“Quale Lucrezio oggi” di Maria Nivea Zagarella
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- Category: Scritture
- Creato: 04 Giugno 2024
- Scritto da Redazione Culturelite
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Di secolo in secolo gli antichi autori greci e latini hanno consegnato, in relazione dialettica con i più diversi contesti storico-culturali e sociali, alla letteratura europea e italiana modelli di stile, pensiero, comportamenti nobilmente vitali e creativi. Il dialogo con il passato e con la letteratura amplia sempre i confini del vissuto, sollecita attraverso l’analisi e l’interpretazione confronti e domande, agita problemi, esige risposte, e quanto più si articola come rispettoso esercizio di humanitas, conoscenza, libertà, tanto più contribuisce alla reale emancipazione e miglioramento delle condizioni umane. Un autore al quale tanti intellettuali, poeti, studiosi sono ciclicamente tornati -a parte i detrattori- per affinità di ideologia, sensibilità o profonda attrazione poetica e umana è Lucrezio, materialista e ateo, oggetto anche del recente saggio di Ivano Dionigi L’apocalisse di Lucrezio - Politica Religione Amore. Di Lucrezio -come si sa- sono incerte le date di nascita e di morte (forse il 94/93 e il 50/49 a. C.) e secondo notizie trasmesse da san Girolamo, leggendarie per alcuni, solo in parte credibili per altri (quale la possibile psicosi maniaco-depressiva) il poeta, impazzito per un filtro d’amore, dopo avere composto negli intervalli della pazzia i libri del De rerum natura, si sarebbe ucciso a 44 anni. Il poema, scoperto nell’abbazia di San Gallo dall’umanista Poggio Bracciolini nel 1417 e stampato in editio princeps nel 1473, ha avuto nel tempo -informa Dionigi- tre importanti volgarizzamenti in endecasillabi (quello barocco elaborato da Alessandro Marchetti, uscito postumo e messo all’indice nel 1718, e quelli tardo-ottocenteschi realizzati nel contesto positivistico da Giuliano Vanzolini e Mario Rapisardi), e ammiratori e commentatori quali il Tasso, che nella malinconia suicida di Lucrezio lesse qualcosa di sé, Giordano Bruno che ne condivise la teoria della pluralità dei mondi, la genesi materialistica dell’uomo, l’elogio del libero pensiero e della conoscenza eroica che sfida le minacce degli dei, e ancora, gli illuministi (d’Holbach, Rousseau, Diderot, Voltaire), i nostri Foscolo e Leopardi, o nel ‘900 Mario Luzi, per il quale il razionalismo di Lucrezio restituisce l’uomo come un frammento brulicante del dramma universale e libera la visione delle cose dall’angustia dell’abitudine collettiva e dell’emotività soggettiva.
Dionigi racconta che entro il ribellismo dei primi anni ’70, che portava i giovani all’antagonismo con padri maestri e padroni, preferì, quale argomento della sua tesi di laurea, il rivoluzionario e iconoclasta Lucrezio degli elogi ad Epicuro (l. I, III, V, VI), la cui vittoria sulla paura degli dei e della morte nos exaequat caelo, allo stoico Seneca, e precisa di tornare oggi al suo autore preferito -preferito quanto la Bibbia perché l’uno e l’altra lo inchiodano alle domande ultime e penultime- per chiedersi se e quanto il sentire cosmico e razionale di Lucrezio sia in sintonia con i problemi e gli interrogativi del nostro presente. Nella visione atomistica epicurea e lucreziana la vita mortalis è regolata dalla mors immortalis: gli atomi infiniti ed eterni nel loro eterno sciamare/cozzare creano ininterrottamente mondi nuovi e infiniti, per cui anche il nostro mondo è destinato a finire, se non ci estingueremo prima da soli, -scrive pure Telmo Pievani (in Finitudine, 2020), e noi stessi umani altro non siamo, come i fiori le piante gli animali la terra il mare, che un aggregato precario e effimero di atomi, insignificante e marginale nell’infinità dell’universo e dei mondi. Nessuna dunque presunta “centralità” dell’uomo, nessuna gerarchia tra creature animate e inanimate, una negazione anzi drastica emerge dell’antropocentrismo che, attualmente predatorio e sopraffattore sul pianeta di uomini e cose, viene richiamato ai suoi limiti dai gemiti della natura, che vuole essere libera e non più vexata, oltre che dalla minaccia delle macchine che abbiamo fabbricato in un delirio di prometeica immortalità. Tutto -scrive Dionigi- è in relazione, è relazione, ha un destino comune, e ha la stessa dignità, ed evoca il Cantico delle Creature, che enuncia -precisa- le stesse cose anche se in modo più lirico, personale, coinvolgente, e del Cantico richiama anche l’immagine parentale francescana della sora nostra morte corporale, perché essa coabita in noi e con noi, come canta pure il poeta austriaco Rainer Maria Rilke: La morte è il lato della vita rivolto dall’altra parte rispetto a noi. Dionigi condivide di Lucrezio la condanna dell’uso politico della religione (“sovrastruttura” questa per l’autore latino nata dalla paura e dall’ignoranza degli uomini di fonte alla inspiegabilità e alla violenza dei fenomeni naturali) e gli attacchi alla falsa e cruenta pietas ritualistico-formalistica: non è vera pietà - scriveva Lucrezio- farsi vedere spesso col capo velato/ attorno a una statua di pietra… né gettarsi a terra prostrati…, né inondare gli altari del sangue di animali… Esalta lo studioso invece la pietas razionale e cosmica di Lucrezio, lo sguardo lucido e imperturbabile (pacata mente) con cui il poeta vuole “contemplare” (tueri) il Tutto (omne), e accosta il verso lucreziano al passo evangelico giovanneo (4, 21 e 23) in cui contro ogni appropriazione interessata del divino si legge: <<Dio non lo adorerete né su questo monte né in Gerusalemme…I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità>>.
Quanto agli effetti del progresso tecnico e materiale nello sviluppo successivo della civiltà, Lucrezio -come si sa- ne evidenzia gli esiti negativi di regresso morale e interiore, perché esso, innescando una spirale di desideri nuovi e di bisogni non necessari, produce avidità, invidia, sete di potere, ambizione, insomma una “nevrosi” di potere politico e economico, e oggi digitale, che illudendo l’individuo di prolungare la vita e fuggire dalla morte, alimenta crimini e guerre, travagliandosi -osservava Lucrezio- il genere umano a vuoto e invano, perché non conosce quale sia il limite al possesso (habendi…finis)… e fino a qual punto cresca il vero piacere (vera voluptas). Quei limiti alle passioni che possono apprendersi solo alla scuola della sapientia, ars suprema fra tutte le arti e tecniche inventate dall’uomo per la sua sopravvivenza. Dionigi rimarca che è il pensiero umanistico la struttura dura, l’hardware che fa girare i programmi dei saperi specifici. Tutto il resto -conclude- è software. E contro l’odierno Prometeo “scatenato”, l’uomo combinato con la macchina, aumentato dalla macchina, e i pericoli dell’invasiva ”Atene digitale”, lo studioso, ricordando che nel Protagora di Platone l’abilità artigianale, cioè la “tecnica della costruzione” era subordinata all’“arte della politica”, il faber sottostava al civis perché funzionale al bene/benessere della polis, invoca la buona politica, uno ius mundi, e un recupero dell’umanesimo del Socrate “interrogante”. Rispetto poi alla passione amorosa (la dira cupido), oggetto del finale del IV libro, Lucrezio -precisa Dionigi- aveva già dato voce, prima della psicoanalisi, al dramma degli innamorati impossibilitati a fondersi nell’atto sessuale, nel furore del desiderio, in un unico corpo: E quando infine uniscono le carni e godono la giovinezza, quando al presentimento del piacere il corpo sta venendo e Venere sta per seminare il campo femminile, trafiggono quel corpo avidamente e mischiano le labbra, la saliva e ansimano e mordono le labbra. E’ inutile: non possono strappare niente di lì, non penetrare e perdersi in quel corpo, con il corpo… Nel ’900 lo psicanalista Jacques Lacan teorizzerà che è strutturale all’Amore anche nell’atto sessuale (che non va ridotto al solo rozzo godimento fallico) l’essere non “esperienza appropriativa”, ma relazione/incontro con la singolarità irriducibile (non assimilabile) dell’Altro. Donde la “trascendenza” del desiderio, anche di quello sessuale che si innesta in quello amoroso. Quando dichiaro “ti amo”- spiegherà pure Massimo Recalcati in La legge della parola- .dichiaro che amo tutto dell’altro, ne amo il nome proprio.
E concludiamo con qualche osservazione sulla lingua del poema, che si caratterizza per le molte parole nuove, verba nova, inventate e/o adattate a esprimere le res novae, le idee nuove e rivoluzionarie che il poeta veniva annunciando in accesa polemica con il mos maiorum. Parole definite dicta veridica, che dicono cioè la verità, e poggiavano -come sottolineano Ivano Dionigi e Nicola Gardini- sulla singolare specularità intuita da Lucrezio fra il “cosmo” e il ”testo”. Nel primo libro enuncia il poeta il principio fisico che gli stessi atomi costituiscono (constituunt) il cielo, il mare, i fiumi, il sole, gli stessi le messi, le piante, i viventi; nel secondo libro enuncia il principio grammaticale che le stesse lettere designano (significant) il cielo, il mare, le terre, i fiumi, il sole, le stesse le messi, le piante, i viventi. Lì si parla della formazione dei corpi, qui della formazione delle parole, ma la specularità è favorita dal fatto che le combinazioni degli elementa-atomi e degli elementa-lettere seguono gli stessi principi ordinatori: concursus motus ordo positura figurae (incontri, movimenti, ordine, posizione, forme). Se questi cambiano, si trasformano i corpi come parallelamente le parole, e come possono, ad esempio, l’uomo e i vegetali -pur essendo forme diverse di vita- avere atomi comuni, così parole differenti possono condividere stesse lettere alfabetiche. La vita dell’universo dunque per Lucrezio si organizza e si rende “leggibile” come l’ordinarsi del linguaggio in un’opera scritta, e il poema -osserva opportunamente Gardini- viene in tal modo a configurarsi come un’immagine in scala ridotta dell’universo. Esito implicito nell’altro principio enunciato anch’esso con chiarezza dall’autore latino, quando scriveva che un piccolo fenomeno (parva res) può rappresentare un modello di grandi fenomeni (rerum magnarum), e una traccia della loro conoscenza.
Un incontro davvero singolare il De rerum natura tra vigore poetico, “officina” linguistica, pensiero filosofico e molteplicità complessa, dinamica, e anche sfuggente, del reale!