"Abitare il proprio Tempo*" di Emilia Re

Vorrei fare una piccola premessa prima di entrare nel merito del mio intervento. Comunemente si pensa che gli aspetti più importanti del nostro tempo siano quelli che si sentono ogni giorno alla tv o si leggono sui giornali: la disoccupazione, la crisi economica, la fuga dei cervelli ecc. Per quanto comprendo come tutte queste cose ci tocchino da vicino, il mio intervento non riguarda questi temi. Riflettendo sul titolo del convegno “abitare il proprio tempo”, l’ho interpretato non in chiave sociologica, ma dal punto di vista interiore, ossia riflettendo su come effettivamente ci sentiamo nel nostro tempo e sulla posizione coscienziale dalla quale viviamo le esperienze che facciamo nella nostra vita.

Le nuove tecnologie, soprattutto internet e i nuovi mezzi di comunicazione ma anche il nuovo sistema dei trasporti, ci danno la possibilità di fare e avere molte più cose di quelle che si potevano fare o avere prima. Per esempio prima il numero di libri o di film che si poteva possedere era limitato dalla disponibilità economica, ed era sicuramente inferiore alla quantità che ora chiunque può possedere a prescindere dalla propria condizione sociale. Possedere una ricca biblioteca, anche se virtuale, o una collezione degli ultimi videogiochi o di tutti i film in commercio oggi è diventata una possibilità alla portata di tutti: basta pagare semplicemente un collegamento alla rete. Allo stesso modo viaggiare e visitare i posti più lontani con i voli low cost è diventata anch’essa una possibilità alla portata di tutti. Ma sicuramente l’aspetto in cui il nostro tempo ha maggiormente ampliato le possibilità riguarda la comunicazione. La rivoluzione dei social network e dello smartphone offre possibilità di contatti tecnicamente illimitate.

Questa rivoluzione del nostro tempo sembra presentarsi come una grande opportunità, una grande ricchezza. Invece la mia riflessione è che ciò costituisce non un arricchimento ma un impoverimento. Non mi interessa discutere la questione se internet, con tutto ciò che a esso è legato, sia un bene o male, né cedere alla dilagante retorica sugli usi sbagliati di questi mezzi di comunicazione, né ancora sostenere la diffusa opinione dell’impoverimento dei rapporti umani, causato dall’essere iperconnessi, ignorando le persone che ci stanno attorno. Quello su cui vorrei riflettere è invece un aspetto più specifico, ossia il concetto di “possibilità” come chiave per comprendere il nostro tempo.

Le possibilità che ho elencato a tutta prima appaiono qualcosa di esterno, di cui il soggetto può servirsi o non servirsi. Ma, quando dico che la “possibilità” è il concetto chiave per interpretare il nostro tempo, intendo riferirmi a una disposizione della mente: è come se tutte queste cose da oggetti o situazioni materiali fossero diventate possibilità mentali: il numero sterminato di libri o di film che adesso possediamo sono una cosa diversa dei libri e dei film che prima si possedevano in numero limitato: prima erano libri che si leggevano e film che si guardavano, ora sono libri e film che “possiamo” leggere o guardare. Ma molto spesso questa possibilità rimane tale, appunto solo una possibilità. Ciò potrebbe sembrare un’esagerazione ma non è così se consideriamo come prima “il tempo del film” (o della musica o dei libri) era il tempo della fruizione, mentre ora sempre più è diventato il tempo impiegato per ottenere più film, e in generale più cose di cui fruire, rimandando ad un tempo non definito l’effettiva fruizione. E così abbiamo più film che tempo per vederli.

Questa trasformazione dell’esperienza in possibilità è un inganno della mente: è come se ci fossimo convinti del fatto che, una volta che possediamo un film già “il grosso del lavoro” è fatto. È come se la mente avesse spostato il bersaglio: ciò che costituisce lo scopo non è più ciò che, a torto o a ragione, costituisce il bene, ossia il godimento, ma … la possibilità del godimento, la promessa del godimento. Una sorta di cambiale mentale. E come se ci sentissimo più soddisfatti nel sapere che possiamo fare una cosa che non nel metterci in gioco facendola veramente. Cerchiamo di accrescere al massimo “le possibilità” di fare le cose senza però poi farle davvero.

Così la possibilità di fare le foto e di mostrarle ha prodotto l’abitudine sempre più diffusa di fotografare i momenti di un viaggio o di altre circostanze e di postarle sui social. Accade che di fronte a un paesaggio o a un monumento ci si trovi più occupati a fotografare o filmare piuttosto che a godersi l’esperienza. Come se più dell’esperienza fosse importante la possibilità di conservarla e magari di comunicarla. Ma poi non è tanto l’esperienza che si comunica: la comunicazione è ridotta all’osso, in fondo si esibisce la possibilità che si ha avuto di fare l’esperienza.

Ma l’aspetto più lampante di come il nostro tempo abbia trasformato l’esperienza in possibilità è quello delle relazioni umane. Grazie ai nuovi sistemi di comunicazione siamo facilmente in contatto con chiunque. Prima nei vecchi telefonini avevamo una rubrica limitata e i numeri di telefono corrispondevano a delle persone con cui effettivamente avevamo un rapporto. Ora la rubrica va crescendo a dismisura, integrata con i contatti dei social e delle app di messaggistica. In un certo senso, come collezioniamo film, libri, o cd, collezioniamo anche contatti, un numero sterminato di amici virtuali, persone che “potrebbero” essere amici. Così dedichiamo molto tempo ad aggiungere contatti, ma abbiamo poco tempo per … entrare veramente in contatto con le persone. Le amicizie virtuali sono amicizie possibili che per lo più non diventano attuali.

A tutto ciò aggiungiamo un altro aspetto: disponiamo di risorse sterminate che però per la loro natura digitale possiamo perdere in un istante: un archivio immenso può polverizzarsi in un istante se l’hard disk in cui è contenuto subisce un danno e si cancella la memoria; oppure abbiamo strumenti potenti che, magari proprio quando ne abbiamo più bisogno, smettono di funzionare.

Tutto ciò mi porta a considerare il nostro tempo come caratterizzato da una sfasatura tra l’abbondanza che ci rappresentiamo nella nostra mente, e la pochezza dell’effettiva esperienza. Ciò determina una insoddisfazione latente e non definita che rende l’esistenza confusa e piena di dubbi. In questo modo rischiamo di abitare il nostro tempo da estranei: si svolgono le attività, si conseguono gli obiettivi, ma si fatica a vederne il senso.

Il mio discorso non vuole essere tanto una lagnanza nei confronti delle abitudini che ho descritto ma si propone di comprenderne le radici profonde. A questo proposito alcune considerazioni mi sorgono spontanee a partire dalla mia condizione di studentessa di teologia. Noi studenti di teologia, come in generale chiunque abbia scelto un indirizzo di studi umanistico, siamo considerati l’ultima ruota del carro della nostra società. Viviamo nel tempo del “funzionale”, dove tutto deve servire a qualcos’altro, e deve essere sempre visibilmente utile. Ciò che non rientra in queste categorie è solo accessorio se non proprio superfluo. Gli studi umanistici, per lungo tempo considerati la base della realizzazione personale e sociale, ora sono solo bollati come “inutili”. Occuparsi di arte, di musica, di letteratura, di filosofia o della propria spiritualità, sono tutte cose che vengono comunemente considerate come non concrete, magari edificanti ma come contorno. La laurea deve essere finalizzata ad un lavoro e tale lavoro deve rientrare negli ambiti in cui c’è una richiesta di mercato.

Vorrei a questo punto far notare che questa situazione che nel nostro tempo è considerata un’ovvietà, quasi una verità metastorica, in realtà è il frutto di una concezione del sapere che si è affermata storicamente con quella svolta che è stata l’avvento dell’età moderna: il sapere metafisico ha cominciato a essere considerato sterile e la nuova scienza ha cominciato a caratterizzarsi per il suo legame indissolubile con la tecnica. E così che si è messo in moto quell’inarrestabile processo di sviluppo tecnologico della Rivoluzione industriale, di cui ai nostri giorni viviamo la terza fase. Sarebbe ingenuo pensare che lo sviluppo tecnologico sia stato il frutto di un colpo di genio di qualche inventore o che gli uomini dell’età precedente non fossero stati dotati di un pari genio.

Così considerata la questione, credo che il nostro tempo ci presenti una sfida: la sfida di mettere in discussione i presupposti che hanno determinato quell’impoverimento che ho descritto sopra. La sfida di mettere in discussione non solo le conseguenze negative dell’eccesso di tecnologia, che sono facilmente riconoscibili, ma anche la concezione del sapere che sta alla base di quelle conseguenze. Infatti si può facilmente riconoscere l’impatto nefasto della tecnologia ma nello stesso tempo continuare a pensare che sia un bene in sé il progressivo ampliamento della ricerca scientifico-tecnologica. Qui mi pare indicativa la sentenza di Sant’Ignazio: “non è il molto sapere che soddisfa l’anima, ma il sentire ed il gustare le cose internamente”.

Ovviamente non c’è niente che non va nello sviluppo scientifico-tecnologico. Ma se ci interroghiamo sulla posizione coscienziale che sta dietro tale sviluppo e la corrispondente concezione del sapere, allora forse potremmo arrivare a un punto decisivo per la comprensione del nostro tempo. Infatti a me sembra che la radice ultima del disagio del nostro tempo risieda nella perdita di “centro” della coscienza, nella dimenticanza del sé come pienezza e nella conseguente ricerca di acquisizione di qualcosa di esteriore.

È il predominio nell’anima di quella che Platone chiamava la parte concupiscibile, la parte dove hanno sede tutti i desideri. A volte si è portati a interpretare in senso moralistico questo discorso, come se Platone proponesse di reprimere i desideri, mentre in realtà egli parla di ristabilire l’ordine naturale, affinché sia l’intelligenza e non la parte desiderante a guidare l’anima. Dal punto di vista moralistico si potrebbe pensare che il potere, il sesso, il denaro e tutti gli altri ambiti in cui si esprime l’anima concupiscibile siano peccato. Dal punto di vista di Platone il discorso è più interessante, perché egli spiega abbastanza chiaramente che ciò che non va nella parte concupiscibile non è il fatto che essa si muova in questi ambiti peccaminosi ma più semplicemente che la sua natura è quella di essere insaziabile. Qui torna in mente una celebre terzina di Dante:

e ha natura sì malvagia e ria,

che mai non empie la bramosa voglia,

e dopo ‘l pasto ha più fame che pria.

Concetto che Platone esprime altrettanto efficacemente nel Gorgia attraverso l’immagine dell’orcio forato. Qui la parte concupiscibile dell’anima “in cui hanno sede le passioni, la sua dissolutezza e permeabilità” viene paragonata a “un orcio forato, volendo così significare la sua insaziabilità”. E quanti sono dominati da essa sono “condannati a versare acqua in un orcio forato con un setaccio anch’esso forato”.

Dunque – e mi avvio alla conclusione – l’abnorme sviluppo tecnologico e la disponibilità di una quantità sempre crescente di risorse, più che una ricchezza testimoniano una posizione della coscienza dominata dalla tendenza acquisitiva. Una posizione coscienziale che avendo perso il “centro”, ossia la consapevolezza della pienezza della propria natura, si dirige verso l’esterno. Una posizione infelice dal momento che il desiderio è per sua natura insaziabile. Ma se questo è un problema con cui l’essere umano, in quanto dotato di anima concupiscibile, deve fare i conti in qualsiasi epoca storica, in un certo senso l’uomo del nostro tempo si trova in una condizione più critica ma per certi versi anche più favorevole. Infatti oggi il livello di espansione della parte acquisitiva è tale da rendere non più procrastinabile una domanda: qual è il vero prezzo della svolta moderna nel modo di concepire il sapere? La svolta che ha messo all’angolo gli studi umanistici e la cura dell’anima e che ha spalancato le porte al progresso scientifico-tecnologico?

Forse si è pensato troppo semplicemente che l’unione indissolubile di scienza e tecnica avesse costituito essenzialmente l’aggiunta di un’applicazione pratica al sapere teorico. Insomma se il sapere teorico è un bene, sarà un bene ancora più grande se a esso aggiungiamo un’utilità pratica. Ma le cose non stanno così e quel cambiamento è stato in realtà uno stravolgimento. Prima della rivoluzione moderna sapere era essenzialmente saggezza, cioè la ricerca di un ordine e di una guida delle passioni. Mentre ora la nuova scienza-tecnica si presenta come la ricerca dei mezzi per soddisfare le passioni.

Forse le mie riflessioni potranno sembrare troppo pessimistiche. Ma per me questo discorso ha un altro scopo che non quello di piangere le disgrazie del nostro tempo. Ossia che la crisi del nostro tempo può essere interpretata come una crisi di crescita o di risveglio. Una crisi che afferma la necessità di un’inversione, non tanto nei comportamenti esteriori quanto nell’intima realizzazione della pienezza del sé.

 

da: "Quaderni del Centro Studi Akropolis", 2018                   

 

 

* Relazione presentata da Emilia Re al Convegno “Abitare il proprio tempo”, organizzato da CIF, Centro Italiano Femminile - Regione Sicilia, tenutosi a Palermo l’1 dicembre 2018.                        

Pin It

Potrebbero interessarti

Articoli più letti

Questo sito utilizza Cookies necesari per il corretto funzionamento. Continuando la navigazione viene consentito il loro utilizzo.