“La quattrocentesca «Istoria di la Translacioni di S. Agata», scheggia di memoria storica siciliana” di Maria Nivea Zagarella

Complesso è dire quanto nell’attuale festa di Sant’Agata a Catania (3/5 febbraio e 17 agosto) sopravviva del nucleo originario antichissimo della devozione alla Vergine martire del III secolo d.C. Spettacolare tuttora la scenografia, soprattutto delle celebrazioni invernali, dentro e fuori il Duomo: ogni particolare saturo di tradizione. Il “sacco” bianco, i ceri, le “candelore” monumentali, il fercolo sontuoso, i drappi… Catania celebra ogni anno la sua identità. Popolare? Collettiva? Religiosa? Vogliamo crederlo, come altre città, che ritrovano una parte di se stesse in simili momenti di devozione/memoria dei loro “Patroni”, occasioni necessarie in questi tempi di diffuso spaesamento. Qui piace immergerci, attraverso un poemetto della II metà del ‘400, in epoche (XII - XV sec) in cui il culto di Agatha santa, canditu fluri (candido fiore), gemma priciusa, stilla radiusa rampollava ancora frutti copiosi e spontanei di fede e di letteratura.

Di Antoni D’Oliveri, autore della Istoria di la translacioni di S. Agata (1475), si hanno poche notizie, desumibili tutte da documenti ufficiali o dalle sue opere. Nacque forse prima del 1432, perché negli Atti dei Giurati dell’archivio Civico di Catania nell’anno 1457/1458 fra i giurati (che non dovevano avere meno di 25 anni) figura per la prima volta un Antoni di Holiveri. Importanti le cariche pubbliche rivestite: nel 1469 fu revisore dei conti della gabella del maltolletto; nel 1472 giudice pedaneo e deputato per l’amministrazione delle nuove gabelle civili; dal 1473 al 1476 vice portulano della città. Il prestigio sociale, oltre al titolo di nobilis, si evince dall’amicizia con i due nobili catanesi committenti di due suoi poemetti tramandatici da un manoscritto del ‘500: Balsamo di Balsamo quanto alla Istoria di S. Ursula (1471); Messer Giovanni Castello quanto, appunto, alla Translacioni. Il manoscritto cinquecentesco dice Antoni originario della clarissima chitati di Catania e uno dei copisti lo definisce excellenti poeta vulgaru, di acutissimu ingenio, e amatissimu dalla gente “credente” per il carattere devoto dei testi, fra cui va annoverata pure l’Istoria di lu contrastu di L’Anima cun lu Corpu, volgarizzamento della Visio Fulberti. Lo stesso autore si rivela catanese, perché chiama Agata inclita nostra vera chitatina, include se stesso nel “noi” collettivo dei fedeli (nuy, toi cathanisi) che hanno Agata per speciale advocata, e fa nei versi precisi riferimenti al territorio etneo. Quanto alla vita privata, nelle ottave finali della Translacioni, Oliveri sfoga con Messer Giovanni il suo disagio (la manu stanca che voleva riposare) per avere scritto in cattive condizioni fisiche e psicologiche, sia per la febbre quartana che lo torturava da un anno con altre infermità, sia per un contenzioso col fisco che lo faceva sentire comu un gattu/ intra di un saccu, distrutto di sanitati, di roba, et di luchi (speranza). Le tre “storie” agiografiche e morali citate vanno contestualizzate nella Sicilia del ‘400, che dopo le esperienze spiritualistiche del ‘300 che l’hanno vista partecipe del magistero del medico gioachimita Arnaldo di Villanova, collaboratore di Federico III d’Aragona, e terra di rifugio degli Spirituali dissidenti, conosce nel sec. XV una nuova ondata di rigorismo religioso con il movimento dell’Osservanza animato da San Bernardino di Siena, Matteo di Agrigento e dalla clarissa messinese Smeralda Calafato, la cui biografia, Legenda della beata Eustochia, seguirà di qualche anno i testi di Oliveri. La Translacioni (412 ottave a rima baciata finale) è un volgarizzamento in siciliano dal latino dell’Historia translationis corporis S. Agathae virginis martyris Costantinopoli Catanam (alias l’Epistola) del vescovo siculo-normanno Maurizio (XII sec.), e dei S. Agathae Miracula del monaco Blandino (XII sec.), fonti principali a cui l’autore sembra aggiungerne una terza, perché nel proemio cita un tale (sconosciuto) Messer Lisi di Saccano, che avrebbe tradotto dal greco in latino una Vita di Sant’Agata, definendolo individuo nobili custumatu et virtuusu/ in scientia peritu et tantu humanu che honura(va)/ Missina cun la sua scientifica arti/, chi luchi(va) dintra e di for li mura/ di quella antiqua et nobili chitati/ undi era natu ipsu et tutti soy passati.

Quanto al vescovo sant’omu Maurizio, che fu il secondo vescovo di Catania dopo la conquista normanna, e al monaco Blandino, Oliveri insiste in più punti del poemetto sulla “verità“ delle loro testimonianze (appi pinseri -dice di Maurizio- di scriviri la pura veritati) e sulla sostanziale fedeltà della sua trascrizione/traduzione (chi lu veru, per Dey gratia, aju sciptu), il che non toglie che si conceda qualche libertà rispetto agli originali, inventando e integrando, come nei contenuti del proemio (ottave I-XVIII) dove parla anche di S. Lucia e delle sue reliquie, o del congedo (ottave CCCLXXIV-CDXII) dove, seguendo gli schemi dei cantàri sacri toscani del ‘300 e del ‘400 noti in Sicilia, fornisce notizie del committente e di se stesso, e data e firma la sua opera, non astenendosi nei versi precedenti da una ampia digressione moralistica, o ancora nelle ottave XC-XCVII in cui inventa il dialogo fra il soldato Gisliberto e il vescovo Maurizio, o in altre in cui si concede brevi annotazioni (XXVIII, CXL-CXLVII, CLVII) sull’importanza di essere veridici, soprattutto sui Santi, per ché ponendo a loru fatti falsitati/ è assay peyu chi li injuriamu, o quando sceglie qua e là di semplificare, “abbassare”, nella traduzione di specifiche espressioni, l’eleganza del testo latino (dell’Epistola di Maurizio dice che è una digna ystoria, notata eleganti in latinu stilu), scelta in vero naturale dato il pubblico “popolare”, incolto e semicolto, destinatario delle “storie”. L’autore precisa che per accrescere la devozione alla Santa, invece del martirio di S. Agata, molto noto e assai raccontato (e di cui si fa memoria appunto il 5 febbraio), ha preferito mettere in rima semplichi e con semplichi diri il trafugamento da Costantinopoli delle sue Reliquie e i miracoli ad esse legati, perché ignoti ai più e allo stesso Messer Giovanni Castello. Rispetto alla spiritualità più moderna e asceticamente concreta di Smeralda Calafato, la religiosità di Antoni resta ancorata a un modello di santità “sublime” distante dal quotidiano (l’Agata sempre fulgenti, abbagliante come sole e in blancu vestiri, delle “visioni” tramite cui annuncia o opera i miracoli; o il suo carismatico, temuto/adorato, corpu sacratu dentro la cassa). Un didascalismo insomma emerge dalla Istoria più astratto, apodittico, centrato su l’alto Deu che sulu comanda lu Chelu et lu Infernu/ e tutti li cosi, fina ad una fogla [foglia]./ Ipsu coverna et teni a la sua vogla [voglia]; la Sua potenza (maiestate e imperio) opera concorde con la clemenza e la pietà della Santa, che ascolta li buchi (voci) lucubri et obscuri/ plini d’omni miseria e doluri, purché alle sue reliquie i malati nel corpo e/o nell’anima si accostino cun contriccioni e cun santa e bona opinioni (intenzione), cun dignu duluri e doglia di cori…(o altre formule similari), e l’ammonimento ruota attorno ai motivi topici della miseria/ignoranza dell’uomo circa gli insondabili segreti dell’agire divino (le guarigioni concesse o negate), e sulla peccaminosità e vanità del mondo: Nuy chi ni portamu di stu mundu/ si non l’operi mali chi fachimu?... lassamu li soy duchicii (dolcezze) chi su’ aloy (aloe, fiele). Una religiosità semplice, di popolare divulgazione, nella quale il meraviglioso miracolistico marcato ogni volta dalle esclamazioni Mirabil cosa… cosa stupenda… o cosa maravigliusa!… si coniuga a un fervore devozionale a forte valenza municipalistico-identitaria: Agata si autodefinisce luchi e patruna di la mia chitati, dove è voluta tornare, quale patria sua, imponendo in sogno al soldato imperiale Gisliberto il furto (nel 1126) delle sue reliquie, che erano state portate, assieme a quelle di Santa Lucia, da Catania a Costantinopoli nel 1040 dal generale bizantino Giorgio Maniace. E Oliveri indugia sul tantu firvuri che ha spinto Agata a tornare a li compatrioti soy, frati et amichi: quistu fu amuri grandi et isvisseratu (sviscerato)… chi non si legi -criyu- ad altra Santa… quista è certiza nostra chi ni à amatu… e perciò non é solo invocata e venerata dalla sua devota agenti (gente) come pura e virginetta, e come spusa di Cristu, ma visceralmente amata come Agatha nostra, …nostru (sic!) gran tesoru… nostru (sic!) indubitatu e veru ayutu.

Le ottave della Istoria narrano i particolari del sogno del francese Gisliberto, a cui tuttu spaguratu (spaventato) e inizialmente renitente per le difficoltà dell’impresa Agata appare tre volte, lu locu undi ipsa apparsi straluchendu. Rassicurato dalle sue parole (Cui po’ contrastari/ cun Deu, chi voli chi tu l’agi a ffari), Gisliberto con l’amico fedele, il calabrese Goselmo, anch’egli soldato imperiale, ruba (laudabili et approbatu furtu) di notte le reliquie. Segue il lungo viaggio di ritorno attraverso Smirne (che sarà scossa da un terremoto e da un maremoto), Corinto (dove Agata, cun li capilli xolti,/ chi parìanu di oru perfectu, tantu straluchìanu, riapparirà a Gisliberto per affrettarne la partenza), Metone in Macedonia, Taranto (dove i due dimenticano la mammella di Agata, sicca perché di tempu longkissimu assai, ma miracolosamente prodiga di latte a una pichulilla  affamata), e successivamente  Messina, Taormina, Acicastello (dove avviene il dialogo/incontro fra Gisliberto e il vescovo Maurizio) fino a Catania, che accoglie con grandiosa festa le reliquie il 17 agosto del 1126 (data tutt’oggi solennizzata!). Si succedono poi 20 miracoli, operati dalla Santa su 7 indemoniati (6 donne e un monaco) e su vari malati nello spirito (il feudatario ostile ai monaci, la donna messinese indifferente al culto della Santa, il ruffiano punito…) o nel corpo (ciechi, sordi, muti, paralitici, storpi). Dai versi risaltano le gerarchie politico-sociali del XII° secolo (vedi le ottave CCCII e CCCIII), il grande richiamo dei pellegrinaggi (da fuori regno e dentro regno), il fascino dei viaggi per mare e i rapporti commerciali fra città (il marito pisano dell’indemoniata siracusana, la spola di mercanzie fra Messina e Catania, fra Corinto e Metone…), le improvvise incursioni militari (ottave CCLXXXIII-CCLXXXV), il prestigio religioso della Troina medievale (allora chitati antiqua, digna, di multi prelati) e del suo monastero, di cui diventerà abate -dicono alcuni  studiosi- proprio il giovane anonimo novizio miracolato del Decimo Miracolo (futuro S. Silvestro); gli spettri infine della precarietà economica e sanitaria: la grande carestia delle ottave CCCXV-CCCXVIII (Putìasi puru [ma] per gran prezzu haviri/ frumentu oy oriu [orzo] oy favi oy qualchi fruttu), al punto che il protagonista del Diciottesimo Miracolo disiava (desiderava) herbi, l’afflictu, nì si saturava (e non si saziava), e il coacervo di malattie delle ottave CCCXII-CCCXIII: chi eranu tanti chi non si purrìa/ notarsi in carta tutti li malati. Si avverte anche la quattrocentesca paura dei Turchi nell’auspicio dell’autore che le reliquie di Santa Lucia presenti a Venezia sostengano questa città e la mantengano forti et potenti, comu sempri è stata contra infidili, perché si ipsa mancassi… multi provinci di nui cristiani/ sarìanu subtamisi a lu Gran Cani (il Sultano).

Oliveri non volgarizza, come già detto, “a freddo” dal latino. Troviamo sì nel suo volgarizzamento la ripetizione di espressioni formulari e stereotipe tipo: pura pichulillacitella (fanciulla) pura… juvinetta donna pura, o quanto agli uomini, virtuusu, custumatu, timuratu, saputu, discretu… o nel contesto rituale: cun laudi et canti… canti digni et jubilacioni…  devoti ynni et laudi appropriati… o circa le vessazioni del demonio, la sua resistenza o cacciata le notazioni: crudilmenticun fischi et orrendissimi ululaticun strepiti grandi et cun tanti atterruri, e ancora lu gridari forti oppure a gran vuchi del popolo a ogni miracolo avvenuto. E alle fonti e all’immaginario collettivo del tempo appartengono sia le immagini altrettanto convenzionali del demonio/serpente o dei diavoli che si trasformano in cani orridi, grossi come somari, diavoli che hanno ognuno il proprio nome, sia la suggestione “corale” dei paramenti ecclesiastici (Vistutu in pontificali, si partìu/ di la  chitati lu episcopu dignu) e delle cerimonie sacre (messa, riti esorcistici). Ma nella elaborazione del poemetto l’autore impegna anche la sua genuina fede, cultura, abilità. A parte le reminiscenze dantesche rintracciabili pure nel Contrastu e nella Istoria di S. Ursula, e qui evidenti nelle ottave dove Dio è definito specchio in cui tutto si legge (CLXXIV), e che tutto contiene e non è contenuto (CCXLVI), abisso di profondità che non può essere compreso che da se stesso (CCV) e ai cui termini altissimi l’uomo non può volare; o quando l’anima, in Paradiso, è detta sazia e contenta perchì congiunta cun l’ultimu fini… et li soy desiderii sunu plini (CCCXCVI); a parte le strofe costruite con anafore, parallelismi, iterazioni e un certo accattivante gioco di suoni ora a dire con enfasi martellante la sincerità di un pentimento (CLXXV), ora l’incalzare dei mali fisici e psichici (CCCXII-CCCXIII), ora l’invito pressante a lasciare vanitati, pompi e tradimenti del mondo (CCCXCVIII); a parte talune metafore azzeccate, quali gli uomini lupazi affamati tantu abramati appresso a la robba, o l’individuo/cani reietto dalla volubilità del mondo chi ti teni vivu ogi, et lu indumani/ ti rendi mortu; a parte tutto ciò e oltre tutto ciò, molti passi della Translacioni mostrano nella narrazione/descrizione particolare vivezza e/o efficacia rappresentativa.

Si considerino la vivacità della pichulilla lattante che, addormentatasi la madre per la stanchezza, un pocu murmurau/ chi (perché) li minni di la matri non trovava/ per multu chi lu pettu li chircava, e allontanatasi da lei, andandu cun li pedi e ccun li mani/ piglia festa e jocu delle cose che stanno nel prato, finché trovata la mammella della Santa, la mette alla bocca e non vuole più lasciarla: cun gridati et plantu/ stritta nelli soy manu la tenìa,/ non ascutandu amminazi né scantu… a la minna havia lu pinzeri et a lu latti. L’orrore per l’indemoniata vessata dallo spirito maligno (chi n’avìa parti in lu corpu/ guastatu chi non fussi forsi nigru comu puchi [pece]), la quale nella chiesa in festa comu serpi omn’ura si torchìa (si torceva), e il contrappunto tra il sottofondo del suono dell’organo e dell’ufficio dittu dignamenti, e li [soy] gridati forti che atterrivano i fedeli rimbombando, per la vuchi chi parìa un gran tronu chi perturbava la eclesia plina. L’entusiasmo partecipato della processione che, portando le reliquie da Acicastello a Catania per una via stritta, inpachusa et pitrusa, vede una folla che procede molto lenta e così fitta che quando affacciau la caxa (cassa) chi venìa/ si trunatu [tuonato] havissi, jà non si intendìa, processione che trova la città ornata d’arburi, drappi richi et bellissimi fluri, et soni d’assay strumenti preparati… cun torchi (torce) infinitesimi allumati; li campani si spezavanu sonandu/ nixuna cosa di festa mancandu. E ancora, gli ampi spazi marini col tempo buono o cattivo (supra na barca si misi per marilu tempu bonu si misi a guastarivili a lu bon ventu volinteri/ li marinari saputi e discreti/ dediru…; non potendo in terra may accostari/ perchì lu ventu fora li spingìa…) e con la paura del gorgo dello stretto di Messina (Quandu a la fini passaru lu faru chi li dedi spantabili [spaventosi] pinseri). Il realistico chiacchiericcio, nel Miracolo settimo, tra vicine di casa: No chi vogliu giri! (Non ci voglio andare [a Catania]) dice la messinese miscredente -il cui cuore, pur avendo lei ospitato Gisliberto, Goselmo e le reliquie, è rimasto obstinatu, surdu et mutu-  alla vicina che la rimprovera e ammonisce, e le ribatte perciò superbissima adirata: Vanchi (vacci) puru tu,/ et serray beatha et megliu charliray (ciarlerai) et sapiray diri. Lo smarrimento del vecchio cieco del Tredicesimo Miracolo rimasto nel viaggio senza la guida necessaria del cagnolu fuggito via all’improvviso: Et ora nè vista aju -si lamenta- né lu cani/ in quisti diserti lochi et parti strani, uno smarrimento e senso profondo di solitudine (Non mi lassari -prega- accussì sconsulatu/ poviru, vecchiu, cecu et straniatu) simili a quelli provati dal messinese Giovanni, distrutto e deformato dalla carestia e abbandonato dalla moglie (…et poy sulu si vidìa a la scura casa) il quale, ridottosi per la sofferenza fisico-psichica a un mostru rattratto che si trascina per terra sulle ginocchia spingendosi con le mani, starà tutta una notte pregando dietro la porta chiusa della chiesa agatina friddu et ajazatu (intirizzito)… trimandu fina a jornu charu. Ma la mattina, apertesi le porte, si vitti sanu et forti, senza mali: li nervi adolorati -precisa Oliveri partecipe, quasi al rallentatore, dello stupore visivo e tattile del miracolato- et li lacerti/ et l’altri membri tutti corporali,/ chi debilitati e perduti avìa,/ li vitti sani, tutti insembli equali. E in modo parimenti graduale si sviluppa lo stupore della sorda che, svegliandosi dal sonno/sogno in cui ha visto una donna, ornata di soy digni vestimenti/ accompagnata da luchida caterva (da una luminosa schiera), metterle alle orecchie suavimenti i suoi orecchini, ode per la prima volta li vuchi et lu parlari chi omnunu (sic!) fachia… et lu modu comu audissi non sapìa. Cariche di pathos sono anche le preghiere della madre del garzunettu (giovinetto) muto (chi mutu lu figlau, allattau et crixiu) del Terzo miracolo, e della madre del monaco indemoniato dell’Undicesimo Miracolo, che la fachi (faccia) stricandu per lu pavimentu della chiesa, andau sempri pregandu, promettendo a S. Agata di votarsi a vita monacale. Altrettanto efficace infine risulta la tessitura narrativa, nei loro punti salienti, delle due vicende che costituiscono i Miracoli Dodici e Ottavo. Nel primo, motivo conduttore dell’episodio è la pietà corale della brigata di viaggiatori e marinai verso la donna incinta, cieca di un occhio e sorda di un orecchio, che per la furia del vento e il fetore della barca vomita, cun gran pena plangendu, anche sangue, con li visseri dirutti (le viscere distrutte) tutti quanti, al punto da cadere come morta, ma risvegliandosi dopo quattro ore, narra a quelli che la riconoscevano viva, et stupefatti/ stavanu tutti comu homini rapti (in estasi), il sogno miracoloso annunciatore della sua prossima guarigione. Nel secondo l’autore riesce a rendere il passaggio dall’avvilimento/stanchezza del paralitico, mastro Michele carpentiere, caricato dagli amici su un asinello e in viaggio verso Catania, alla vivacità e entusiastica fretta (Amichi mey, non adimuramu) con cui lo stesso, vistosi guarito, dice agli amici appunto di affrettarsi a piedi (a pedi) verso la città e la chiesa per ringraziare la Santa, ed è lui ora a tirare l’asinello (et l’asinellu appressu si minau) e a guadare a ppedi (il sintagma è ripetuto 4 volte) il fiume (et ipsu sulu lu flumi passau, senza ayutu di nixunu) e a mostrare agli amici il guado (et fichi ipsu la via di lu flumi a ttutti).         

Un narratore dunque Oliveri non disattento a effetti o sfumature, per cui  suona  come un topos letterario, non scevro di dissimulato autocompiacimento, la sua finale professione di modestia, quando completando la sua Istoria il vintisey di novembru, a li tri huri/ di notti di la nona indicioni, anno 1475, chiede a Messer Giovanni Castello di non risguardari alla sua ingnorancia (cioè il semplice linguaggio e la rima), accettando la ystoria, qual sia composta.  

 

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