi rimbambito» il suo autore, a causa del fallimento della sua troppo ambiziosa impresa) ma che, proprio per la sua imprecisione, era destinato a innescare quella “corsa” alla esperienza diretta sul campo cui il tedesco si sottrasse, almeno in prima persona. Almeno in prima persona perché qualcuno si assunse il carico di portare lo sguardo di Winckelmann in Sicilia, di guardare con i suoi occhi quello che lui dovette osservare solo da lontano: questi fu Johann Hermann von Riedesel.

Gli occhi di Winckelmann in Sicilia: Riedesel e l’invenzione della bellezza

 Si è assai discusso del ruolo assunto dal barone di Eisenbach  in ordine all’odeporica, della sua pole position rispetto a tutta la letteratura di viaggio sulla Sicilia nel secolo XVIII.

D’altro canto il suo essere trait-d’union tra Winckelmann e Goethe (di entrambi fu la guida fidata, virtuale per il primo, fattuale tanto da essere definito «breviario o talismano» per il secondo), ne fa il punto nodale dell’estetica “periegetica” settecentesca, il testo su cui un po’ tutti i viaggiatori successivi ebbero a fare i conti. Non v’è dubbio che il viaggio in Sicilia di Riedesel, compiuto nel 1767, avesse finalità in tutto documentarie (diremmo quasi da “geometra”), e che gli assunti di cui egli si fa veicolo fossero completamente “affondati” nell’estetica winckelmanniana, della quale d’altro canto dovevano costituire un tassello fondamentale per quelle verifiche in loco ormai assolutamente imprescindibili. Il barone tedesco in verità era ancora permeato di una sensibilità arcadica, che gli faceva guardare l’oggetto del suo viaggio nei toni rassicuranti di un idillio teocriteo. Nei pressi di Taormina, un paesaggio notturno gli fa effondere in un tono elegiaco un sentimentalismo quasi preromantico:

 «La luna illuminava con i suoi raggi questo panorama, e questo mare era così calmo da sembrare fermo, gli usignoli cantavano sovente ed io provai un tale piacere estetico che mi procurò una segreta e dolce malinconia» .

Ce ne sarebbe abbastanza per avvicinare Riedesel a quel Salomon Geßner che, giusto allora, rinnovava in Germania i fasti della poesia idilliaca sul modello di Teocrito. Fedele alla rigida concezione deterministica di Winckelmann (a sua volta desunta da Montesquieu), per la quale le condizioni ambientali incidono sulla bellezza fisica dei popoli, Riedesel rivede in Sicilia gli antichi abitanti della Grecia, in loro individua quei caratteri che la statuaria classica aveva tramandato nelle forme eternate dal marmo. A Trapani gli pare in ogni dove di ravvisare degne eredi della Venere Ericina, il cui antico santuario – a suo giudizio – era stato edificato sul Monte di San Giuliano proprio a cagione della bellezza delle donne trapanesi:

 «il loro profilo – scrive – è regolare come i più regolari dei profili greci, e ciò deriva dall’aria

pulita, gradevole e fine di questo luogo».

 Ancora ne trova nei dintorni di Catania, evocandone i tratti con frasi di fatto identiche . Ovviamente la Sicilia non è più quella della classicità, sorella minore della Grecia: lo stato di servitù nella quale vivono ora i suoi abitanti è la ragione per la quale le condizioni di quell’età non sono più riproponibili. Il bello dell’arte poteva fiorire solo laddove il clima si sposasse con la democrazia, e ora in Sicilia la nobiltà e, soprattutto, la Chiesa erano il simbolo più odioso dell’oppressione.

In Riedesel dunque non c’è solo Winckelmann a guidarlo in tutte le sue scelte estetiche, ciecamente

fin quasi a fargli trasfigurare la realtà; al contrario il Neoclassicismo più oltranzista in lui convive con una sensibilità alla Rousseau, una lente attraverso la quale (ad esempio) gli abitanti della provincia gli appaiono ancora incorrotti dai guasti della modernità: l’isolamento e il clima ne determinano il carattere socievole, l’aspetto di greca purezza, la propensione – invero tutta da dimostrare – alle gare poetiche, retaggio di un’età dell’oro mai spenta. Nel Viaggio di Riedesel è dato però notare una singolare discontinuità: in generale il tono del racconto è piuttosto distaccato, non di rado tedioso, specie laddove l’intento catalogatore prevarica sulla libera effusione della sensibilità. In alcuni punti, però, la narrazione si accende di entusiasmo, inaugurando una serie di motivi che, da allora in poi, sarebbero stati immancabili nei resoconti dei viaggiatori suoi epigoni. La descrizione del celebre sarcofago di Ippolito e Fedra, che allora fungeva da fonte battesimale nel duomo di Agrigento, è uno di quei motivi che, a partire da Riedesel, diverrà l’irrinunciabile esercizio ecfrastico della letteratura periegetica, di volta in volta analizzato o rilevato in incisioni più o meno precise. Già d’Orville e Pancrazi si erano soffermati sull’opera (peraltro il teatino, in un tentativo di “razionalizzazione” dell’iconografia rappresentata, ne aveva interpretato il soggetto come una scena relativa alla vita di Finzia, ultimo re degli agrigentini; tuttavia i loro interessi esclusivamente antiquariali non erano andati al di là della semplice descrizione formale dell’opera. In Riedesel invece gli assunti di Winckelmann trovano puntale applicazione nell’interpretazione del sarcofago, secondo il metro della “bellezza ideale”: la figura di Ippolito, al centro della composizione è «uno dei più belli esseri umani, non un comune mortale, ma un uomo destinato dalla natura a compiere imprese straordinarie. Esso è più rialzato rispetto alle altre figure, è più grande, più bello, perfettamente compiuto; in breve, un capolavoro della natura e della sua imitatrice: l’Arte».

Nell’immagine di Fedra, che campeggia nel lato destro dell’urna, Riedesel osserva – focalizzando il suo sguardo sul braccio sostenuto da un’ancella – «un capolavoro sublime di grazia» : evidentemente, per il tedesco il paradigma del Sublime si staglia ancora dentro l’orizzonte del Bello, e in una vera e propria ossimorica coincidentia oppositorum esso va a toccare il termine diametralmente inverso della Grazia. Ovviamente Riedesel (come d’altro canto il suo padre “spirituale”), non è sfiorato dall’idea che gli esempi della scultura presi in esame come modelli della bellezza greca, sono in realtà risalenti alla tarda età romana: a lui basta solo che i canoni proporzionali che esplicitano rispondano appieno agli ideali di classica purezza espressi nei Gedanken winckelmanniani.

Vent’anni dopo, Goethe, con la fida guida di Riedesel tra le mani, vedrà nel sarcofago agrigentino l’esempio più compiuto della statuaria a bassorilievo antica, l’oggettivazione più superba del bello nell’arte greca.

Al cospetto del Tempio della Concordia, Riedesel di nuovo non potrà fare a meno di utilizzare modelli interpretativi tolti di peso dal suo mentore, scrivendo che «qui si può valutare chiaramente la bellezza della nobile semplicità e di pochi ornamenti dell’architettura».

Un altro motivo, tuttavia, inaugurato ancora una volta da Riedesel, sarà destinato a fortuna ancora più ampia nella posteriore letteratura del viaggio in Sicilia, un motivo flesso però in una nuova accezione, e a cui poco più sopra rientra nuovamente nella linea di confine della cultura estetica siciliana, dopo quell’ormai lontana parentesi “indigena” del tardo Seicento su cui ci siamo soffermati nel corso del primo capitolo. Ora, per così dire, il Sublime si biforca verso due direttrici solo apparentemente divergenti: l’una in direzione dell’architettura, l’altra verso la natura.

Al Sublime architettonico, che ora trovava la sua espressione nell’ordine dorico rilevando come Winckelmann per primo avesse trovato una chiave interpretativa a questa categoria identificandola nel “mitico” Olympeion di Agrigento.

Non è certo il caso di rivangare qui un terreno già eccellentemente esplorato; corre però l’obbligo di rammentare come proprio Riedesel, con il suo diretto sopralluogo sulle immense rovine, abbia decisivamente contributo alla “canonizzazione” del Tempio di Giove Olimpico nella liturgia dell’estetica settecentesca. Nel gesto di porsi dentro la scanalatura dei resti di una delle colonne residue (un test d’attendibilità alla testimonianza di Diodoro Siculo…), rilevando come lui e altri più grassi di lui potessero starci comodamente, Riedesel abilita la messa in crisi del codice antropometrico vitruviano delle proporzioni architettoniche, ipotizzata da Winckelmann; l’incommensurabilità tra uomo e scala colossale diviene così l’epicedio di tutta la trattatistica architettonica esemplata sul De Architectura.

Dieci anni dopo, nel 1777, l’archeologo inglese Richard Henry Payne Knight nel suo Diario di un viaggio in Sicilia (un’opera che ebbe in Goethe un traduttore d’eccezione) noterà a proposito del Tempio come «lo spirito ardito degli antichi era sempre rivolto verso il Sublime, ma non sempre ebbero la costanza di portare a compimento i loro piani giganteschi». 

L’anno dopo, il 1778, Dominique Vivant Denon scriverà con una punta di moralismo:

«sembra che la sua massiccia grandezza sia servita solo a schiacciarlo e ad annientarlo, poiché se non fosse per due mezzi capitelli, alcuni triglifi ed un pezzo della trabeazione, queste rovine non presenterebbero più forma alcuna della linea architettonica originale».

Per la prima volta, e proprio sulla scia di Riedesel, il Sublime è associato a un edificio di dimensionimastodontiche e per di più allo stato d’informi rovine: esso, crollando sotto il peso mostruoso d’un eccesso di misura, s’è liberato della sua forma architettonica per farsi tutt’uno con la natura.

L’altro abito del Sublime, “disegnato” da Riedesel e “indossato” poi dai suoi continuatori, ha i colori dell’Etna e – se un abito può suggerire rumori – i tuoni dei suoi abissi. Proprio dal tedesco prende le mosse un nuovo topos d’allora immancabile nel viaggio in Sicilia, una meta che diverrà il segno di un nuovo modo di guardare alla natura: quell’ascensione al vulcano nella quale una sensibilità ormai aperta agli incanti del Romanticismo troverà modo d’esercitare le sue riflessioni, fosche o esaltanti che fossero.

Con Brydone, qualche anno dopo Riedesel, l’Etna assurgerà a nuova icona del Sublime nell’esteticaeuropea. È necessario rilevare che in Riedesel la dimensione del Sublime rientra ancora nel dominio del Bello.

Giovanni Teresi

 

 

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