"La fine delle privatizzazioni e il ritorno delle statalizzazioni? Meglio liberalizzare!" di Antonino Sala

 

 

Con l’acquisizione definitiva di Autostrade per l’Italia da parte di Cassa depositi e prestiti, possiamo dichiarare la fine delle privatizzazioni delle grandi imprese pubbliche. Termina ingloriosamente il tentativo di far nascere e crescere una imprenditoria non legata alle aziende di stato. Non mi dilungherò nelle varie operazioni e norme che hanno permesso di trasformare le aziende statali in società per azioni, ma alcune considerazioni voglio affrontate. 

Certamente la fase di uscita dal mercato dello stato, e quindi dei partiti e dei loro accoliti, la reputo una buona iniziativa, perché credo che al pubblico vadano assegnate pochi e importanti ruoli, e tra questi non dovrebbe esserci il suo intervento diretto nell’economia. Innanzi tutto perché il suo potere economico e legislativo praticamente senza limiti, fa si che di determini anche e soprattutto il suo monopolio nel settore oggetto di intervento e di conseguenza la impossibilità da parte di altri soggetti privati di competere, e senza una sana concorrenza vengono a mancare i presupposti sia per l’innovazione tecnologica che per la concorrenzialità dei prezzi.

Lo stato dovrebbe fare in modo che nessun soggetto diventi monopolista e a maggior ragione neanche lui dovrebbe di fatto esserlo.

Altro aggravante per la sua presenza e che le nomine degli amministratori di queste imprese sono politiche anzi partitiche, magari anche molto professionali, ma purtroppo fuori dalla logica del mercato che premia chi fa meglio gli interessi del consumatore finale. Questo poi determina che le scelte e gli impegni finanziari che ne susseguono non sono direttamente addebitabili agli stessi amministratori, che nel frattempo potrebbero anche essere sostituiti, ma alla collettività e quindi sostanzialmente la deresponsabilizzazione delle azioni intraprese fa si che le ricadute siano solo sulle spalle del nostro erario. 

Infine l’idea che solo attraverso un’azienda pubblica in Italia si può fare impresa ad un certo livello, come nel settore della difesa, demotiva sia i giovani, che coloro che avrebbero voglia di costruirsi da soli il proprio futuro. 

Con tutte le criticità anche di tipo procedurale, che nel tempo si sono evidenziate, i benefici delle privatizzazioni sono stati evidenti a chi ha voluto vederli. Infatti se andiamo a leggere bene i dati pubblicati nel Libro bianco sulle privatizzazioni dell’aprile 2001, salta agli occhi la riduzione del rapporto debito/pil che nel 1993 era del 115,66% passando nel 2001 al 108,32% e con un rapporto deficit/pil dal 10,03 sempre nel 1993,  al 3,40 nel 2001. 

“Inoltre, il risanamento delle imprese controllate dallo Stato, prodromico alla loro successiva privatizzazione, ha consentito alla finanza pubblica di beneficiare anche dei dividendi da esse distribuiti. In tale periodo si sono generati risparmi correnti e futuri per lo Stato, in termini di interessi passivi evitati, stimabili in circa 18.500 miliardi di lire (su un totale di circa 19.500 miliardi se si considera anche il risparmio interessi derivante dalle prime due aste di riacquisto titoli a valere sul Fondo del 1995). In altre parole, tale ordine di grandezza è l’ammontare nominale complessivo dato dal flusso di interessi cedolari che il Tesoro avrebbe dovuto corrispondere ai sottoscrittori sino alla scadenza naturale dei titoli oggetto di riacquisto. Le privatizzazioni, contribuendo in misura rilevante al percorso di risanamento della finanza pubblica dell’ultimo quinquennio, hanno permesso di aumentare la credibilità dell’Italia sui mercati finanziari internazionali. Questo è dimostrato anche dal progressivo assottigliarsi dello spread del BTP decennale sul rendimento degli analoghi titoli di Stato tedeschi”.

Dai dati del Database AMECO della Commissione Europea si rileva come il rapporto debito/pil continua a scendere fino al 2007 arrivando a 99,70 ed quello debito/pil a 1,50 per poi bruscamente iniziare una risalita senza freno fino al 153,6% alla fine del 2021 il primo e di 9,5 il secondo.

Certo in mezzo ci sono state due crisi devastanti: quella finanziaria del 2008 e quella della pandemia del 2020 ma il dato resta. Ha influito il passo indietro sulla via delle privatizzazioni ed una accelerazione delle nazionalizzazioni attraverso vari salvataggi a spese del contribuente. Prima fra tutte quelle ripetute di Alitalia, a cui siamo talmente abituati che non ci facciamo nemmeno più caso, per passare all’ILVA, ed in ultimo ad Autostrade per l’Italia.

Lo stato salvatore che risana, acquista e riacquista. 

Ma siamo sicuri che questa fosse l’unica via? La più rapida indubbiamente! anche se la più dispendiosa e a lungo termine anche la meno efficace per i motivi prima esposti. E allora che avremmo dovuto fare? Aprire al mercato libero, ai fondi di investimento, anche alle venture capital, in maniera che chi detiene ingenti quantità di capitali avrebbe potuto investirli in queste aziende con la speranza di ottenerne un beneficio di plusvalenza a rischio suo. Ed anche perché, come sostiene Eugene Fama premio Nobel per l’economia  2013, i mercati sono “efficienti”, anche se con diverse gradualità, ed in grado di agire attraverso l’accomodamento dei prezzi, difficilmente prevedibili e battibili anche se con diverse eccezioni. 

Infine la presenza di un investitore privato, che come obiettivo si pone il suo utile da reinvestire successivamente in altro affare, avrebbe sicuramente abbreviato il tempo di permanenza dell’investitore all’interno dell’azienda oggetto dell’intervento di salvataggio proprio per passare, risanata la stessa e ottenuto il profitto, alla prossima avventura. 

Invece quando entra un investitore pubblico, il meno che pensa è quello di uscire al più presto da un consiglio di amministrazione, avendo magari anche le migliori intenzioni, come quelle di preservare “posti di lavoro”, perché per sua natura la politica ha bisogno della gestione del potere che la partecipazione all’economia genera, questo lo dico senza nessuna acrimonia nei confronti dei partiti, a cui riconosco il loro ruolo fondamentale in una democrazia liberale, ma con la stessa determinazione penso che essi non debbano occuparsi delle nomine di aziende o imprese, semplicemente perchè gli obbiettivi degli uni e delle altre sono diversi. I primi lavorano per il consenso elettorale, le seconde per generare profitti per i loro soci. E quasi mai le due cose coincidono e quando vanno in conflitto, per esempio per la chiusura di uno stabilimento non produttivo, la seconda soccombe miseramente avendo il primo il monopolio del potere, con aggravio del pubblico erario.

Il mio ragionamento è suffragato anche dalla recente polemica per le nomine in cda della Rai, il partito che attualmente è all’opposizione, Fratelli d’Italia, si è risentito per la propria esclusione dal giro delle nomine, invece di aprire un serio e qualificato dibattito se è utile e corretto, che i partiti politici detengano la quasi totalità dell’offerta televisiva in chiaro. Nessun accenno a privatizzazioni o pluralità di posizioni, anzi proprio loro solo gli alfieri delle nazionalizzazioni, diverso e più retorico, modo di chiamare le statalizzazioni, purtroppo retaggio inconfessato di ideologie socialisteggianti dipinte con una mano tricolore.

Il rischio dell’impresa pubblica è bassissimo per chi le amministra in nome del partito, ma è elevatissimo per il contribuente che vede investire le proprie tasse in operazioni anche a perdere in nome di principi come “equità”, “italianità”, “solidarietà” senza mai però “responsabilità”. 

Il futuro che vedo? purtroppo, non roseo, storie già viste e vissute che mi inducono a credere che ben presto pagheremo lo scotto della mancanza di un ceto imprenditoriale libero ed indipendente, capace di innovare come in passato per generare quella ricchezza di cui abbiamo goduto ed in parte godiamo ancora, che voglia rischiare di suo nella sfida del libero mercato. 

La mia proposta? lasciamo che quell’ imperscrutabile variabile che è l’estro umano agisca liberamente, in maniera ateleologica, perché sostiene Eugene Fama “… ci sono delle eccezioni, e questo dipende dalla fortuna, ma molto più spesso dall’abilità personale… Sono quasi sempre gli stessi che riescono a battere il mercato…”.

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