Lucio Zinna, "Le ore salvate" (ed. Thule) - di Guglielmo Peralta

      Non tutte le immagini delle copertine delle sillogi poetiche sono in tema con l’opera; pochissime ne suggeriscono l’argomento centrale. Solitamente è il titolo una traccia importante, che può offrire una prima, anche se vaga, ‘rappresentazione’ dell’itinerario poetico dell’autore e svelarsi addirittura una valida guida per la comprensione del testo.  Ma in questa silloge di Lucio Zinna salta subito agli occhi l’indovinato disegno della copertina, che insieme col titolo anticipa la questione riguardante la nozione del tempo, tanto dibattuta dai filosofi antichi, moderni e contemporanei e che qui dà sostanza e spessore al pensiero del nostro poeta costituendo il cardine della sua riflessione. Perché il tempo è la dimensione che ci riguarda e ci appartiene universalmente e sulla quale si misura la nostra esistenza. “Le ore salvate” e l’ “Orologio molle”: il titolo della raccolta e quello del disegno di Salvador Dalí, rimandano, rispettivamente, all’essere e al divenire. Le ore salvate, infatti, sono quelle sottratte alla vanità e all’inconsistenza, allo spreco del tempo, alla sua fuga e alla sua povertà, alla quotidianità dell’eterno ritorno dell’uguale (qui senza riferimento a Nietzsche); sono quelle che non ci lasciamo rubare da un campionario assortito d’individui quali: i perdigiorno, i seccatori, gli attaccabottoni, i maldicenti, gli opportunisti, gli adulatori …; quelle, soprattutto, che dedichiamo alla cura della nostra vita interiore, ai nostri sogni, al nostro spirito, alla ricerca dell’essere che abitiamo nella profondità della nostra coscienza. Sono, dunque, le ore sottratte al tempo molle, fluido, del divenire, al dubbio e alle mancate certezze del “pensiero debole”, al rilassamento morale; al tempo privo della solidità necessaria al nostro cammino, per la stabilità della nostra esistenza, per edificare il futuro, una società fuori dalle sabbie mobili, da quella sorta di liquidità, denunciata da Bauman, che la rende sempre più vacillante e incerta, povera di umanità e di spiritualità, dominata dall’individualismo, dal soggettivismo esasperato, dalla bulimia, ovvero, dal consumo sfrenato degli oggetti, delle merci, dalla sete inestinguibile di introiti, di lucro, di guadagni, che non ci ripagano dei danni, non solo economici.

In “S. p. A.” , che apre la silloge introducendo la prima sezione intitolata “Misure”, Zinna scrive:

Siamo - con la vita - / in società / per azioni e (naturalmente) / opere. / A perdite e profitti / (finché dura)

      Qui la vita, è sotto l’influsso di Chronos, del tempo scandito dagli orologi, cronologico, fugace, misurabile, distruttivo, che divora ciò che esso stesso genera. Perciò grave perdita sono la riduzione e il condizionamento della nostra esistenza al tempo che trascorre veloce, inesorabile, che si vive di corsa, affannosamente; a ciò che è soggetto alla mercificazione, alla dissipazione dei valori, all’accumulo eccessivo di beni materiali; a ciò che sottrae spazio all’arricchimento spirituale, alla riflessione, alla creatività, alle relazioni sociali. A questo tempo quantitativo è senz’altro preferibile Kairòs, il tempo della qualità e della responsabilità, senza “debiti (né per fortuna crediti)”; che ci consente un migliore uso delle ore, tale da potere affermare che “ne recupera cento rubate un’ora / avuta in dono o una donata” . Perché il tempo, quello non vuoto, delle “ore salvate”, è denaro ed è il dono che è concesso all’ “Uomo in quanto ricchezza”[1], all’uomo di qualità, che sa investire in umanità, tesaurizzare le doti spirituali e l’esperienza vissuta che, presente e viva nella coscienza,  gli mostra il cammino “verso una segreta Compostela / di orme brevi / a larga risonanza dentro il cuore”: un cammino, questo, che non è fatto solo di “partenze e arrivi”, ma di tante mete, nessuna delle quali è stabile, definitiva, anche quando sembra esserlo. Perché va .in tutt’altra direzione: verso l’unica meta, agognata, ignota, irraggiungibile, e perciò è un viaggio all’infinito del tempo, all’eternità, che Aion, il “Signore della luce”, rappresenta rimanendo, ahimè, il grande miraggio cosmologico. E, tuttavia, esso è anche il tempo vitale da riconquistare per dare il senso all’esistenza, alle nostre opere e azioni. Nostra cura, allora, è prendere le “misure” del tempo, governarlo con scienza, arte e coscienza. Perché nel nostro cammino, più delle partenze e degli arrivi

 (…) conta quel che lasci / e cosa ti porti / (nel centro della pupilla / in un rincòn del cuore) / (…) conta quel che ti attende / se qualcuno ti attende / che cosa ti attendi / il cuore che vi conduci / se sono nuove le tue pupille. / E ancora le albe / coi loro tramonti.E il prossimo se lo sarà. / Conta la vita / lì - nel suo spigolo -  / a contare i passi.

        Una “misura” fondamentale, dunque, è l’aspettativa: il tendere, senza certezze, verso qualcosa che desideriamo mettendo in conto l’imprevisto; verso “qualcuno” su cui fare affidamento. Essa, perciò, richiede fiducia nel “prossimo” ma anche nel cuore, nella passione che ci sostiene e ci fa andare avanti, e, soprattutto, esige di osservare la realtà da prospettive, da punti di vista sempre diversi, perché - come insegna Proust - “il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Perché non sia vana l’attesa, non venga meno la speranza di vedere il sole sorgere e tramontare, “ancora”; per guardare al passato e affrontare meglio il presente; per sapere che cosa ci riserva il futuro, che cosa ci attende dietro l’angolo. Occorre impegno, attenzione: qualità, quest’ultima, che Simone Weil considera la più bella, in quanto implica generosità e cura nell’agire considerando ogni attimo valido per lasciare un’impronta importante del nostro passaggio e, dunque, come un dono, una porzione preziosa del tempo che ci è concesso e che non bisogna sprecare ma vivere intensamente. Perché hic et nunc, nell’attimo presente, sottratto alla fuga, abbiamo l’opportunità di cogliere il tempo oltre il tempo. Perciò “conta quel che lasci / e cosa ti porti”.  La fugacità dell’esistenza è da Zinna messa in risalto dalla personificazione, accompagnata da una sottile ironia, del “tempo-cavaliere / benevolo”, che c’inganna lasciandoci credere di essere noi padroni delle ore, capaci di fermarne o rallentarne la corsa andando spediti e lasciandolo indietro, e sostando, quasi a farci beffe della sua lentezza dimenticando che “(intanto logora lento) / fino a quando inverte la corsa riprende / le briglie e grazie se concede un preavviso”. E qui l’ironia si fa amara nella metamorfosi del tempo, che,  solitamente avaro di concessioni, giunge col passo galoppante della morte, la quale “ritorna ogni volta” nelle “cronache di violenza”; nel marasma “cotidie” del mondo, avviato rovinosamente a una irreversibile deriva; soprattutto, nella mente del Nostro, il quale mestamente s’interroga sul proprio esserci nel mondo: «Che ci sono venuto a fare quaggiù». Ed è questa, in verità, la domanda universale sul senso della vita, sull’umano destino. Cogliamo nella domanda di Zinna un senso di spaesamento, di estraneità, di non appartenenza al mondo, che possiamo tradurre con l’espressione heideggeriana di “deiezione” (Verfallenheit), che indica il modo di essere inautentico dell’uomo in quanto essere «gettato» nel mondo, nella quotidianità alienante dei rapporti impersonali, e costretto nella finitezza della propria natura. L’apertura è, per il nostro poeta, al di là di ogni confine, oltre sé stessi, verso “l’altrove”, di cui siamo parte. Perché esso è l’infinito che abitiamo, che ci abita; ed è l’«essere» che solo la Poesia, il suo linguaggio, riporta alla memoria.

          Nella seconda sezione, “Stramenia”, il titolo suggerisce la necessità di evadere dalle “mura” dell’arbitrio e delle convenzioni sociali, dalla routine quotidiana che non ci consente di gestire al meglio il tempo che finiamo per sprecare rendendolo sterile, vacuo, improduttivo; di uscire fuori dal “labirinto delle logiche”, tutte differenti e spesso in contrasto tra di loro, che ‘regolano’ la nostra vita e c’impediscono di trovare “la logica di base” che ci orienti verso la “via d’uscita”: quell’apertura verso l’alto nella profondità di noi stessi, del nostro essere più autentico. Il mezzo che può condurci «fuori», «oltre», «dentro» le “in/controvertibili eternità” dell’anima, è la poesia, ampiamente rappresentata e nominata in questa sezione, dove “i poeti vanno” ogni volta che essa li chiama e “arrivano ovunque” in “viaggio sempre / nel verso del cielo”. Essa è presente nel “popolo disperso nel gorgo / del tempo” costituito dai poeti, amici del Nostro, e nei poeti espressamente citati: Ignazio (Buttitta), e Guglielmo, il sottoscritto, al quale Lucio Zinna  ha voluto amabilmente dedicare dei versi che, al di là della lunga e sincera amicizia che ci lega e della quale io dichiaro qui di vantarmi, trovano giustificazione nella poesia stessa e nella celebrazione che entrambi ne facciamo. Nella convinzione che il tempo dedicato alla poesia “È sempre tempo di semina / perché è perenne tempo di crescita”. Perciò la poesia bisogna viverla e non solo scriverla, perché può “mutare / in pendici certe salite” e indicare all’uomo la via della salvezza mettendolo in cammino alla ricerca della propria autenticità. Essa va cercata e vissuta oltre il confine dei segni linguistici, anch’essi arbitrari e convenzionali, in quell’ “altrove” che è il «non luogo» dell’Essere, che, contro “l’apparire”, le si concede e dimora nel suo linguaggio. Allora, “Se l’acqua assume forma della brocca / questa trova senso nella sua liquida /presenza”, così, se la poesia aderisce alla nostra anima e si fa vita, la nostra vita trova senso nella poesia, nel suo linguaggio. Essere, poesia, linguaggio coesistono e sono ciò che noi siamo, il nostro ubi consistam: quel “punto luminoso che nessuno / sa dove sia” e, tuttavia, il punto stabile d’appoggio in grado di proiettarci verso l’alto e la nostra vera identità personale.  

      Nell’ultima sezione, “A incalcolabili lune”, il tempo, il suo trascorre, inesorabilmente, è associato al pensiero della morte declinata in due suoi diversi aspetti e approcci conoscitivi durante le fasi della vita: “Dell’adolescenza appena sulla soglia / (…) il segno primo - concreto - di che significhi / trapasso”, colto sul corpo rigido della nonna Giuseppina, e, ancora, il “Freddo (…) d’una immobilità irredimibile. / L’esserci non più”, da cui la comprensione che “vivere / è movimento sguardo parola”; nella senilità, come pensiero dominante, sospeso per la “dimensione ludica”, per la vitalità ritrovata grazie al contatto coi “nipoti / bambini (…) creature-ponte” che rallentano “il traversare”, il passaggio all’altra sponda . Inoltre, la morte è l’“indifferenziato vortice /che riduce abituali presenze/ in assenze perenni, è il mesto e delicato ricordo dei quattro gatti, nominati dal Nostro in esergo al testo a loro dedicato. Il tema più rilevante della sezione è il rapporto di Zinna con la divinità. E qui la morte gioca un ruolo fondamentale, in quanto solleva il Poeta dal dubbio e dalla difficoltà, che lo hanno accompagnato per un lungo “tempo della vita”, d’“incalcolabili lune”, di “affidarsi” al Deus absconditus, che lascia all’uomo la scelta della fede, la quale richiede una dose di “coraggio”. Questo rapporto, rinnovato dal pensiero costante della morte e caratterizzato dalla ricerca di Dio e dalla fiducia nel suo aiuto si scioglie nelle “Variazioni sul salmo 66” in un dolcissimo canto d’invocazione e di ringraziamento al Signore, che somiglia a un ‘Padre nostro’, dunque, a una preghiera universale.  Perché col Poeta cammina l’intera umanità, con lui essa “grida aiuto a bocca chiusa“, leva alto lo iubilus: il canto senza parole che esprime la gioia ineffabile del divino. E “su ciascuno si posa affidabile lo sguardo di Dio”.

 

[1] Titolo del saggio di Saverio Avveduto, Etas Kompass, 1968

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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