La forza dei “classici”. Il latino nell’era 4.0 – di Mario Bozzi Sentieri

L'Università La Sapienza si conferma la prima al mondo negli Studi classici e Storia antica per il terzo anno consecutivo, con un  punteggio di 98.7. È quanto emerge dall'edizione 2023 del report QS World University Rankings.

La notizia del “piazzamento” non è di quelle da prima pagina. Proprio per questo ci piace sottolinearla.  In tempi di tecnologia 4.0, scoprire che gli studi classici “servono” ancora (con ottimi livelli qualitativi ed un rinnovato interesse da parte dei giovani) assume un valore culturale e – in senso lato – metapolitico,  da cui    emerge come lo studio delle lingue classiche non sia questione che riguarda solamente una ristretta cerchia di cultori della materia, ma interessi il più vasto  patrimonio culturale, insieme letterario, filosofico, scientifico ed antropologico. E’ cioè una porta aperta per la conoscenza, una sorta di “battesimo profano – per dirla con Hegel – destinato a dare all’anima la prima e inalienabile inclinazione e disponibilità al gusto e alla cultura”, che riguarda certamente la formazione dei ceti dirigenti, ma non può non toccare la sensibilità collettiva, base fondante  della nostra identità nazionale. E tutto ciò  in controtendenza rispetto a certe scelte “progressiste” del passato.

Per anni  intorno al latino e alla classicità  si è infatti giocata una partita metapolitica, che individuava nella “lingua dei Padri” un’icona da abbattere, in quanto espressione tradizionale ed elemento distintivo  della “classe dirigente”. Malgrado ciò il Liceo Classico e gli Studi universitari hanno resistito confermandosi un punto essenziale di riferimento dei percorsi formativi. E non solo.

Nel latino ci sono modelli ed impulsi spirituali che hanno segnato tutto il mondo civile. E’ quindi doveroso, rivendicarli con orgoglio, anche di fronte a certi tentativi di rendere predominanti modelli linguistici dialettali e provinciali o, d’altra parte, di farsi contaminare acriticamente dai neo-linguaggi della globalizzazione.

Ma è anche necessario, proprio nel momento in cui c’è una presa di consapevolezza sul ruolo e la funzione formativa del latino, ripensare modelli d’insegnamento e migliorarne la diffusione, attraverso un’adeguata opera “promozionale”.

E’ certamente un problema che tocca il corpo docente, a cui va chiesto di non limitarsi ad una pedissequa  ed un po’ stanca applicazione del metodo grammaticale-traduttivo, impegnandosi piuttosto a “vivificare” i metodi d’insegnamento, coinvolgendo gli studenti in un viaggio affascinante alla scoperta della tradizione e della cultura romana, ancora prima che all’apprendimento di regole. Ma è anche una questione ben più vasta, che deve toccare il nostro sentire collettivo, il senso di un’appartenenza in grado di parlare alla contemporaneità. Impresa difficile, ma non impossibile, sulla quale sarebbe interessante aprire una seria riflessione, ipotizzando inusuali “contaminazioni”.  

Perfino il Padre del futurismo arriva ad offrirci qualche spunto interessante. Invitato, nel 1931, da Ettore Romagnoli, membro dell’Accademia d’Italia e direttore della “Collezione Romana”  a proporre una nuova traduzione de La Germania  di Tacito, Filippo Tommaso Marinetti, quasi a volere giustificare il proprio impegno “passatista”, premetteva  alla sua traduzione una sorta di decalogo, che offre –ancora oggi –  interessanti elementi di attualità.

In Tacito il Padre del futurismo  non solo trovava elementi di “concisione, sintesi e intensificazione verbale”, ma rimarcava  come la creazione delle “parole in libertà”, l’originale creazione futurista, non provenisse  da ignoranza delle origini della nostra lingua, individuando nella “virile concisione Tacitiana” la sorella della lingua italiana, “contro la prolissità decorativa del verso e del periodo”. Di stretta attualità la chiosa marinettiana, impegnata a dimostrare “l’assurdità dell’insegnamento scolastico latino, basato su traduzioni scialbe, errate e su cretinissime spiegazioni di professori abbrutiti, tarli di testi e teste. Un efficace insegnamento della letteratura latina esige traduttori ispirati quanto i latini tradotti, e interpreti sensibili capaci di trasfondere la vita del genio”.

Come ebbe peraltro a ribadire   Paola Mastrocola, convinta paladina di una Scuola “sfidante” ed autenticamente democratica (suo il libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza , uscito nel 2021, con coautore Luca Ricolfi): “Il latino è importante per imparare la nostra lingua e i meccanismi logici del pensiero. Ci obbliga a vedere la struttura della frase, come se facessimo una radiografia a quello che diciamo. E’ un’impalcatura che tiene su le strutture logiche e che aiuta sempre, qualsiasi percorso si intraprenderà, dall’idraulico al professore di filosofia al panettiere”.  

Da qui, anche da qui, l’ipotesi di reintrodurre lo studio della lingua latina a partire dalla scuola secondaria di primo grado (dove peraltro esistono, organizzate autonomamente, forme di “avviamento” allo studio del latino).

Che si tratti di  una nobile e grande sfida culturale è confermato dal tentativo di “smantellare” gli studi classici che viene  da oltreoceano, dove la Howard University, a Washington D.C., e l’università di Princeton, nel New Jersey, hanno deciso di imprimere una svolta radicale ai loro programmi didattici,  stabilendo  che lo studio del greco antico e del latino  debba essere  depotenziato per “favorire il proliferare e il diffondersi di una cultura non razzista e della diversità”.

Alla cancel culture d’importazione opponiamo l’eccellenza dell’Università italiana. Ne va dei destini non solo della Scuola italiana e dei futuri ceti dirigenti, ma dell’intero Sistema-Paese, della nostra identità.

 

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