Prefazione di Rita Cedrini a a "Il direttore d'orchestra" di Edoardo Dispenza (Ed. Thule)

È consuetudine di Vito Mauro sorprendere e anche questa volta non si è smentito. Con il suo sorriso amicale, leale e aperto come il suo carattere, propone una pubblicazione dove interventi corali incorniciano le opere del Maestro Dispenza rendendo originale e agile la lettura. La sua ultima idea editoriale, infatti, è volta a far entrare in rapporto dialogico le opere del maestro Edoardo Dispenza con le riflessioni, sollecitate dalle sue opere, di professionisti con competenze altre. Studiosi, docenti universitari, architetti, scrittori, professori e direttori di Conservatorio, attrici, poetesse, presidenti di Accademie, giovani laureati, cantanti lirici, soffermatisi ognuno su un’opera, con le diverse sensibilità hanno regalato un mosaico di sollecitazioni che, nato dell’incontro tra segno e parola, si trasforma in un arcobaleno di pensieri. Arte con arte a vis a vis.

Viene da soffermarsi e pensare a quanta strada l’umanità abbia dovuto percorrere per passare dal primo indistinto fonema, volto a comunicare, al graffito sulla parete del suo rifugio. Come è potuto accedere che in un periodo così difficile per le prime comunità un pensiero si sia fatto azione e attraverso la mano abbia messo in relazione l’imput con la capacità espressiva.

Come si è potuto compiere quell’incipit che ha segnato il passaggio dalla natura alla cultura?

È stato solo questione di tempo, ma un tempo lungo perché, come sostiene Reneé Etiemble gli uomini nascono e muoiono da milioni di anni, ma scrivono solo da sei mila anni.

Era solo questione di tempo si, perché, concordiamo con Claude Lévi Strauss quando asserisce che l’uomo ha sempre posseduto in sé questa dicotomica vincente contraddizione in quanto la materia grigia della sua scatola cranica è prodotto di natura ma al contempo prodotto capace di elaborare cultura. Quel passaggio strategico si è attuato allorquando l’umanità è stata capace di affrancarsi da quelle costrizioni che si rendevano indispensabili per la sopravvivenza, dall’affanno quotidiano di rincorrere la preda e impiegare tutte le energie nel soddisfacimento del bisogno primario: l’alimentazione. La scoperta dell’agricoltura, il passaggio da cacciatore a raccoglitore ha fatto si, per dirla con Lucien Lévy Brhul, che l’uomo scoprisse altri bisogni, definiti dallo studioso secondari, ma importanti quanto i primi, bisogni legati all’esigenza di disegnare le pareti della caverna, di modellare la terra e imprimervi tracce di colore e segni che diverranno caratterizzanti delle diverse aree di insediamento. Tratti personali che diventano testimonianze storiche, tratti che condivisi diventano scrittura. Bisogni imprescindibili per comunità che intorno al fuoco scrivevano le prime pagine di organizzazione sociale e le prime affermazioni di sé.

L’uomo non smette mai di stupire: nell’incapacità di rendere in forma rappresentativa un suono gutturale per raccontare la sua storia, ritiene di fissare la raffigurazione di una realtà che per millenni è stata sotto gli occhi di tutti.

A poco serve sapere se si trattasse di segni legati a rimandi magico apotropaici, se ci fosse o meno consapevolezza di un tempo in progressione per l’umanità. Il significato profondo sta nel desiderio di imprimere un segno, nella scoperta della capacità della mano di rendere visibile ciò che il pensiero voleva. Un segno che nel tempo si fa modulo stilistico trasforma il pensiero in parola, in segno grafico, in proiezione di sensibilità, in linguaggio musicale. Segni che interpretano il mondo, proiettano emozioni e sensazioni.

Quel bisogno ancestrale giunto fino a noi non si esaurisce nel tempo storico che consegna identità culturali, temperie artistiche, diffusioni areali, continua a essere bisogno ancestrale di entrare in comunicazione con gli altri, dove anche nel tumulto dei tratti e delle forme l’anima si placa e attende.

Il tratto che si fa segno, il tratto che si fa nota non vivono in solitudine. Se l’armonia è il dialogo tra le note, il disegno è l’equilibrio tra il tratto che ora si fa sinuoso, ora verga il foglio in maniera decisa, ora lo sfiora, ora lo proietta nella luce, ora lo adombra, nell’impalpabile progetto della mente che vede oltre lo spazio e il tempo, dove l’atto creativo si fa presenza umana.

La nota nel danzare con le altre note ha incredibilmente modulato miliardi di suoni, di cadenze, di ritmi che sono entrati nella memoria degli uomini, nelle loro storie personali, nei loro affetti e nelle loro delusioni.

La musica e il disegno possiedono il carisma di essere linguaggio universale.

Quanto mai indovinata, dunque, questa pubblicazione che mette in relazione il tratto che si fa disegno e al contempo rimando visivo di sonorità musicali che a loro volta entrano in dialogo con le riflessioni suscitate da coloro che sono venuti in contatto con le opere del maestro.

Nelle opere di Edoardo Dispenza la dinamicità del tratto si manifesta nella postura del pianista sbilanciato sulla sedia, nel sussulto delle vesti, nella presa movimentata dei ballerini. Gli strumenti non sono mai raffigurati da soli: è la presenza umana come costante a dare vita allo strumento, al passo della danza, alla profondità dello sguardo, alla ieraticità del compositore, all’aria trasognata e talvolta compiaciuta di chi interpreta il brano, all’irruenza del direttore d’’orchestra che nella potenza espressiva del braccio proteso verso l’alto, della mano nell’atto di impartire la giusta esecuzione della partitura e con cipiglio espressivo, invita all’ascolto di movimenti melodie che raccontano il grande concerto della vita.

Il volume, oltre alla poliedricità degli interessanti interventi, alla forza evocativa del tratto del maestro Dispenza si rende prezioso per la colta postfazione di Tommaso Romano che delle pieghe dell’arte è acuto conoscitore e dell’animo umano inestimabile scrutatore.

 

 

 

 

 

 

 

 

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