“Quinta dimensione”. Sulla nuova traduzione spagnola di Corrado Calabrò - di Roberto Nicolai

Come sempre più spesso mi capita di fare inizierò con una domanda. In questi ultimi tempi sto riscoprendo i dialoghi platonici, specialmente quelli relativi al discorso, al suo statuto di verità e all’avanzamento di conoscenza che può portare, e contenenti al loro interno estesi discorsi: Fedro, Apologia, Menesseno[1]. E nei dialoghi platonici le domande sono più importanti delle risposte, sempre provvisorie e aperte a una nuova domanda o a nuove domande.

In questo caso la domanda è: esiste una scienza della poesia? Non mi riferisco ai tentativi di valutazione quantitativa sul genere di quella praticata in forme meccaniche, e quindi prive di senso, nella scuola dell’Attimo fuggente e confutata dal professore impersonato da Robin Williams. Quello che esiste è la ‘storia della letteratura’, una disciplina non scientifica, ma, come dice il nome, storica, che cerca di collocare nel suo tempo l’opera di uno scrittore, di comprenderne le funzioni (almeno quelle ipotizzate dall’autore in rapporto al suo lettore ideale)[2] e le strategie letterarie. Purtroppo, di storia della letteratura si parla sempre meno, a vantaggio di metodologie di moda.

Una breve parentesi: l’ossessione di poter quantificare e analizzare in modo obiettivo e scientifico non ha risparmiato il campo della ricerca, con le recenti, pessime, riforme dell’università che hanno imposto un sistema di valutazione e un meccanismo di abilitazione scientifica nazionale che mantengono una considerevole quota quantitativa anche per discipline che sfuggono a questo tipo di logica.

Naturalmente non esiste una scienza della poesia in senso galileiano, che prevede la possibilità di ripetere l’esperimento ottenendo, a parità di condizioni, lo stesso risultato: esistono una scienza e una critica della letteratura come discipline storiche e filologiche. E filologia e storia sono i due pilastri delle scienze umanistiche, secondo il titolo di un piccolo, ma straordinario, libro di Giorgio Pasquali[3].

Ma torniamo alla letteratura: presentare l’edizione in lingua spagnola della selezione d’autore delle opere di Corrado Calabrò[4] è un’occasione per cercare di fare il punto sull’opera di questo poeta e di inserirlo nella storia della letteratura italiana tra il XX e il XXI secolo. In questi ultimi anni non è mancato il lavoro critico su Calabrò: penso, tra gli altri, ai tre libri di Carlo Di Lieto, allo studio di Fabia Baldi e alla raccolta di articoli e pareri critici curata da Tommaso Romano e Giovanni Azzaretto[5]. Ma resta ancora molto da fare perché sui contemporanei è difficile esprimere giudizi storico-letterari corretti: mancano la distanza, lo sguardo sinottico, la prospettiva fondata sugli sviluppi successivi di un genere letterario. Secondo i grandi filologi alessandrini, gli autori contemporanei non possono essere inseriti nel canone: neminem sui temporis in ordinem redegerunt, dice Quintiliano parlando di Aristofane di Bisanzio e di Aristarco di Samotracia (Inst. Or. 10. 1. 54). In realtà, lo stesso Quintiliano compilando il suo canone degli autori latini si avvicinò alla sua generazione molto di più di quanto non avessero fatto gli alessandrini, ma questo deriva dal fatto che quello della grande letteratura latina è una sorta di secolo breve, preceduto da poche voci riconosciute come esemplari, su tutte Plauto e Terenzio. Quello dei canoni è un tema che mi sta molto a cuore perché i canoni sintetizzano le scelte di generazioni di critici, di maestri e di lettori: ci si può chiedere se per la poesia contemporanea sia possibile stilare canoni. Forse lo sarà tra due o trecento anni, adattando a questo tema l’utopia di Veršinin nelle Tre sorelle di Cechov: “Fra duecento, trecento anni la vita sulla terra sarà incredibilmente splendida, eccezionale”. una frase che cito spesso, in contesti diversi, perché sintetizza in modo mirabile la distanza che esiste tra la realtà, che è legata a quello che Tucidide (1. 22. 4) chiama l’anthropinon, l’elemento umano, che non muta, e l’utopia, il sogno. Si potrebbe dire che, anche nel campo della letteratura, la distanza, in questo caso rispetto agli autori del passato, li trasformi in personaggi di sogno rendendo classici quelli che vengono selezionati come i migliori[6]. Con un azzardo si potrebbe dire che un classico è un autore sognato, che esce dai limiti dell’attualità. Non posso soffermarmi sul termine ‘classico’ e sulle sue relazioni con i canoni, un altro tema al quale mi sono a lungo dedicato[7]: credo però che sia un tema di riflessione importante in un paese come il nostro che vanta profonde radici nell’antichità greco-romana. Perché questa digressione sui canoni e sui classici? Perché, se in età arcaica una redazione scritta era una forma di canonizzazione implicita, oggi sono le traduzioni a essere segnali di canonizzazioni. E la poesia di Corrado Calabrò è stata tradotta in più lingue e questo, nel nostro mondo globalizzato, è un segno inequivocabile della capacità di un autore di parlare a un pubblico vasto e non limitato a un solo paese.

Sappiamo bene che la poesia contemporanea è refrattaria alle etichette, che pure sono una necessità per gli studiosi, i quali in fondo cercano sempre di semplificare il quadro, di raggruppare, di classificare. Quella di creare correnti, movimenti e categorie e di collocarvi gli autori è una vera e propria ossessione, che porta spesso a risultati storicamente non plausibili: penso ai sofisti trattati come movimento filosofico, prescindendo dal contesto del V secolo a.C. Non furono un movimento, nel senso moderno del termine, e a loro si applica a fatica anche l’etichetta di ‘filosofi’ perché il termine designava chi amava il sapere, in tutta la sua ampiezza, dalle scienze naturali alla storia, comprendendo anche ambiti che per noi fanno parte della filosofia. L’ultima etichetta applicata alla poesia del Novecento, che ha avuto successo, ma che originariamente era derisoria, è quella di ermetici (Francesco Flora), che peraltro viene spesso applicata a poeti con caratteristiche molto diverse. Poi c’è stato un fiorire di ‘post’: post-moderni, post-ermetici. Ovviamente si tratta di categorie molto sfuggenti, soprattutto quando la seconda parte del composto non si lascia rinchiudere in una definizione: sfido chiunque a trovare una definizione condivisa di ‘moderno’. Figuriamoci che cosa succede con il post-moderno. Lo stesso si può dire per i composti con “neo”, come la neoavanguardia.

Molti poeti del Novecento non si lasciano facilmente incasellare in tendenze o correnti: penso a figure come Camillo Sbarbaro (che Wikipedia, nuova Bibbia delle conoscenze umane, definisce leopardiano dai toni crepuscolari), Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, che qualcuno definisce anti-novecentista e che altri avvicinano a Giovanni Pascoli e, ancora una volta, ai crepuscolari. Non provo neanche a capire cosa significhi ‘anti-novecentista’, come se una determinazione temporale contenesse una caratterizzazione critica. A questi autori non classificabili, che mi succede di apprezzare e di amare più di altri, va aggiunto Corrado Calabrò. Futuristi e crepuscolari sono stati evocati dalla critica, accanto a Quasimodo e a D’Annunzio, anche a proposito della poesia di Calabrò, ma si tratta di elementi di un linguaggio poetico che si costruisce anche, direi in piccola parte, con echi della poesia precedente, ma che, soprattutto, inventa qualcosa di inedito, di nuovo. Diceva Eugenio D’Ors “Todo lo que no es tradición es plagio” indicando una caratteristica di ogni letteratura, che nasce e si innesta sulla tradizione, sui predecessori, su un linguaggio poetico che si è formato nel corso delle generazioni. Amo molto la frase di D’Ors e l’ho citata in una precedente occasione proprio a proposito di Corrado Calabrò, ragionando sulla falsa opposizione tra spontaneità e poesia colta e metafisica[8]. Ora, proprio il linguaggio poetico, diverso da quello quotidiano, crea una prima forma di distanza della poesia, distanza essenziale per lo statuto stesso della poesia. Ma al tempo stesso è necessario aver chiaro che la poesia nasce da una dinamica perenne tra tradizione, di cui non si può fare a meno, perché di essa si sostanzia il linguaggio poetico, e innovazione. L’innovazione nasce dalla rifunzionalizzazione di elementi preesistenti, dall’uso di metafore che forzano il senso proprio espandendo il linguaggio e generando nuovi modelli, e dall’intersezione di tematiche, strategie e linguaggi afferenti a generi letterari diversi. Bisognerebbe distinguere tra ipotesti, riferimenti a un testo precedente necessari alla comprensione del messaggio, e modelli che restano sullo sfondo, da cui un poeta ricava elementi del suo linguaggio, e, inoltre, nell’analisi dei rapporti intertestuali, evitare di dare peso alle varie forme di intertestualità che, in un lavoro di qualche anno fa, ho chiamato naturale[9].

Nel caso di Calabrò colpisce l’accostamento ai crepuscolari, sorta di refugium a cui si ricorre quando si stenta a individuare influssi e termini di confronto: non a caso i crepuscolari sono stati evocati anche per Sbarbaro e per Bertolucci. Quanto ai futuristi, i presupposti ideologici della loro poesia sono completamente diversi da quelli di Calabrò.

Che Calabrò non si possa collocare lo ha affermato in modo reciso Dante Maffia, il quale ha cercato di ricostruire il panorama dei primi anni Sessanta, quando Calabrò ha cominciato a scrivere poesia, e ha spiegato il suo rifiuto di intrupparsi in questo o quel gruppo, di ripudiare il suo credo “per acquartierarsi in un artificioso esoterismo”[10]. La poesia di Calabrò non è esoterica; anzi è piana e si lascia leggere con piacere, anche se a uno sguardo più attento, come cercherò di mostrare, rivela connessioni e profondità che a prima vista possono sfuggire.

Ho parlato di scienza della poesia: è il caso ora di parlare di poesia della scienza, un campo ben poco frequentato, nel quale si è cimentato Calabrò. I due termini sembrano in opposizione violenta, ma, come la scienza, in particolare l’astrofisica amata da Calabrò, ha una sua poesia, così anche la poesia è, in modo del tutto peculiare una scienza, nel senso di strumento di conoscenza della realtà e, prima di tutto, di quel tramite tra noi e la realtà che è il linguaggio. Il motivo per cui la poesia va studiata nelle scuole è che senza la poesia il linguaggio si impoverisce, appiattendosi in una banale cronaca. Qualche tempo fa, in anni neanche troppo lontani, ci sono stati insegnanti che hanno pensato di sostituire i testi della letteratura con la lettura dei quotidiani. E di tanto in tanto proposte simili riemergono, a scapito ora della letteratura greca ora dell’Eneide di Virgilio. La lettura dei quotidiani, una rarità ormai tra i giovani, ma anche tra i meno giovani, è un’ottima cosa, ma non può e non deve sostituire la lettura della poesia e in generale delle opere di letteratura. Quindi poesia della scienza, nel senso di poesia che ha per oggetto la scienza, e poesia come scienza, ovvero come genere letterario con una propria dimensione epistemologica, poesia come strumento privilegiato di conoscenza della realtà. Naturalmente alla poesia come strumento di conoscenza va aggiunta la storia della letteratura, la disciplina che esamina storicamente la poesia e la interpreta.

Tornando a Calabrò, la sua astrofisica in poesia è una metafisica resa concreta, che diventa fisica. Accenno appena al fatto che il termine metafisica ha in realtà un valore terribilmente concreto: sono i libri di Aristotele che vengono dopo quelli sulla fisica, cioè sulla natura. L’immensità dello spazio cosmico è concepita come un altrove (ne ha parlato molto Fabia Baldi)[11], che si affianca ad altri altrove, entità in movimento e in perenne mutamento come il mare e il vento.

Passiamo ad altri ambiti e ad altre metafore. Si è detto che quella di Calabrò è una poesia del mare come immensa metafora, ma è anche poesia di un mare cantato nella sua concretezza. “Punto di riferimento eterno e doloroso”, “categoria filosofica o spirituale”, lo definisce Carlo Bo nella prefazione a Rosso d’Alicudi[12].

E veniamo all’elemento erotico, presente in una chiave che oserei definire platonica: mi riferisco al Platone del Fedro, dove eros non è soltanto l’oggetto dei discorsi di Lisia e di Socrate, ma è la condizione del progresso nella conoscenza. Su questo tema sta lavorando Piero Pucci, con risultati davvero interessanti: un primo esito è il volume La Parole au miroir, appena uscito e scritto con Domitien Grau (Paris 2022), che si conclude con un bel capitolo platonico. Anche in questo caso Carlo Bo ha colto un aspetto importante: “Un suo [di Calabrò] modo di fare la guerra con le donne è lo stesso di quello tenuto di fronte al mare”[13]. Amore concreto e amore come metafora, dunque. La dimensione epistemologica dell’eros in Calabrò riporta anche in questo caso, come in quelli del mare e delle profondità dello spazio cosmico, alla dinamica tra concretezza e metafora.

Si può dunque concludere che il cosmo, il mare, l’amore sono in fondo trattati allo stesso modo, come metafore e come realtà fisica e tangibile e il miracolo della poesia è proprio la capacità di fondere realtà e metafora, facendo in modo che l’una potenzi e rafforzi l’altra.

Se si prova ad analizzare la poesia di Calabrò, si può identificare una ricchezza di registri e di ipotesti che può sconcertare il lettore. Prendiamo le ultime poesie della raccolta, “Anzitempo”, del 2021 (p. 784: l’incipit (“Ha e non ha un suo tempo la vita”) è quasi sofistico ed euripideo, ma richiama anche il detto di Eraclito scelto come motto per il volume (“Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo”). Al v. 3 compare la similitudine con il mito di Kronos che divorava i suoi figli. Con un gioco di parole degno della poesia antica un carme sul tempo (chronos in greco, con la lettera chi, consonante aspirata) dà spazio al mito di Kronos (con cappa, consonante sorda). E chi è che divora i suoi figli? Il mitico Kronos, figlio di Urano e Gaia, o il tempo, chronos, con il chi, che fugit inreparabile, come dice Catullo? E il tempo pervade tutto il testo, fin dal titolo. Già Cicerone nel De natura deorum (2. 64) identificava Kronos e chronos:

 

Saturnum autem eum esse voluerunt qui cursum et conversionem spatiorum ac temporum contineret. qui deus Graece id ipsum nomen habet: Κρόνος enim dicitur, qui est idem χρόνος id est spatium temporis. Saturnus autem est appellatus quod saturaretur annis; ex se enim natos comesse fingitur solitus, quia consumit aetas temporum spatia annisque praeteritis insaturabiliter expletur.

 

L’orma dei passi sulla sabbia (5) rinvia al mare e a ciò che lo circonda, mentre i “tempi di recupero” (9) aprono la strada a metafore sportive, legate alla nozione di un tempo limitato e prefissato, riprese poco dopo (11) con “Sì, finisce anzitempo la partita”. Tra l’altro, il titolo ritorna quasi occultato in questo verso, incluso e quasi mascherato nella metafora sportiva. “L’ora d’aria” (10) riporta all’idea del carcere, con la vita come breve spazio di limitata libertà: di nuovo compare il tempo, l’ora breve della vita. Il dantesco “E più non dimandare!” (12) tronca qualsiasi discussione, ma apre la strada a un dialogo, alla presenza di un interlocutore: può essere un dialogo interiore o un dialogo tra l’io parlante e un immaginario interlocutore, ma il risultato non cambia. I Bronzi, immagino quelli di Riace, riportano alla Grecia e al mito, ma anche alla perenne domanda (14: “continuano a chiedere perché”). Un dettaglio: “Con gli occhi cavati” in realtà non riflette le condizioni attuali dei bronzi, uno soltanto dei quali (il bronzo B), è privo di un occhio (mancano semmai le pupille). Ma i Bronzi sono rappresentati come ciechi di fronte alle domande che la vita pone. Il passaggio vertiginoso dal mito al calcio, passando per il carcere, e poi alla Grecia dei Bronzi è lo strumento dello stupore che l’autore vuole suscitare. La dimensione del tempo è una chiave non solo di “Anzitempo”, ma dell’intera raccolta, che si intitola “Quinta dimensione”, con riferimento alla prima dimensione della coscienza non costretta nelle gabbie dello spazio e del tempo. Tempo fisico e tempo che si dilata nella mente, limitato e illimitato, dimensioni opposte e inconciliabili che soltanto la poesia può tenere insieme perché insieme stanno nella vita.

L’ultima poesia della raccolta, “Self sense”, del 2019 (p. 786), inizia con un paesaggio notturno che apre le porte dell’alba, evocata con il richiamo biblico “et lux fuit!” (16). In realtà in gen. 1. 3 nella Vulgata leggiamo “dixitque Deus fiat lux et lux facta est”. Il cambiamento del verbo non è senza significato e non può essere spiegato soltanto con ragioni metrico-ritmiche. La luce viene colta nel momento puntuale del suo apparire. E infine un’altra domanda, che chiude il componimento (17 s.): “Oh quant’è bella e improvvisa la vita! / Perché dovrebbe pure avere un senso?”, con la parola ‘improvvisa’ che richiama il fuit dell’apparire improvviso della luce. L’ultima parola, ‘senso’, riprende il titolo: per la vita non c’è bisogno di spiegazioni perché il senso della vita è nella vita stessa; semmai c’è bisogno di poesia, di un linguaggio che superi la dimensione del senso e crei un nuovo senso, più ricco.

La differenza tra la brevissima “Self sense” e il poemetto “Roaming”, del 2008 (pp. 27-69), che apre “Quinta dimensione” è in apparenza enorme: da una parte la folgorazione epigrammatica, dall’altra un componimento lungo, articolato e complesso. Ma lo stesso autore, nella nota che segue il testo (pp. 71-77), ammonisce a non vedere in “Roaming” una narratività che il poemetto non possiede. La dimensione onirica, con cui si apre “Roaming” mal si concilia con la narrazione, e si intreccia con la dimensione del tempo, evocata attraverso il solstizio d’inverno e i segnali e gli strumenti per la misurazione del tempo. Il tempo si fa storia con il ricordo del terremoto di Reggio e Messina, non previsto dagli scienziati che “che erano intenti / a scrutare col nuovo telescopio / gli spazi siderali”: la scienza di chi è assuefatto allo stipendio “e alla lunga noia dell’abitudine” non dà risultati, forse perché mancano la passione e la poesia, indispensabili anche alla scienza. Torniamo così alla poesia della scienza, a quella passione che muove le menti e i cuori. Di nuovo l’eros, motore platonico della conoscenza. “Roaming” è un poemetto complesso e ricchissimo di temi: occorrerebbe molto tempo per analizzarlo. La dimensione del tempo si intreccia con quella dello spazio, del vagare (roam), come risulta chiaro dagli ultimi versi, riproposti nell’ultima di copertina dell’edizione italiana: “Sotto stupite stelle / si smarrisce per noi la distinzione / tra provenienza e destinazione”.

Procedendo nella lettura, dopo “Roaming” incontriamo “La smorfia” (p. 80 s.), carme recentissimo, del 2021, dove la dimensione onirica diventa il luogo dove il “noi stessi siamo e non siamo” di Eraclito trova la sua collocazione, l’unica possibile, ma la formulazione non è più astratta come quella del filosofo che gli antichi definivano skoteinos, “oscuro”: è invece terribilmente concreta come segnala il cluster di pronomi possessivi (“al mio vissuto”, “il mio alter ego”, “la mia vita”). In particolare, è l’ultimo verso quello nel quale le due dimensioni si legano: “La non vita attanaglia la mia vita”. Se la “non vita” rinvia al non essere dei filosofi presocratici, la sostituzione dell’essere con la vita e soprattutto il legame inscindibile con “la mia vita” riportano all’esperienza e alla concretezza della persona loquens.

E poi “Lo stesso rischio” del 1981 (pp. 82-85), dove il mare è l’amore e la vita, ma non perde la sua natura. Il rischio, nel mare come nell’amore, è quello di “far le mosse / sulla battigia invece di nuotare”. A una serie di componimenti sul mare fanno seguito altri in cui ci si sposta verso il tema dell’amore, ma immagini e concetti si rincorrono e ritornano, come nella breve, ma incisiva “Deriva” del 1976 (p. 156 s.). Anche qui il tema eracliteo dell’acqua che scorre senza posa, immagine del divenire (“non puoi entrare due volte nello stesso fiume”) si trasforma nella presenza/assenza della persona amata. L’io lirico di questo carme si paragona a una barca “che anela inutilmente al mare aperto / mentre via la trascina la corrente”. La conclusione riprende il titolo: “ogni spinta e sostegno mi abbandona / ed a te mi riporta la deriva”.

L’esperienza del lockdown dà il titolo a un carme del 2020 (pp. 196-201), dove si trasforma in una metafora esistenziale, con i muri e le finestre a diventare i limiti della nostra condizione umana, come anche la mancanza di connessione e la macchina da scrivere che non produce segni sul foglio rendono concreta l’impossibilità di comunicare. Anche in questo caso l’esperienza concreta trapassa nella metafora e viceversa.

Ancora. Il tema del senso, che abbiamo incontrato in “Self sense” si ritrova anche in “Nonsenso”, del 2020 (p. 228 s.), dove si lega alla mancanza di scopo dell’universo. Lo sgomento è il sentimento che accomuna molte poesie e che si insinua nelle tematiche più diverse. Come si vede, le sette sezioni in cui la raccolta è articolata non sono chiuse perché i temi ritornano e si legano tra loro in un viluppo inestricabile: questa è una possibilità di raggruppare i carmi, non l’unica, perché se lo fosse si perderebbe l’essenza stessa della “Quinta dimensione” che dà il titolo alla raccolta. Non voglio con questo proporre un’interpretazione decostruzionista, che autorizza qualsiasi lettura, anche anacronistica, ma far presente che un’antologia d’autore, come è “Quinta dimensione” fornisce una chiave di lettura e un ordinamento dei testi, non l’unico possibile. D’altra parte, una raccolta del genere si affianca alle raccolte in cui sono state originariamente pubblicati i vari carmi e in qualche modo è una nuova raccolta, in cui gli accostamenti sono una nuova fonte di significati. Non è eccessivo considerare un’antologia di questo genere non solo come una nuova veste editoriale, ma come un nuovo progetto poetico. L’antologia d’autore è un genere molto particolare, le cui origini risalgono al mondo greco: mi limito a ricordare soltanto l’Antidosi di Isocrate[14] per la prosa e le varie raccolte di epigrammi confluiti nell’Antologia Palatina per la poesia. E ricordo anche l’importanza dell’intervento autoriale nella creazione di un liber a partire da Callimaco. Se in età arcaica la poesia non era raccolta e, per così dire, pubblicata dall’autore, ma veniva conservata per scopi pratici (per esempio antologie per il simposio) o didattici, con l’età ellenistica e lo sviluppo della pubblicazione attraverso la scrittura la poesia viene pubblicata dall’autore che sceglie i carmi e l’ordine in cui devono essere proposti ai lettori[15]. Questa innovazione, attraverso la poesia latina (pensiamo al liber di Catullo), arriverà alla poesia moderna.

Qualche parola anche sulla traduzione spagnola: oltre che apprezzabile per la veste grafica, caratterizzata da impaginazione ampia, con margini generosi, e da caratteri di dimensione adeguata, contiene il testo a fronte, indispensabile nel caso di traduzione di testi poetici. La poesia ha alcuni aspetti poco o per nulla traducibili – penso per esempio al ritmo e alle figure di suono – per cui spesso una traduzione è una nuova opera di poesia: un esempio molto chiaro sono i lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo, che tradiscono sotto molti aspetti l’originale, sviluppando, come ha mostrato il mio maestro Luigi Enrico Rossi[16], una dimensione intimistica ed esistenziale che la poesia greca non aveva. La traduzione peraltro conserva la misura dei versi, come è possibile fare forse soltanto traducendo dall’italiano in spagnolo e viceversa, o, al massimo, anche traducendo da o in altre lingue neolatine. Molto più difficile è tradurre in inglese o in tedesco. Il risultato della traduzione è una fedeltà non pedissequa che mantiene il ritmo dell’originale e garantisce una perfetta comprensione del dettato originale. Questa traduzione si può dunque considerare un’operazione culturale perfettamente riuscita che mette a disposizione del pubblico ispanofono una ricca selezione della poesia di Corrado Calabrò.

Termino citando una poesia recente, “Sfugge nella clessidra”, del 2021 (p. 600 s.), nella quale si intrecciano i temi del mare e del tempo. Segnalo la figura etimologica ‘invernale – inverno’ e la figura di ripetizione con poliptoto ‘sfuggito – sfugge – sfugge’: l’analisi retorica è uno strumento di comprensione potente della poesia, coglie passaggi e snodi essenziali, permette di entrare nel laboratorio del poeta. La retorica, emarginata dalla poetica romantica, è in realtà fondamentale per entrare in modo consapevole in qualsiasi tipo di testo e l’assenza di una competenza retorica è evidente nel crollo delle capacità di sottoporre a critica i messaggi, di qualsiasi natura, da quelli letterari a quello politici. La duplice similitudine riporta allo spazio e al tempo, un tempo a termine, come quello della clessidra. L’uso di un verbo abitualmente usato per la capigliatura che si fa grigia con l’età (‘ingrigia’) è inserito in una sequenza di quattro immagini che fanno scivolare dalla concretezza alla metafora: ‘erode’, verbo proprio per la spiaggia, direbbe Aristotele, ‘scarnifica’, verbo usato in altri ambiti, ma certamente non per un corpo inanimato come la spiaggia, ‘interra’ che ci riporta sia alla concretezza del paesaggio sia a un interramento definitivo, a una sepoltura. Tra l’altro lo spagnolo ‘entierra’ svela la metafora più dell’italiano ‘interra’. Si tratta di due coppie di verbi in cui i primi due elementi sono metafore corporee, i secondi sono riferiti, almeno a un primo livello di significato, alla dinamica del mare e della spiaggia. Il tempo, evocato nella sua dimensione naturale nel primo verso ritorna nell’ultimo nella sua dimensione umana, nel senso di prodotta dall’uomo: la clessidra rovesciata, uno strumento di misurazione del tempo che in realtà rende concretamente l’idea del nostro tempo limitato e dell’impossibilità di fermarne il flusso. Ma c’è di più: l’anima del secondo verso, entità incorporea, che pure può diventare grigia sotto l’effetto del mare invernale, viene sostituita da parti del corpo, i piedi e gli occhi. Se sentirsi mancare la terra sotto i piedi è quasi una metafora spenta, una catacresi, la sabbia che “sfugge, defluendo sotto gli occhi” riporta al punto di vista di un osservatore o di una pluralità di osservatori (“ci è sfuggito”). Leggiamo il testo nella sua interezza:

 

Sfugge nella clessidra

 

Mare invernale ancora a fine inverno

ingrigia l’anima, erode la spiaggia

e scarnifica e interra il bagnasciuga.

 

Quest’anno ci è sfuggito sotto i piedi

come la sabbia sfugge dalla riva

come sfugge, defluendo sotto gli occhi,

e svuota la clessidra rovesciata.

 

 

 

[1] A questi temi ho dedicato un articolo in corso di stampa: Isocrates Socraticus : Le Panathénaïque comme discours et métadiscours.

[2] Vd. per questo G. B. Conte, Generi e lettori. Lucrezio, l’elegia d’amore, l’enciclopedia di Plinio, Milano 1991.

[3] G. Pasquali, Filologia e storia, Firenze 1920.

[4] Quinta dimensión. Poemas escogidos 1958-2021, Traducción de Emilio Coco, Madrid 2022 (ed. originale Milano 2021).

[5] C. Di Lieto, La donna e il mare. Gli archetipi della scrittura di Corrado Calabrò, Oreno di Vimercate 2016; Corrado Calabrò e la ‘materia dei sogni’, Napoli 2018; Le risonanze dell’illimite nella quinta dimensione di Corrado Calabrò, Soveria Mannelli 2021; F. Baldi, L'altrove nella poetica di Corrado Calabrò, Roma 2019; T. Romano – G. Azzaretto, L’Attrazione dell’oltre nella poesia di Corrado Calabrò, Palermo 2021.

[6] Su questo tema rinvio alla mia Introduzione a La distanza dei classici, “Costellazioni” 6, 2018, pp. 9-17.

[7] La storiografia nell’educazione antica, Pisa 1992, pp. 250-339; Il canone tra classicità e classicismo, in S. Bianchini – A. Landolfi (a cura di), Il canone europeo, “Critica del testo” 10, 2007, pp. 95-103; Letteratura, generi letterari e canoni: alcune riflessioni, in P. Canettieri – A. Punzi (a cura di), Dai pochi ai molti. Studi in onore di Roberto Antonelli, Roma 2014, II, pp. 1197-1204; The Canon and Its Boundaries, in G. Colesanti – M. Giordano (edd.), Submerged Literatur in Ancient Greek Culture. An Introduction, Berlin-Boston 2014, pp. 33-45 (tradotto con modifiche in Il canone e i suoi confini, in A. Ercolani (a cura di), La letteratura sommersa nella Grecia antica. Nuove prospettive storico-letterarie, Roma 2021, pp. 33-44); David Ruhnken e la riscoperta dei canoni letterari nel XVIII secolo, in S. Audano – G. Cipriani (a cura di), Aspetti della Fortuna dell’Antico nella Cultura Europea. Atti dell’undicesima Giornata di Studi, Sestri Levante 14 marzo 2014, Campobasso – Foggia 2015, pp. 203-226; I paradossi del canone, in V. Costa e M. Berti (a cura di), Ritorno ad Alessandria. Storiografia antica e cultura bibliotecaria: tracce di una relazione perduta, Atti del Convegno Internazionale, Università di Roma Tor Vergata 28-29 novembre 2012, Tivoli 2013, pp. 27-40.

 

 

[8] Corrado Calabrò e la necessità della poesia, “Esperienze letterarie” 42, 2017, pp. 121-126.

[9] Filologia e nuove mode critiche, “Ricerche Slavistiche”14 (60) 2016, pp. 41-47.

[10] Cito da Romano – Azzaretto, L’Attrazione dell’oltre, op.cit. p. 129.

[11] F. Baldi, L'altrove nella poetica di Corrado Calabrò, op.cit.

[12] Cito da Romano – Azzaretto, L’Attrazione dell’oltre, op.cit., p. 99.

[13] Ibid., p. 100.

[14] Su cui rinvio ai miei Studi su Isocrate. La comunicazione letteraria nel IV secolo a.C. e i nuovi generi della prosa, Roma 2004 (Quaderni di “SemRom” 7) e Isocrate e le nuove strategie della comunicazione letteraria: l’Antidosi come “antologia d’autore”, in in R. Pretagostini - E. Dettori (a cura di), La cultura ellenistica. L’opera letteraria e l’esegesi antica. Atti del Convegno, Università di Roma “Tor Vergata” 22-24 settembre 2003, Roma 2004, pp. 187-197.

[15] Vd. su questo L. E. Rossi, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, “Bulletin of the Institute of Classical Studies” 18 1971, 69–94.

[16] L. E. Rossi, Letteratura greca, Firenze 1995, p. 85.

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