“Tensione metafisica e ricerca dell’assoluto nell’arte di Giorgio Puleo” di Antonio Martorana

Tenendosi a distanza dal codice della morfologia naturale, che pone la figura come punto focale della rappresentazione, Giorgio Puleo elabora una cifra stilistica di assoluta originalità, dove il processo di de-materializzazione delle immagini, con il loro sganciarsi da qualsiasi referenza visuale, si declina su una labilissima linea di confine tra aniconicità ed iconicità. Parliamo però di un’iconicità ai limiti dell’evanescenza, non al punto, comunque, da compromettere l’intercettazione della presenza antropica all’interno di campi semantici che raccontano del relazionarsi dell’artista con le forme invisibili del cosmo, passando al di sopra della realtà fenomenica.

Ad un’attenta osservazione delle sagome antropomorfe, che sembrano offrirsi come pasto simbolico ai fantasmi della mente, siamo colti dal dubbio se esse costituiscono quello che Achille Bonito Oliva definisce “l’arsenale tattico attraverso cui l’artista esercita il suo rapporto col mondo”, precisando che si tratta di “un rapporto certamente mosso da pulsioni ambivalenti, da desideri che lo portano verso uno stato d’animo, all’incrocio di oscillazioni sentimentali ed emotive che ne costituiscono l’identità e la possibilità esistenziale.” (A. Bonito Oliva, Antipatia. L’arte contemporanea,Milano, Feltrinelli, 1987, p. 55).

Se vogliamo scoprire questo, forse dovremmo, con una manovra di aggiramento, sorprendere quelle sagome alle spalle e costringerle a confessare se l’artista le usa come deterrente per esorcizzare i cuori d’acciaio responsabili della devastazione ambientale e delle guerre che insanguinano il pianeta.

Se così fosse, Giorgio Puleo sarebbe da considerare un caso atipico nel panorama artistico attuale, per il dissociarsi dalla deriva nichilista che vede gli artisti reagire alle inquietanti incognite del presente tramite la produzione di quella che Bonito Oliva definisce la “cosa antipatica”, introducendo, nell’intento di spettacolarizzare “la propria differenza”, una «formale antipatia dell’opera, che si traveste mediante un linguaggio volutamente “antigrazioso” ed enigmatico.” (op. cit. p.16).

Ciò significa il concentrarsi, da parte della preponderante citata tipologia di artisti, sulla “fondazione di una paradossale bellezza”, con conseguente sconfessione del “codice eternistico” che presiede alla fondazione della bellezza ideale.

Ora, volendo usare anche per Giorgio Puleo la terminologia adottata da Bonito Oliva, la composizione epifanica delle sue visioni, con balenamenti di luci e accensioni di colori, in un gioco di apparizioni e di dissolvenze, configura una realtà “altra” rispetto ad “immagini terremotate e costruite con i frantumi offerti dalla catastrofe generalizzata del vivere” (op. cit. p. 17). Perciò egli, al fine di spettacolarizzare la propria autonomia, introduce una formale “simpatia” del prodotto nato dal suo gesto pittorico, che si avvale di un linguaggio “grazioso”.

Con tale scelta di campo Giorgio Puleo va a collocarsi su un versante che siamo tentati di definire metafisico, proprio tenendo conto del fatto che l’ipotesi metafisica si è rilevata la chiave di lettura più convincente per un approccio all’arte astratta.

Facciamo riferimento alla suggestiva proposta interpretativa di Filiberto Menna nel saggio intitolato appunto, L’ipotesi metafisica nell’arte astratta (in “Commentari”, anno XII, n. 3, 1961). Qui l’illustre critico d’arte, massimo esponente della cosiddetta Scuola di Salerno, e, dopo aver esercitato la professione di medico condotto presso un quartiere romano, maestro di intere generazioni dalla cattedra della “Sapienza”, precisa con estrema chiarezza la specificità ontologica della pittura astratta: “La pratica dell’astrazione non mira a un ritiro dal mondo, bensì a penetrarne l’essenza”.

Giorgio Puleo rifiuta il codice della morfologia naturale optando per l’aniconicità, non per sfuggire dal mondo, ma per risalire con uno sguardo estatico, capace di fornirgli una più illuminante informazione sul mondo, alla realtà che si nasconde dietro il velo delle apparenze fenomeniche.

Parlando dell’arte astratta Flavio Caroli rileva: “La “verità” delle cose è l’essenza, la struttura nascosta… tutta l’avventura di questa avanguardia è giocata sul concetto di realtà: è una ricerca “metafisica” che mira all’anima delle cose e del mondo e la pittura è il luogo della rivelazione. (F. Caroli, Primitismo e cubismo, in Storia dell’arte contemporanea, Milano, Fabbri Editori, 1986, p. 109).

Che lo spirito dell’arte astratta sia attraversato da una tensione metafisica lo aveva detto a chiare note lo stesso padre dell’astrattismo Vasilij Kandinskij: “L’uomo parla all’uomo del sovrumano: è questo il linguaggio dell’arte.”

Tensione metafisica significa ricerca delle forme dell’Assoluto, come suona il titolo del saggio di Giulia Veronesi, L’astrattismo: la ricerca delle forme dell’assoluto. (Milano Fratelli Fabbri, 1977), da cui abbiamo tratto lo spunto per intitolare la presente nota.

E Giorgio Puleo cerca le forme dell’Assoluto magari tra le zolle delle ubertose colline dell’entroterra siciliano, dove vive ed opera, essendo nativo di Baucina. Proprio lì, osservando il fondersi delle forme umane con l’ambiente circostante, coglie il ritrovato equilibrio tra l’uomo ed il suo habitat naturale che è una prefigurazione delle forme dell’Assoluto.

Le immagini plasmate dalla foga irruente del suo gesto pittorico, talora ai limiti della turbolenza, nella loro pregnante espressività, esente, comunque, da qualsiasi riferimento rappresentativo – ci riferiamo ai suoi numerosissimi Senza titolo – sembrano invitare l’osservatore a ripercorrere lo stesso suo viaggio visionario nella struttura armonica dell’universo, quale patria della pura bellezza.

Ed è assai significativo che la preponderanza del bianco, tra i colori della sua tavolozza indichi, come ha voluto acutamente evidenziare Massimiliano Reggiani, la scelta esistenziale di un artista che aspira alla purezza assoluta, essendo il bianco il colore che meglio si associa alla luce ed all’ottimismo, in netto contrasto con il nero delle colate d’asfalto nelle periferie di morte delle odierne metropoli.

Con la sua carica propositiva Giorgio Puleo si muove sul crinale sottile che separa il visibile dall’invisibile, il finito dall’infinito e non ha nulla in comune con la frustrazione di certo artista contemporaneo, che nella descrizione impietosa di Achille Bonito Oliva, “si aggira fra travi nicciane, tra reperti di un probabile naufragio” (Op. cit., p. 17)

Con la mostra antologica I cromatismi sottili di Giorgio Puleo, curata da Massimiliano Reggiani e patrocinata dalla Pro Loco di Ciminna, presieduta da quell’infaticabile animatore culturale che è Vito Mauro, inauguratosi proprio a Ciminna il 1° maggio del 2024, il pubblico e la critica hanno avuto modo di apprezzare il talento creativo di questo artista capace di inscenare con una sua cifra fascinosa lo spettacolo di una natura in perfetta interazione con l’essere umano, mentre viene a conciliarsi, come ha intuito lo stesso Reggiani, la duplice dimensione temporale tra l’anticipazione futuribile e la memoria immersa in un passato remoto e mitico.

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