Profili da Medaglia/31 - "Michele Federico Sciacca" di Tommaso Romano
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- Creato: 24 Luglio 2018
- Scritto da Redazione Culturelite
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Nato a Giarre nel 1908, morto a Genova nel 1975.
Filosofo, scrittore, docente universitario. L’interesse per gli apprendimenti filosofici si attuò al ginnasio, dove lesse Leopardi e aderì ai principi dell’Immanentismo.
Intrapreso lo studio sistematico della Filosofia presso l’Università di Catania, fu avviato da Gino Ferretti allo studio dell’Attualismo gentiliano. Completò gli anni formativi di Catania seguendo i corsi di Antonio Aliotta nell’Università di Napoli. Quindi, affrontò lo storicismo di Benedetto Croce, giudicandolo, poi, influenzato dall’empirismo e dal positivismo: «Crocianesimo e positivismo sono i negatori della filosofia e dei suoi primi problemi». Di Gentile lo affascinò il rigore metafisico, l’afflato religioso, l’acuta sensibilità morale, la ricchezza di umanità (cfr. Michele Federico Sciacca, Il mio itinerario a Cristo, SEI, Torino 1944). Dopo la laurea collaborò con Aliotta nella redazione della rivista “Logos”, dove sostenne le posizioni dell’Attualismo.
L’entusiasmo gentiliano cominciò a declinare nel 1935, quando proprio su invito di Gentile, Sciacca intraprese lo studio di Rosmini. L’inquietudine destata dalle letture rosminiane era, infatti, visibile in una domanda che Sciacca si pose nel 1935: «è possibile, partendo dalla filosofia dell’atto puro e utilizzando le conquiste dello spiritualismo da Platone a Rosmini, inverare l’Attualismo in una forma di spiritualismo, che riaffermato con maggior consapevolezza il principio della creatività dello spirito, appunto per questo non può non ammettere l’esistenza di Dio? Un tentativo in questo senso lo sta facendo il Carlini e sullo stesso problema medita da qualche tempo lo scrivente». Risultato della crisi fu il primo manifesto del suo pensiero, Linee di uno spiritualismo critico, pubblicato nel 1936.
L’allontanamento dall’idealismo non comportò un raffreddamento dei rapporti con Gentile; al contrario, per il resto della sua vita Sciacca conserverà l’ammirazione e la riconoscenza per il Maestro. Nel 1943, Sciacca, ormai convertito alla fede cattolica, si recò a Roma per incontrare Gentile e aggiornarlo sui propri studi rosminiani.
Sciacca ottenne la cattedra nel 1937, per iniziativa di Armando Carlini, con cui aveva stabilito un intenso scambio intellettuale (cfr. Michele Federico Sciacca, Armando Carlini, in Figure e problemi del pensiero contemporaneo, Marzorati, Milano 1971, pag. 54, dove Sciacca riconosce di dovere la cattedra a Carlini).
Docente di Filosofia Teoretica e di Storia della Filosofia nelle Università di Palermo, Pavia e Genova, fu un filosofo non facilmente catalogabile perché realmente autonomo, che si formò grazie all’influenza di grandi autori come Leopardi, Democrito, Epicuro e in particolare Fichte, dal quale si sentì indirizzato verso l’idealismo trascendentale. Con la sua attività spaziò per decenni in tutti i campi della filosofia classica e moderna, dalla teoretica alla metafisica. La ricerca di risposte adeguate ai problemi della persona, del male, della libertà e della sofferenza spinsero l’intelligenza di Sciacca verso gli ampi orizzonti della metafisica cristiana, grazie allo studio approfondito di Agostino di Ippona e Tommaso d’Aquino, nonché al proficuo incontro, come già detto, con Giovanni Gentile.
Uno dei lineamenti fondamentali e più originali del suo pensiero si riassume nell’idea secondo cui ogni teoria, per quanto errata nella sua totalità, può sempre contenere una verità che sarà utile in quel che Sciacca, insieme a Rosmini, chiama «sistema della verità». Nel campo degli studi rosminiani ebbe il ruolo di protagonista nel Centro studi di Stresa. Nel 1946 fondò il “Giornale di metafisica”, che diventò il luogo del dibattito intorno al rinnovamento della filosofia italiana. Nella sua ingente produzione troviamo saggi su Platone, Rosmini, Pascal, Kierkegaard, Blondel, Agostino, Tommaso.
A Genova avviò, con il cardinale Siri, una felice stagione della cultura cattolica, che fu interrotta dall’onda sessantottina e dall’irruzione degli spettri neo-gnostici. In un fondamentale saggio sulla condizione umana, L’uomo questo “squilibrato” (1956), il filosofo di Giarre aveva diagnosticato lucidamente le malattie mortali del pensiero anticristiano: la vulnerabile sicumera e l’abbacinato trionfalismo.
Allo sguardo acuto di Sciacca, la monumentale macchina dei filosofi moderni svelava la sua vulnerabilità, la sua incauta esposizione al vento della frustrazione, nascondendo l’insufficienza – il limite metafisico – dell’umano e della natura. E più che nasconderlo, il limite lo risolveva nell’Assoluto, che facendosi storia – cioè rivoluzione – attuava se stesso. La storia e il mondo, in ultima analisi, prendevano il posto di Dio.
Sciacca aveva mostrato, in anni non sospetti, l’inclinazione a Sinistra della strada che oggi è concordemente battuta dai nipotini di Marx e dagli orfani del superomismo: «Al marxismo contemporaneo, nelle sue forme più consequenziali, non è estraneo questo concetto nietzschiano: l’uomo futuro, quale lo creerà la società comunista, sarà totalmente diverso dall’uomo quale lo ha costruito la società borghese; l’uomo di domani (o l’uomo perfetto) non sarà più quest’uomo, ma un altro, strutturalmente diverso, tanto è vero che non avrà bisogno né di un ordine giuridico-statale né di un ordine morale, né avrà più bisogni di sorta. Così, 1’antiproletario Nietzsche, esaltatore dei valori della nobiltà e del sangue, si può riconoscere nell’esaltazione marxista della società omogenea, incarnazione dell’uomo assoluto e perfetto, anch’egli al di là del bene e del male e non umano, niente umano; e come tale, negazione dell’uomo e dell’umano», in L’uomo questo “squilibrato”, Marzorati, Milano (1959).
Sciacca è giunto a tale conclusione guidato dall’istinto dell’umanista, che risale alla radice metafisica di tutti i problemi sociali, scansando con cura le trappole seminate dai seguaci delle mode trionfanti: «Per quanto veri e pressanti possano essere, come lo sono nell’odierna temperie, i problemi sociali, economici, giuridici e politici non sono né fondanti né fondamentali; non stanno alla radice. Sono invece radicali i problemi metafisico e ontologico, morale e religioso, quelli che pone l’essere dell’uomo, che dell’uomo stesso è la verità e il bene, i quali non possono ricevere una risposta esauriente dall’economia e dalla politica, ma dall’ontologia e dalla metafisica, cioè da un’indagine sull’essere dall’essere», in Prospettive sulla metafisica di San Tommaso, Città Nuova, Roma (1975).
Prima che l’anomalia neognostica e libertaria dilagasse in Occidente, Sciacca formulò, infatti, un’impietosa ma esatta diagnosi sulla salute della ragione laica: «Un nuovo messianismo laicista iconoclasta ha invaso e corrotto la cultura europea. La fiducia che tutto sarebbe stato meglio fondato se fondato soltanto sull’ordine naturale e umano, storico, senza Dio o attraverso la riduzione o trascrizione al secolo di Dio e di tutte le verità teologiche, la sicurezza che, perduto Dio, nulla sarebbe perduto – lo stesso Cristianesimo sarebbe stato riconquistato come dottrina morale e sociale, una volta “purificato” dai suoi “mitici” elementi soprannaturali anch’essi razionalizzabili – si sono rivelati fallaci: i valori privati dal loro fondamento assoluto, si sono eclissati; l’ordine dell’uomo e della natura è rimasto sospeso nel vuoto. Invano, per circa due secoli, la ragione divinizzata si è affaticata a salvarsi inventando limiti della sua assolutezza – dell’assoluto della scienza, della filosofia e dell’arte, dell’assoluto della morale, della società e dell’umanità, ecc. –, invano il mito e ogni mito si è rivelato semplicemente mito. La filosofia posteriore allo Hegel ha dato l’assalto alla ragione, ha demolito la sua mitica assolutezza e con essa la validità oggettiva di ogni valore conoscitivo morale, religioso, ecc.», in L’ora di Cristo, Marzorati, Milano (1973).
Per l’effetto ritardante della predicazione lukacsiana, la cultura occidentale non ha ancora assimilato l’idea della dipendenza del nazismo dalla tradizione germanica, che era stata chiarita magistralmente da Michele Federico Sciacca: «E’ molto pericoloso credere che il nazionalsocialismo sia stato l’aberrazione momentanea di un gruppo di fanatici e, come tale, nemico della vera Germania, o ad essa estraneo, in quanto si giudica come fenomeno passeggero e di superficie quella che invece è stata, nella sua complessità, una delle manifestazioni più sconvolgenti e più tragiche di ciò che da secoli è e tenta di essere la Germania. Hitler non è una breve parentesi antitedesca del suo paese, ma una delle sue espressioni profonde; e non solo della Germania: un po’ di Hitler è in ogni uomo e in ogni popolo. Hitler non si spiega senza Lutero e il romanticismo tedesco, senza Fichte, Hegel, Nietzsche, ecc., senza la Germania e tutta la situazione storica e culturale del nostro tempo», scrisse con grande chiarezza in L’ora di Cristo.
Fu Autore di numerose voci per l’Enciclopedia Cattolica (1953).
Istituzionalmente monarchico, Sciacca ne teorizzò le ragioni in Convegni promossi dall’Unione Monarchica Italiana e nel magistrale testo Monarchia e Democrazia, L’Arco, Roma, 1957.
Collaborò con giornali quotidiani fra cui “Il Tempo”. Fu condirettore della rivista “Logos” e fondò “Il Giornale di metafisica”. Ideò e promosse iniziative culturali e scientifiche di grande rilievo ancora oggi operanti, quali: il Centro di studi rosminiani di Stresa e l’Istituto Internazionale di studi europei A. Rosmini di Bolzano. Fra le Opere: L’Anima, Morcelliana, Brescia (1954); Interpretazioni rosminiane, Marzorati, Milano (1958); L’uomo questo “squilibrato”, Marzorati, Milano (1959); Come si vince a Waterloo, Marzorati, Milano (1963); La filosofia e la scienza nel loro sviluppo storico. Per i licei scientifici, Cremonese, Roma (1965-1967); Platone, Marzorati, Milano (1967); Filosofia e antifilosofia, Marzorati, Milano (1968); La Chiesa e la civiltà moderna, Marzorati, Milano (1969); Pagine di critica letteraria (1931-1935), Marzorati, Milano (1969); Studi sulla filosofia antica. Con un’appendice sulla filosofia medioevale, Marzorati, Milano (1971); Ontologia triadica e trinitaria. Discorso metafisico teologico, Marzorati, Milano (1972); L’Insegnamento della filosofia: atti del II Convegno di studi, Messina, maggio 1974, Editrice Peloritana, Messina (1974); Reflexiones inactuales sobre el historicismo hegeliano, Fundación Universitaria Española, Madrid (1975); Il magnifico oggi, L’Epos, Palermo (1993); In Spirito e Verità, L’Epos, Palermo (1993); La clessidra, L’Epos, Palermo (1993); L’ora di Cristo, L’Epos, Palermo (1993).
Postumo il manoscritto che lasciò sul suo scrittoio, che circoscrive il compimento della sua lunga meditazione: La Casa del pane, L’Epos, Palermo (1999).
In Atto ad essere, L’Epos, Palermo (1991), ha scritto: «La filosofia non asciuga lacrime né dispensa sorrisi, ma dice la sua parola sulla verità delle lacrime e dei sorrisi».
Il mio ricordo di Michele Federico Sciacca è segnato dalla partecipazione ad alcuni eventi, il primo dei quali è legato al Convegno dell’Associazione Internazionale Giusnaturalisti Cattolici Filippo II, presieduto dal geniale filosofo del Diritto Francisco Elias de Tejada e svoltosi a Genova, per decisione dell’appena nata (a Napoli per il Convegno de “L’Alfiere”, nel 1973) sezione italiana voluta da Silvio Vitale, Pino Tosca, Piero Vassallo, Paolo Caucci e da chi scrive, sul tema fondante e qualificante dedicato al Tomismo e a San Tommaso d’Aquino.
Bene organizzato da Vassallo, il Convegno vide all’inizio la presenza partecipe e una relazione del benemerito cardinale Giuseppe Siri, un vero custode dell’ortodossia cattolica e papa mancato – per pochi voti – quando invece fu eletto Paolo VI.
Convegno in partenza riuscito, quello genovese, con molte autorevoli presenze e relatori di alto livello accademico di vari Stati esteri. Siri svolse con zelo e forse senza troppa enfasi di dimostrazione di cultura e sapienza (non ne aveva certo bisogno, visto il calibro e la superba cultura di quel prelato) il suo atteso compito. Ma al termine del suo intervento fu attaccato pesantemente da de Tejada, che ritenne insufficiente la relazione.
Un autentico errore, che fece perdere al rinato tradizionalismo italiano, dopo i Convegni fiorentini e napoletani (1972 e 1973), una vera occasione d’oro, che non si poté appieno recuperare per i pur riusciti incontri successivi: a Bari, su Vico; a Palermo, sui Movimenti popolari Antigiacobini; a Roma, l’ultimo, sul Risorgimento.
Sciacca, designato quale relatore di eccezione, con altri (fra cui Giovanni Cantoni) abbandonò il Convegno, solidale con Siri. Ampi furono gli echi sulla stampa e le ovvie polemiche successive.
Io rimasi quasi tramortito e molto confuso, ma restai a fianco dei miei amici della Filippo II, più per fedeltà a loro che per convinzione su quanto tristemente accaduto.
Il grande rigore morale di Sciacca lo si poté notare ampiamente.
Precedentemente al Convegno di Genova avevo avuto modo d’incontrarlo, con la fortuna di poter scambiare brevemente impressioni con il maestro di Giarre (che ha lasciato una scuola di autentici discepoli, a cominciare da Pier Paolo Ottonello e dalla compianta Maria Adelaide Raschini) – auspice lo zio Salvatore Riccobono junior – nella sede di Piazza Indipendenza dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo. Qui Sciacca aveva commemorato Santino Caramella, altro esponente dello spiritualismo cattolico, con talune venature tardo idealistiche e di cui ebbi peraltro modo di pubblicare, grazie a Franco Armetta, con la collana Ercta che dirigevo per la Provincia, un bel libro sulla poesia.
Certo, la figura di Sciacca colpiva e non poco, malgrado l’accento d’origine ben espresso, e tuttavia mentirei dicendo che quegl’incontri furono decisivi per la mia permanente memoria di lui. Decisivo fu, invece, lo studio successivo della sua vasta Opera, in parte pubblicata dalla generosa casa editrice L’Epos di Biagio Cortimiglia a Palermo (che ha recentemente chiuso i battenti), da Marzorati e altri editori e, ancor più, per il tramite del motivante e forte indirizzo datomi dal mio amato professore Giulio Bonafede, che fu vicino al Maestro, non pienamente ricambiato, forse, come avrebbe meritato. Bonafede non fu mai professore ordinario, infatti.
Il rosminianesimo di Sciacca e Bonafede mi fecero approfondire anche il pensiero del grande filosofo e sacerdote di Rovereto che, a quel tempo, non era stato – come meritava pienamente – riabilitato dalla Chiesa.
Altro tramite indimenticabile con il pensiero e la teoresi di Sciacca e Rosmini fu il milazzese Peppino Pellegrino, editore puro della SPES, che sembrava, nei tratti e nell’entusiasmo, la reincarnazione di Giorgio La Pira. I meriti di quest’uomo generoso e coltissimo (al pari di molti altri contemporanei seguaci di Rosmini, fra cui il comune e dotto Amico prof. Francesco Mercadante) sono innumerevoli. Basti solo ricordare che egli dedicò tutta la vita ai Convegni rosminiani, con relativi Atti, di Stresa, animati appunto da Sciacca, che li guidava con grande polso e autorevolezza. Debbo anche a Pellegrino la riscoperta dell’opera di Angelina Damiani Lanza, passata alla storia letteraria come Angelina Lanza, la preclara autrice di un autentico capolavoro, La casa sulla montagna, un poema narrativo su Gibilmanna – località vicino Cefalù, con il caratteristico santuario francescano – in cui si descrive la vita sacra, semplice e solenne della gente di quelle montagne. Proprio con Pellegrino pubblicammo, nel 1995, in coedizione SPES-Thule, tutte le poesie della Lanza; inoltre a lei dedicammo un Convegno di Studi che si svolse alla Facoltà Teologica di Sicilia, aperto da colui che poi fu il grande arcivescovo di Monreale, mons. Cataldo Naro, a cui mi accomunavano, oltre agli ottimi rapporti, molti interessi, nonché la comune venerazione per la figura e il magistero di don Divo Barsotti.
è proprio vero: a volte un incontro, due, possono segnare in profondità l’intera esistenza. Così è avvenuto per me, incontrando e soprattutto studiando l’opera di un grande e geniale filosofo e pensatore: Michele Federico Sciacca.