Pubblichiamo la prefazione di Augusto Cavadi a "Il paradiso e la scrittura" (Il Convivio ed.) di Guglielmo Peralta

UNA PISTA DI LETTURA (FRA MOLTE POSSIBILI)

 

 

Se fossi un bibliotecario avrei qualche difficoltà a collocare nello scaffale opportuno Il paradiso e la scrittura di Guglielmo Peralta. Antropologia, metafisica, critica letteraria, epistemologia, etica, teologia? O più semplicemente, e più radicalmente, esercizio di scrittura poetica?

Questa trasversalità di generi, che infastidisce i funzionari dell’accademia, costituisce per me – invece – una ragione di fascino. È come surfare su una distesa marina con venti incostanti e talora contrastanti: tutto un gioco di tirare e lasciare, governare e abbandonarsi.

Si comincia da dove non si può non cominciare se si vuole essere rigorosi, pur nella elasticità del nomadismo intellettuale: dall’Inizio (o, come dicevano i più anziani tra i miei professori universitari, dal Cominciamento). Cioè dal Nulla inteso non come negazione, bensì come possibilità, di ogni esistente: quel Caos originario, secondo molti scienziati, o quel Grembo originario, secondo molti pensatori, da cui è scaturito – anzi, scaturisce momento per momento – tutto ciò che, sia pur precariamente, resiste alla voragine del niente. Allora attenzione alle trappole linguistiche dei catechismi e delle catechesi: “Dio ha creato dal nulla” significa che ha tratto solo da sé stesso, e da null’altro, ciò che esiste. Questa lettura eradica da ogni monoteismo qualsiasi traccia di nichilismo: l’essente, lungi dall’essere intrinsecamente nihil, è sprazzo che sprizza dal Nulla/Tutto. E se, con i Greci, chiamiamo Physis (Natura) la matrice da cui si genera (nasce) ogni ente - anche gli dei e i valori - possiamo intercambiare le parole Nulla e Natura per indicare quel Fondo/Fondamento che si dà a vedere e a toccare nei suoi raggi, nei suoi effetti, mai in sé stesso.

Questo scenario metafisico – nel senso di ontologico/teologico – non è senza ricadute antropologiche: anche la mia morte, come ogni dissoluzione fenomenica, è un ritorno al Nulla che non deve atterrirmi: in realtà è ritorno al Tutto da cui anch’io derivo. Ci aveva già avvertito Bernhard Welte nel suo La luce del nulla. Sulla possibilità di una nuova esperienza religiosa. In ogni sua opera lo ha ribadito, in termini più monistici, Emanuele Severino. Che riprende – mi pare senza dichiararlo – il Nulla buddhista (o, per lo meno, di certo buddhismo) cui, invece, si appella esplicitamente Francesco Dipalo nel suo Nulla e dintorni. Aforismi per un anno.

Questo percorso di pensiero nega il principio di non-contraddizione aristotelico? Peralta lo afferma (p. 6), io ne dubito: infatti, Aristotele non è Hegel e si occupa, modestamente, dell’ente, non dell’Essere. Comunque avrebbe, forse, obiettato che se muta “il punto di vista” (o se muta “il tempo”), non si dà contraddizione. Il Nulla, che da un certo angolo di visuale (in quanto origine originante), è Nulla, da un altro punto di vista (in quanto totalità degli originati) non è Nulla, ma Essere. Con Giordano Bruno si potrebbe dire che nell’unica Divinitas si possa distinguere il Deus supra omnia dal Deus in omnibus. In ogni caso, il lettore avrà anche qui materia di meditazione speculativa per arrivare a una sua propria convinzione.

Ma, se torniamo al Nulla, esso ha molto in comune con la Poesia: entrambi sono Sorgente invisibile del visibile, Suono inudibile da cui deriva l’udibile. Se consideriamo la morte come la porta d’ingresso nel Nulla, essa mostra la sua affinità con la Poesia: “di entrambe non abbiamo esperienza ma solo una rappresentazione (il cadavere, il funerale, per quanto riguarda la morte; le opere, le produzioni dell'arte, le belle forme della natura, per la Poesia)” (p. 6).

In questo scenario, la scrittura – e in generale l’opera – è “l’apertura verso l'Infinito, il modo di essere in questo spazio: artisticamente e spiritualmente, umanamente aperti infiniti incompiuti ” (p. 7). Incompiuti noi, incompiute le nostre opere: “Tracce del cammino verso il Dire originario sono le parole, in quanto segni mentali, illuminazioni, istanti di grazia che rischiarano l'oscurità e ci mettono_in ‘contatto’ con_quella sorgente che è_la Poesia” (p. 8).

Precisiamo subito: qui “poesia” non è, riduttivamente, la produzione letteraria in versi ma, più ampiamente (secondo la lezione di Benedetto Croce), ogni attività spirituale: “la Poesia è il Principio creativo, la Weltanschauung universale, l’infinito campo semantico, la Poiesis; pertanto, essa è, e in-veste tutte le espressioni dello spirito; è, ed incarna tutti i saperi, le esperienze, le discipline. I grandi sistemi filosofici, le scoperte della fisica e dell’astronomia, i teoremi della matematica, i fondamenti e gli sviluppi della geometria, le conquiste della medicina, il progresso tecnologico, sono il frutto del fare, del progettare poeticamente. Nessuna conoscenza è possibile senza l’immaginazione creatrice, e là dove c’è creazione c’è stupore, meraviglia. E, dunque, c’è Poesia!” (p. 21).

La partita non si gioca solo fra l’autore e la sua opera: “l’evento impronunciabile della poesia” “alberga” nel “felice accordo tra l'orecchio dell'interprete e la voce interiore del testo” (p. 10). Difficile non ritrovarsi nella mente il circolo ermeneutico (Dilthey, Heidegger, Gadamer), ma Peralta avverte che questo circolo non avrebbe principio (nel doppio senso di inizio e di fondamento) se non fosse preceduto da ciò che egli chiama il “circolo poiesico” in cui si consuma il corpo a corpo fra il poeta e la “presenza/assenza dell'essere” chegarantisce e rende incessante il processo creativo” (p. 11).

È facile intuire che, in questo contesto, nell’esperienza poetica c’è qualcosa di sacro. Ma il sacro non è il santo, è più comprensivo: accade anche là dove non c’è consapevole accettazione da parte dell’umano. In questo senso, mi pare, Peralta può affermare che “Nell'opera, infatti, il ‘divino’ si dis-vela, è presenza_e_assenza._L’amore_che_lega_il_poeta_alla_Poesia_non_è necessariamente un_rapporto_di_fede_religiosa._Per_questo esistono poeti_‘maledetti’ e _miscredenti,_e tuttavia grandi._La Poesia non distingue tra i suoi eletti e, benché li governi, lascia loro libero arbitrio e libertà di espressione” (p. 13).

Ma arriviamo al titolo del libro: chi produce e/o fruisce della poesia è un “nuovo Adamo” che torna a_“contemplare,_ad_essere per la Bellezza”. Egli fa_del “giardino_della_scrittura”_il nuovo “paradiso_terrestre”, realizzando così “la ragione_e_il_fine_della_scrittura_medesima(p. 19).

Perché ho accettato di scrivere queste righe?

Nell’illusione che possa indicare una possibile traccia di lettura. Ma devo avvertire che Peralta ha scritto intorno alla Poesia su un registro linguistico poetico e, dunque, un lettore meno prigioniero di me dell’armatura logico-razionale (alla quale risulta ostico concepire lo stato attuale dell’umanità come effetto di una “caduta” piuttosto che come tappa prodigiosa di un’ambigua “evoluzione”) saprà scoprirvi – se disposto a ‘ruminare’ più volte queste pagine - valenze molto più profonde. Non potrei formulare augurio migliore, suppongo anche a nome dell’autore di questo testo così ispirato e così evocatore.

 

 

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