“Alma poesis” di Carmelo Fucarino

"Studium fuit alma poesis": così volle scolpito come epigrafe tombale Boccaccio, come risulta nella chiesa dei SS. Jacopo e Filippo a Certaldo. Da una parte l’amore di una intera esistenza espressa nella poesia, quell’atto del “fare” ποιέω, secondo l’etimo greco, diverso dall‘agire’, πράσσω e qui intesa dal verbo latino “alo”, come 'colei che ristora'. E su questo binomio voglio richiamare l’attenzione dei lettori riguardo alla prova creativa di Gabriella Maggio, Echi (Il Convivio, 2022), seconda a tre anni dopo la raccolta poetica Emozioni senza compiacimento (Il Convivio, 2019, cf. https://www.culturelite.com/categorie/scritture/gabriella-maggio-emozioni-senza-compiacimento-il-convivio.html). In quella la radice e base erano le emozioni, la presa di coscienza emotiva della vita, il senso di scoperta e di comprensione.

Ora quello stato sentimentale si configura come ripetizione di sensazioni, limitati nel titolo alla semplice eco, quel rifrangersi e ripetersi di stati d’animo che riaccendono il gusto della parola, del suono che distrae ed inganna, il continuo enunciarsi per innamorare l’ascoltatore, nel mito di quella ninfa di eccezionale bellezza, ninfa dei boschi che ammaliava Era per distrarla con le sue frastornanti iterazioni. Il termine riprende la reiterazione di stati d’animo, ma anche il loro perdersi nella lontananza e ripercuotersi ad onde che avvolgono e commuovono.

Tutto comincia con quel “limine dubbioso”, quella soglia, il punto di separazione di due esistenze, la soglia della solitudine oltre la quale consiste la logorante attesa dell’anima. Solo le parole possono dare ristoro a quel punto arido del limen, il punto di non ritorno e di dubbio tra l’esistente e l’ignoto, la sospensione del tempo senza cognizione dell’essere. Mi sovviene quella siepe sull’ermo colle «che da tanta parte / dell'ultimo orizzonte il guardo esclude e interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quïete / io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura». Qui allo spazio si marca l’ignoto ‘oltre’, quello sgomento e quell’attesa del vuoto. All’arida giornata trascorsa si oppone la parola che ristora e riempie il cuore di speranze.

Pertanto il giusto ritorno a quella poesia, la parola che genera, che dà un senso alla vita e si sviluppa in apoteosi e fulgore quasi alla fine della raccolta (p. 36). Qui dunque la chiave di tutto il mistero oltre quell’arida soglia del nulla. E anche qui lo scontro terribile e rovinoso, la nutrita (alma) esplosione “di passioni e di sdegni”, “per sentieri senza orma e silenzi”, il tutto a rappresentare la vita, all’eco rispondono l’iridescenza e l’annullamento negli universali diluvi, il biblico di Noè, il mitico di Deucalione («e il naufragar m'è dolce in questo mare») per annientare la “stirpe di bronzo”, fine, diciamo limite per un futuro nuovo inizio. Perché diversamente da quella soglia verso il nulla, l’apocalisse conclusiva di Giovanni, la fine assoluta per il “disvelamento” del Dio.

Qui sono il disvelamento e la speranza che offre la poesia, l’ansia delle parole pietose, le parole di amore, che possano rivelare la vita, il fulgore di luce della parola poetica. Eppure anche in quest’anelito di verità ad illuminare le tenebre, gli obscura in lucida carmina, il senso di un difficile equilibrio. Infine proprio fra la certezza che solo i versi possono portare la luce, il sussurro di una “voce fioca e lontana”, la semplice monotona eco di vuote iridescenze.

E il disvelamento diventa fine e distruzione, “dolenti e spesso muti”, inerti sul tavolo “gli strumenti della scrittura”. A seguire come pietra tombale il silenzio profondo senza attese né desideri, pur nel timido annunzio della primavera e poi l’assenza, l’immobilità fra i cocci dispersi della sua fata morgana. Fra la preghiera di scaldare quella mano fredda “con la forza del tuo cuore”, quando un muro separa la “primavera della speranza”, quella “parete di pietra compatta” fra i passi perduti, fra cose “inghiottite dal niente”, e ancora un solido muro che impedisce il profumo dei  fiori della “primavera della speranza”.

Forse un ricordo di pace la nonna Giovannina, nata a primavera e rapita dall’inverno, che le ha lasciato come dono la ‘caparbietà’, a suo modo libera in quel servire a tavola, o il coraggio del padre a vent’anni, pur se anche di lui la “memoria confonde i capitoli”.

Dei tempi duri di questi anni di gestazione, foschi per tutti e che potrebbero pienamente giustificare estremo pessimismo e sbarramento con solide mura del futuro, l’imprevista enigmatica improvvisa era del covid nessuna esile ombra, solo a chiudere un omaggio all’Ucraina, ultimo contatto con la presente esistenza, “passi e speranze” fra le “betulle spoglie”, in quel giorno che pesa sulle “macerie della terra e del cuore”. Eppure all’urlo delle sirene nella desolazione delle rovine, in quel forte orgoglio non si intravede perdono.

In questo tempo che passa, mentre tacciono le cicale, una pausa nel ritorno all’affabulante infanzia delle favole e la preghiera ai cari di fermarsi a ricreare lo stupore di bambina, ora che lo sgraziato lamento del gabbiano ha cancellato il canto del gallo con il suo annunzio di una giornata “nuova”, diverso da quell’albatro dei fiori del male, “e comico e brutto, lui prima così bello”.

O forse in questa realtà sbarrata da muri impenetrabili, erti ed altissimi, da speranze bruciate, forse… tu vorresti… «ascoltarti attenta / dulce loquentem / nella bolla di un sogno / nel vuoto del tempo» o forse… guidarti / dulce ridentem / nel miele dell’anima / nel brusio dei ricordi».

Non so di quali speranze, di quali promesse possa nutrirsi questa attesa, cosa potrai trovare oltre quella muraglia, se oserai varcarla, un passo oltre la soglia, nel fulgore della luce, nei canti che inondano le strade, che riempiano i cuori.

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