“La controversia riformista sull’eucaristia e il teatro spagnolo post-tridentino” di Gianfranco Romagnoli

La tradizione fissa la data d’inizio della Riforma protestante al 31 ottobre 1517, quando Lutero affisse sulla porta della chiesa del castello Wittenberg 95 tesi scritte in latino, in cui, oltre a criticare il valore e l’efficacia delle indulgenze, contestava alcuni punti fondamentali della dottrina apostolica romana. Uno dei principali punti di controversia sollevati nelle tesi, oltre a quello sul sacerdozio ordinato, riguardò, come è noto, i Sacramenti il cui numero, secondo la visione riformista, doveva essere ridotto a quelli espressamente risultanti dai Vangeli come istituiti da Gesù, ossia il Battesimo e l’Eucaristia. Quanto alla natura del “sacramento principe” dell’Eucaristia veniva contestato l’insegnamento apostolico, proclamato dalla Chiesa sin dalle origini come verità di fede, secondo il quale, in virtù delle parole di Cristo pronunciate in Suo nome dal sacerdote consacrante e per opera dello Spirito Santo, la materia sacramentale del pane e del vino si converte nel corpo e nel sangue di Cristo, rinnovandone il sacrificio e rendendo reale e sostanziale la Sua presenza. Posizione, questa, che fu solennizzata nel 1264 da Papa Urbano VIII mediante l’istituzione, con la bolla Transiturus, della festa liturgica del Corpus Domini, arricchita nel 1317 da Papa Giovanni XXII con l’istituzione della processione del Santissimo Sacramento. Il Sacro Convivio a perpetuazione del Suo sacrificio redentore fu istituito, alla vigilia della Sua Passione, dallo stesso Cristo, come inequivocabilmente testimoniano i Vangeli, sicché esso non poteva essere travolto dalla pretesa riformistica di restringere il novero dei Sacramenti: la controversia si appuntò, pertanto, sulla natura di questo Sacramento contestando in particolare il dogma della transustanziazione. Al riguardo Lutero, nelle sue tesi ammise, sì, la reale presenza di Cristo nell’Eucaristia (che egli chiamava Heilige Abendmahl, ossia Santa Cena), però insieme al pane e al vino: sosteneva cioè che non avvenisse alcuna trasformazione della materia eucaristica e che, pertanto, il pane e il vino rimanessero quello che erano. Questa teoria venne da lui definita Sacramentliche Einigkeit (unione sacramentale) ed è nota, soprattutto tra i non luterani, come consustanziazione. Ancora più oltre si spinse Calvino, che definì l’Eucaristia Cena spirituale ammettendo anche egli che nel sacramento si riceva realmente il corpo e il sangue di Cristo, però non in senso materiale, bensì in maniera spirituale, attraverso i segni del pane e del vino. La natura dell’Eucaristia variamente interpretata è stata la causa della divisione tra le varie confessioni protestati, che peraltro in generale hanno ritenuto pane e vino meri simboli, e l’Eucaristia un semplice fare memoria del sacrificio redentore. Non può dunque stupire che il Concilio Tridentino, nella sua azione controriformistica, abbia dedicato una speciale attenzione a questo importantissimo e divisivo argomento, riaffermando con energia il dogma della transustanziazione e promuovendo ogni iniziativa tesa a valorizzare il Sacramento più importante tra quelli della Chiesa cattolica. Al riguardo, fu emessa questa dichiarazione conciliare: «Con la consacrazione si opera la conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo del Cristo, nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del Suo Sangue. Questa conversione, quindi, in maniera conveniente e appropriata è chiamata dalla santa Chiesa cattolica transustanziazione». Il Catechismo della Chiesa Cattolica emanato da Papa Giovanni Paolo II l’11 ottobre 1992, ai nn 1366-74-75 conferma questa definizione spiegando che la transustanziazione rende la presenza di Cristo «reale… per antonomasia, perché è sostanziale» e quindi rende effettiva, nel rito della Messa, la rinnovazione quotidiana e perpetua del divino sacrificio, «perché ri-presenta (rende presente) il sacrificio della croce» a beneficio e per la salvezza eterna dell’umanità.

 Nella cattolicissima Spagna le direttive conciliari tridentine sull’Eucaristia trovarono pronta e vasta applicazione: infatti nell’ambito della festività religiosa ivi denominata Corpus Christi furono assunte, in aggiunta all’aspetto religioso della solenne processione eucaristica, molteplici iniziative anche sul piano spettacolare e festivo urbano. A partire dal secolo XVI la ricorrenza venne così a comprendere una serie di feste includenti mimi, musica, carri, danze, indios e giganti, ma anche rappresentazioni teatrali e parateatrali. Tra queste iniziative sceniche, interessa qui soffermarsi sugli Autos Sacramentales. La configurazione post-tridentina che assunsero gli Autos, nome dato alle sacre rappresentazioni già presenti nella penisola iberica sin dal Medioevo, fu quella di spettacolo teatrale in un atto unico volto ad esaltare, in un’apoteosi finale, il Sacramento eucaristico. Questi spettacoli, nella ricorrenza della festività liturgica del Corpus Christi e nella sua ottava, venivano rappresentati in strada su alti ed ampi carri-palcoscenico dotati di sofisticati meccanismi scenici: lo svolgimento dell’Auto avveniva su due carri o su quattro, secondo i mezzi finanziari disponibili. Riferiamo come esempio la descrizione che di questi carri fa Pedro Calderón de la Barca nel suo Auto sacramental intitolato El divino Orfeo, che sarà esaminato più avanti. Il primo carro, sul quale navigano le forze del male: «sarà una nave nera e nere le sue banderuole, sartie e gagliardetti, con aspidi dipinte per insegna, e lanterne nere». Il secondo carro «sarà un globo celeste dipinto con stelle, segni zodiacali e pianeti, che si apre in due metà, cadendo una sul palcoscenico e restando l‟altra fissa», mentre il terzo carro ha come elemento centrale una roccia, al cui culmine spunteranno sole, luna e stelle, che si apre «in altre due metà», e una «prospettiva di onde»: i meccanismi di apertura e chiusura del globo e della roccia erano funzionali a far apparire e sparire alcuni personaggi. Il quarto carro, che compare nel finale, «sarà una nave, al contrario della prima con banderuole e gagliardetti bianchi e ricamati con rappresentato in essi il Sacramento e per fanale un grande Calice con un’Ostia».

Tutti i più grandi commediografi del Siglo de oro, quali Lope de Vega, Calderón de la Barca e Tirso de Molina, si cimentarono in questo genere teatrale. I soggetti degli Autos si ispiravano alla Bibbia, alla storia, alla mitologia: accanto ai personaggi umani, biblici, storici o mitici che fossero, ve ne erano numerosi altri del tutto concettuali e simbolici, che incarnavano le virtù cristiane ovvero le forze del male opposte al Cristianesimo. Una presenza immancabile era quella del Demonio, antagonista dialettico potente, ma sempre sconfitto. Interessa qui occuparci degli Autos mitológicos, nei quali eroi pagani erano presentati in genere come simboleggianti Cristo e gli Apostoli, in una interpretazione evolutiva del mito mirante ad assolvere gli Autori dall’accusa di indulgere, sia pure per meri motivi estetici e di moda letteraria, alla riproposizione ed esaltazione di un mondo pagano, rifiutata dalla generalità degli Spagnoli come offesa alla collettiva coscienza cristiana. In questo ambito, sarà sinteticamente esaminato un gruppo di quattro Autos di Calderón, che muove dal motivo comune del mito degli Argonauti: tra essi primeggia la figura di un eroe, che viene presentato di volta in volta, in chiave cristologica attraverso simboli e allegorie, quale prefigurazione di Cristo in una delle molteplici attribuzioni divine. Questi Autos sono: El divino Jasón, El divino Orfeo, El laberinto del mundo (il cui protagonista è Teseo), e infine Andrómeda y Perseo.

Appartiene al periodo giovanile di Calderón l’Auto sacramental alegórico intitolato El divino Jasón, scritto in una data non certa ma anteriore al 1630. In esso l’allegoria, relativamente all‟identificazione dei personaggi, è esplicitata nello stesso elenco delle Personas: Giasone è Cristo; il Re delle Tenebre è il Mondo; Ercole è San Pietro; l’Idolatria è Lucifero; Teseo è Sant’Andrea; Medea è l‟anima; Argo è l‟Amore divino; Orfeo è San Giovanni Battista. Importante è la figura di Medea, dapprima ostile a Giasone ma poi conquistata da lui, che pur dichiarandosi già sposato, accoglie e ricambia il suo amore: chiara allegoria dell’estensione del messaggio di salvezza cristiano dagli Ebrei ai Gentili. I simboli basilari sono due: la nave, esplicitamente identificata con la Chiesa, e il vello, descritto con un candido agnellino smarrito, che Giasone ritrova e porta via con sé sulle sue spalle dopo avere vinto i mostri infernali che lo tenevano prigioniero su un albero,. L’identificazione di Giasone con Cristo in quest’Auto si concreta dunque nell’immagine esplicitamente richiamata del Buon Pastore, che se di un gregge di cento pecore ne ha smarrito una sola, lascia le altre novantanove per correre alla sua ricerca.

Nell’Auto calderoniano El divino Orfeo il fondamentale parallelismo tra la figura mitologica di Orfeo e Cristo è evidenziata assumendo il Figlio di Dio nella sua qualità di Verbo: la simbologia infatti, oltreché sulla cetra come immagine della Croce si appunta sul canto di Orfeo come parola di Dio, Verbo creatore e redentore. La trama ripercorre tutta la storia della salvezza, dalla creazione al peccato originale fino alla redenzione. Euridice, per avere ceduto all’astuzia del serpente, è trascinata nel regno dell’Ade ma Orfeo con il suo canto ne varca i confini e la porta in salvo: dalla possibilità di cadere nuovamente nel peccato, la salverà l’Eucaristia, dono permanente lasciato all’umanità.

El laberinto del mundo è, tra quelli qui esaminati, l’Auto più complesso per struttura e densità di contenuti ideologici. Il protagonista non è presentato come eroe, ma stranamente come galán (l‟attor giovane amoroso, personaggio fisso del teatro spagnolo aurisecolare); inoltre, a differenza dei personaggi degli altri tre autos, che sono designati con il nome loro attribuito dal mito greco, non è mai nominato come Teseo, ma sempre come Theos, nome che, oltre a sottolinearne la natura divina, è, in ogni caso, agevolmente trasponibile in quello di Teseo, che ne costituisce una assonanza/anagramma/allitterazione. Il testo è puntato sulla figura del Christus patiens, della cui Passione l‟auto ripercorre, pur sotto il velo dell’allegoria, tutta la vicenda, citando circostanze e riportando frasi tratte letteralmente dai Vangeli. Il simbolo della nave è anche qui presente: come in El divino Orfeo, qui le navi sono due, una galera, nave del Male, e un‟altra simbolo del Bene. La vittoria del bene sul male si opera con il sacrificio di Theos che, fatto fuggire l‟Uomo dalla prigione dove era stato rinchiuso per essere dato in pasto al Minotauro - definito anche Mostro o Idra dalle sette teste, si consegna volontariamente a prendere il posto del fuggitivo subendo, benché innocente, le pene a questo riservate: ma munito dalla Innocenza di un Pane (il suo Corpo) un Pugnale (la Croce) e un Filo (il Sangue) penetra nel labirinto (l’oltretomba) uccidendo il mostro e riuscendo a tornare indietro (la Resurrezione). Segue il finale dell’apoteosi eucaristica, in cui «Si apre il carro, nel quale ci sarà un palazzo, e in esso un Pellicano, che aprendosi in due metà scopra dentro il petto Calice, Ostia e un Bambino vestito da Pastore.». L‟Eucaristia sarà l’ “antidoto permanente” contro le successive cadute dell’Uomo nel peccato.,

 Andrómeda y Perseo è l‟ultimo Auto mitologico di Calderón: fu scritto nel 1680 ma rappresentato per la prima volta a Madrid soltanto nel 1682, un anno dopo la morte dell’autore. La vicenda raccontata ripercorre in chiave allegorica la storia della salvezza a partire dalla caduta. Andromeda è la creatura umana perfetta creata da Dio e posta nell’Eden. Il testo è altresì ricco di personaggi simbolici: la Grazia, la Scienza, la Volontà, l’ignoscienza, l’Arbitrio, il Centro della terra. Andromeda compie il peccato originale di disobbedienza mangiando il frutto proibito offertole da Medusa trasformata in serpente e viene perciò cacciata dall’Eden e abbandonata al Drago infernale, ma il cavaliere errante Perseo, sopraggiunto, si offre di salvarla chiedendola in sposa. Perseo, qui figura di Cristo nella qualità appunto di Salvatore, riesce a liberarla uccidendo il mostro, ma nella lotta è ferito e muore. Ciò nonostante, manterrà la promessa di nozze con Andromeda unendosi a lei sotto le specie eucaristiche, dono offerto nell’apoteosi finale all’intera umanità per la sua salvezza eterna.

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