“Brevi “Esercizi di memoria” per ricordare Andrea Camilleri” di Maria Nivea Zagarella

A lungo forse vivranno nell’immaginario collettivo degli italiani il commissario Montalbano e Andrea Camilleri, morto il 17 luglio scorso. L’uno per l’enorme successo mediatico, l’altro per l’arguzia dell’uomo e dello scrittore. Un esempio di tale qualità fornisce, fra gli altri, il libro Esercizi di memoria, una raccolta di 23 racconti pubblicata nel 2017, quando l’autore già cieco aveva 92 anni. Racconti dettati nell’estate 2016 alla gentile Isabella Dessalvi e accompagnati nell’edizione a stampa -come si legge nell’introduzione- da illustrazioni di 6 tra i più apprezzati illustratori italiani. Per il lettore che si è grandemente divertito e/o indignato su altre pagine di Camilleri quali La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), La scomparsa di Patò (2000), Le pecore e il pastore (2007), La banda Sacco (2013), La targa (2011; 2015)… gli Esercizi del 2017, rispetto alle opere or ora citate, si aprono su un versante per così dire “minore” della sua pur variegata scrittura. Una scrittura che in un libro-intervista di Marcello Sorgi del 2000 lo stesso Camilleri, con riferimento specifico al successo del “suo” commissario Montalbano, definiva di intrattenimento alto, precisando di credere a un artigianato della scrittura di una certa classe. Formule queste dell’intrattenimento alto e dell’artigianato che credo non sia errato estendere a tutta la sua opera di scrittore, se anche nel risvolto di copertina di questo volume l’autore torna a proporre di sé l’immagine di un perfetto impiegato della scrittura, indugiando sulla metafora della trapezista la cui grazia -si legge- anche nel triplo salto mortale sempre col sorriso sulle labbra riesce a nascondere la fatica, l’impegno quotidiano, la presenza del rischio che hanno reso possibile quelle evoluzioni. Il “gioco di leggerezza” in cui vuole risolversi e si risolve in generale la scrittura di Camilleri è infatti un dosaggio tecnicamente scaltrito e compiaciuto (vedi la sottolineatura dell’aereo intrecciarsi di suoni e parole) di elementi disparati, contenutistici e formali, taluni troppo agevolmente macchiettistici e/o commerciali (l’erotismo, il farsesco, il becero, il poliziesco).

Tuttavia il ludus intellettuale e soprattutto linguistico con quel sempre saporoso, talora al vetriolo, miscuglio di siciliano e italiano, scava nei testi migliori opportunamente tra le maglie dell’impegno civile e suona come un efficace, sonoro, schiaffo storico e morale per lettori e Istituzioni. Più interessante pertanto risulta il Camilleri senza Montalbano, il Camilleri cioè archivista e notista storico che tra Sciascia e Pirandello rivisita polemicamente fotogrammi di memoria storica, siciliana e italiana, muovendosi fra amenità narrative e atrocità fattuali, fra curiosità documentarie e iniquità istituzionali e/o istituzionalizzate, fra sbrigliata verve comica e un disincanto ironico che cala su uomini e cose con la nudità di uno sguardo rigorosamente consequenziario.

Ma in questi Esercizi di memoria si è allentata del ludus sopra accennato la carica demistificatoria, irridente e/o vistosamente giocosa, ed è venuta meno pure la frizzante (ma alla lunga manierata) alchimia linguistica del “vigatese”, confinandosi “l’artigianato della scrittura” in un italiano medio molto lineare, sostanzialmente referenziale, a metà fra il taglio giornalistico (si considerino le informazioni su Pirandello, il brigante Giuliano, la censura letteraria degli anni ‘50/’60, Luciano Liggio, Pietro Sharoff, Antonioni, su altri registi scrittori attori o sui premi letterari) e la conversazione disinteressata fra amici, appunto da ferie agostane sull’amato Monte Amiata, luogo d’elezione dello scrittore per la villeggiatura. I ricordi scorrono nel libro senza increspature di pathos partecipativo-emotivo, soltanto con sottolineature sparse di ammiccante ironia, più o meno calcata secondo i casi e le situazioni, e il tono che prevale è di distaccata oggettività. La “memoria” personale di Camilleri è descrittiva, non introspettiva o interrogativa. Si limita ad allineare date e fatti di ieri (il periodo fascista, la II guerra mondiale, l’immediato dopoguerra) e di oggi (dagli anni Cinquanta al 2000). Alcuni di essi, come certi oggetti, ad esempio l’enorme primitivo telefono a muro abbandonato nella cantina del nonno, appaiono quali incunaboli più o meno remoti di altri scritti di successo dell’autore, ma nel loro insieme i vari episodi sarebbero una aneddotica sostanzialmente inespressiva (vedi i racconti Borg Pisani, Incontro con i briganti, La montagna e io, I miei premi, La sostituzione, Tarantella su un piede solo), se non intervenissero qua e là a movimentarli taluni elementi: l’ironia di cui prima si diceva (e la saporosa autoironia ne L’edicolante napoletano e La fortuna); la felice caratterizzazione di qualche personaggio; l’insistenza su certe bizzarrie dell’esistenza e degli umani, che media in certo qual modo la sua disincantata visione del vivere; o ancora, la realtà della mafia.

Elementi che di quando in quando riaccendono un riflesso del Camilleri satirico-umoristico e polemico. L’ironia ad esempio accompagna le traversie “pirandelliane” della traslazione da Roma alla contrada Caos delle ceneri di Pirandello tra iniziali rifiuti da un lato, per opposte ragioni, del Federale fascista (Pirandello era un lurido antifascista!), del prefetto di Agrigento (Pirandello è stato un convinto fascista, non se ne parla neppure), del vescovo Peruzzo (inumazione, non incinerazione), e remore superstiziose dall’altro del  pilota americano che non volle decollare con a bordo un defunto e l’incoscienza in treno di tre incalliti giocatori di tresette attrezzatisi come ripiano per il gioco proprio con la cassetta “preziosa” con dentro l’anfora cineraria. E sapidi di ironia appaiono l’ulteriore trovata camilleriana (un Camilleri giovanissimo) della cassa da morto da bambino per mimetizzarvi nel corso del funerale le ceneri dello scrittore aggirando il divieto vescovile, e il riferimento, dopo le lunghe, colpevoli, dimenticanze del Comune, alla folata finale di vento che sbatterà parte delle travagliate ceneri in bocca e sui vestiti del volenteroso, e retorico, direttore del museo agrigentino Zirretta che se le scrollerà di dosso sputacchiando: E stavolta -conclude l’autore- finalmente le ceneri di Pirandello raggiunsero la pace eterna! L’ironia presiede anche alle varie stranezze dell’ingegnere Paolo Afflitto (a parte le  compiaciute chiose su certa bizzarra onomastica locale) ostinato costruttore agli inizi degli anni ’40 di aquiloni bombardieri per distruggere Malta. Aleggia umorosa sul colonnello-poeta in pensione Veronica uso a comporre versi in bagno; sulle fatiche “anti-medioevo” del parente ingegnere ostinatosi a portare nella casa di campagna dei nonni materni di Camilleri acqua corrente e luce elettrica, fatiche vanificate dalle mitragliatrici degli aerei inglesi; sui numeri di spettacolo estemporanei del circo Pianella, fra cui improvvisate gare di peti fragorosissimi tra operai portuali ubriachi. Ride maliziosa del “fantasma” della cavallerizza Marisa, gamba lunga e dai boccoli biondi, annidatosi dopo il bombardamento del 7 agosto 1942 nella villetta isolata dell’assai compiacente medico del paese De Giovanni; chiude il  fortunato bagno nella merda di Camilleri quindicenne sprofondato nel pozzo nero del cortile dei nonni: Don Nenè non s’apprioccupassi -gli dice la serva che lo pulisce a secchiate di acqua gelida- vossia sarà ‘n omu fortunato picchì la merda fortuna porta, cchiù merda e cchiù fortuna. Occhieggia inoltre l’ironia furbesca e maligna tra le parole dell’avvocato di Luciano Liggio, incidendo una memorabile epigrafe, quasi a inizio dell’omonimo racconto, nella frase: Insomma avvenne il curioso fenomeno che con l’arrivo della libertà (luglio 1943) la mafia in Sicilia assunse in prima persona il potere. Scherza, prima sorniona, poi delusa, sul paradiso (con tutto) a mille lire della riviera napoletana, nel caso specifico il tratto solitario di costa fra Nerano e l’isola di Isca (proprietà di Eduardo De Filippo), paradiso terrestre solo per poco goduto dall’autore (luglio del ’60), e subito perduto (partenza della misteriosa bella “Eva” quarantenne), e per sempre (cementificazione del litorale e spiaggia affollatissima già negli anni ‘70). Sghignazzerà ancora l’ironia con incallita franchezza delle disavventure erotico-amorose dei registi Nemirovic-Dancenko e Flem Bollini, l’uno tradito, l’altro salvato dal suo pene: Fatti una bella, lunga sega -dice a Flem il luminare di psichiatria guarendolo dalla depressione post-abbandono della compagna.

Alcuni schizzi poi di personaggi intrigano positivamente il lettore, anche se ognuna di tali figure è fissata brevemente dall’esterno, nel bene (l’intellettuale introversione di Antonioni, l’onestà morale del Commissario, zio dello scrittore, Carmelo Camilleri, il carattere spigoloso del poeta Cardarelli, la passione teatrale e l’eccentricità di Sharoff, l’illuminante fragorosa pernacchia dell’edicolante popolano fra le macerie nel 1945 della stazione di Napoli) e -si fa per dire- nel “male”: l’alterigia di Eduardo De Filippo, specie verso il fratello Peppino, l’esuberanza chiassosa dello scrittore uruguaiano Chavarrìa, la rivalità anti-Camilleri del romanziere inglese Ian McEwan, la vanità di Strehler… E non fanno certo una bella figura neanche le giurie di premi famosi (Strega, Viareggio, Bancarella) o qualche incauto critico teatrale. Accanto alle consapevoli magagne, piccole e grandi, dei singoli, l’artigianato della scrittura e l’intrattenimento indugiano significativamente sui giochi stravaganti del Caso che pare configurarsi per lo scrittore come il vero motore dell’esistere individuale. Si vedano il quasi-eroe involontario fascista “zio” medico Gino Moscato; la scoperta casuale, su una bancarella, del misterioso autore di due tragedie surreali, Angelo Serbati, misteriosamente vissuto e ancor più misteriosamente morto, fantasma inquietante di uomo che ha vita (purtroppo) troppo breve anche nelle righe di Camilleri; le morti improvvise e oscuramente solitarie che mettono l’avvocato liquidatore di “eredità giacenti” di fronte a inopinabili sorprese quali: una collezione di 200 paia di scarpe duilio anni Trenta in pelle bianca e nera; una raccolta di cassette di legno zeppe di cose inutili ma ordinatamente annotate e segnalate (tappi di birra aperti, pezzetti di spago assolutamente inutilizzabili, bottoni…); la gattina che, morta la padrona, si lascia morire di fame sul letto di quella; il gatto bianco milionario dalle quattro zampe rossastre quasi indossasse dei calzini, al quale un estroso barbone, che aveva arredato lo sgabuzzino dove viveva con mobili fatti di pacchi di giornali legati con lo spago, lascia un vitalizio/eredità di 5 milioni di lire. Gatto che impegnerà nella sua inutile caccia l’avvocato e lo stesso Camilleri: a quell’epoca -commenta (e confessa) l’autore- 5 milioni francamente erano una grossa cifra. Un campionario come si vede di incontri “casuali” e di umanità spicciola, per lo più ordinaria e anche un po’ sotto le righe (i barboni del Tevere), accompagnata nelle sue oggettivate vicende da un Camilleri narratore “a freddo”, che in questi Esercizi di memoria, pur nulla profondamente dicendo di sé e su di sé, restituisce ugualmente in controluce al lettore il suo temperamento pragmatico, scettico-carnale, esplicitamente anticlericale, e che pur affermando di avere avuto una vita felice in tutti i sensi, nel matrimonio, nel lavoro, tradisce, come il Camilleri più impegnato, un suo persistente disincanto esistenziale. Oltre l’interesse/curiosità infatti per le due tragedie (Orgoglio e turbamento e Il casco ardente) del dimenticato Angelo Serbati, metafora entrambe del rifiuto dell’esistenza, l’ultimo racconto del libro, dall’emblematico titolo La bellezza intravista, si chiude sulla “perdita” della Bellezza solo fuggevolmente “intravista”, quasi una grazia inaspettata/insperata, nell’ottobre del ’43 nella sua Sicilia, sulla collina di Monserrato, sotto le artistiche forme di uno splendido affresco paesaggistico del 1420 e di una statua di legno dipinta della Madonna, col Bambino Gesù in braccio, posta su un altare di roccia dentro una grotta. Aveva la stessa intensità -annota lo scrittore- e la stessa magia dell’affresco. Saranno cancellati l’affresco e la statua dalla lunga, colpevole, incuria umana protrattasi dal ’40 alle soglie del 2000, e da una passata di terremoto. E nella tasca di Camilleri resterà “a memoria” di quella duplice, perduta, “rivelazione” (era già in gestazione, forse, il vedere visionario del Tiresia del Teatro Greco di Siracusa?) solo un frammento di pietruzza colorata di azzurro intenso.                  

 

 

 

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