Ignazio Balistreri, "La Giostra" (Ed. Divina Follia)

di Giuseppe Bagnasco

 

   Leggendo l’ottima prefazione di Mariano Deidda seguita dalla nota introduttiva di Silvia Denti che la completa, resta poco da dire a chi segue nella veste di recensore. Pur tuttavia, poiché dalla lettura ciascuno esprime un giudizio che non necessariamente deve somigliare o coincidere con le due sunnominate, proveremo a dare le nostra personale interpretazione e il nostro giudizio e sull’opera e sull’autore. E allora, come siamo usi fare, cominceremo dalla copertina e dal titolo, che una volta tanto coincidono e che scorgiamo essere omeopatici.  “La Giostra” è il titolo e la copertina la riproduce in una pittura a pastello di Lella Buttitta con una tecnica da conferirle un taglio impressionistico. Colori sfumati, delicati eppure sfuggenti che stanno ad indicare metaforicamente la sfuggevolezza della vita. Perché questo rappresenta la giostra: una macchina  che gira per una volontà che perviene dall’esterno guidata da una mano indefinibile e che può attestarsi come una mano che racchiude il destino. Sappiamo dai nostri ricordi ludici che in ogni paese alla festa del Patrono i giostrai ne piantavano una nella piazza più grande del paese. Sappiamo pure che ci si saliva in un punto e quando si fermava a volere del “manovratore”, si scendeva in un punto diverso. E’ questa la metafora della vita: si sa da quale punto si sale ma non si sa in quale punto della vita si scende. Abbiamo letto tempo fa un aforisma che fa il paio con la giostra: la stazione ferroviaria dove c’è chi arriva e c’è chi parte e tra i due momenti la sosta in una Sala d’Attesa aspettando l’arrivo del proprio treno e quando arriva ci si sale prendendo posto per andare via, verso l’ultima destinazione , lasciando gli occasionali compagni di viaggio. E questo ci richiama alla mente quella bella poesia di Giorgio Caproni “ Congedo del viaggiatore cerimonioso” quando dice:”…Amici, credo sia meglio per me cominciare a tirar giù la valigia,…il mio occhio già vede il disco rosso della mia stazione..”  Sulle giostre ci sono ancora oggi  dato che gli interessi dei bambini non mutano, il cavalluccio, la macchinina, l’aeroplano, il trattore, il carro armato con l’aggiunta dell’ultimo razzo lunare, mezzi con cui ci si illude di partire. Anche Ignazio Balistreri mantiene sulla sua giostra i suoi differenti mezzi di comunicazione e li espone per argomenti. Argomenti che sono quelli di tutti i giorni per un essere pensante che non sia abbandonato all’ordinario del superfluo e del necessario. Un uomo che a torto o a ragione si pone delle domande alle quali cerca di dare delle risposte pur sapendo che l’uomo di fronte al Creato non è nulla se non come  uno degli elementi della Natura . E tra questi nel suo lessico  predomina il mare. Né poteva essere diversamente per un asprense, nato davanti al mare e col mare negli occhi, visto  che ci vive giorno dopo giorno. Nei suoi temi, oltre che per la Natura, c’è posto per la vita di coppia, per l’amore, per gli aforismi, per i dubbi esistenziali. Un arcobaleno di argomenti  che dona ad ogni lirica  il suo colore. Qui non siamo più all’ “Azzurro Verticale” dove predomina lo spirituale, ma dove trova spazio l’immanente sia espresso in composti di definizioni filosofiche, sia che trovino concretezza  nell’attesa, proprio quella Sala d’Attesa che delimita le stagioni della vita. Perché questo è il tema di fondo. Un tema occulto, che si staglia sugli orizzonti delle liriche. E non a caso nella lirica (senza titolo) di pag. 41 leggiamo: “ In questa cupola di cielo/ dipinta da Dio/ m’attende la Leggerezza” (in maiuscolo come Dio). La leggerezza di che?. E’ del dialogo degli alberi con la terra , delle onde coi gabbiani o del semplice pensiero?.Crediamo che questa è il risvolto della stanchezza della vita. Da qui la nostalgia della pioggia con le sue malinconie autunnali, con gli artisti e i rubati baci degli amanti. Stanchezza per le occasioni perdute, per i fragori delle guerre, tutti motivi  che portano all’auspicio di trovare un po’ di pace, lontano dalle frenesie delle città (come il Poeta anela) e per contro, vicino ai campi silenziosi con gli armenti tenuti a bada da un fedele cane. E così gli è piacevole immaginarsi come una pietra posta sugli argini del silenzio dove persino il pensiero rifiuta il soccorso dell’inchiostro per scrivere poesie. E sì, perché il Nostro si considera un naufrago approdato nelle terre dei poeti, un clochard della parola, del verso. E la gioia, effimero momento di un elemento della giostra, che pure esiste, altro non è che una distrazione del dolore. Quindi la vita è dolore?. In “Accenni” il pessimismo è conforme, ordinario, di maniera e il Poeta vi si specchia, come lui afferma, quale un frutto lasciato a disfarsi senza essere colto a compiere così il destino che la Natura gli ha affidato o in altra parte raffigurandosi come una penna affogata nella sabbia senza poter esprimere un verso. Un pessimismo che tra aforismi e stralci di filosofia pura non si attenua se l’esistenzialismo dell’uomo si traduce in sintomatiche “gocce di pioggia in groppa al vento…memorie stanche” di giorni inutili dove i sogni giacciono dentro vetrine sbiadite del tempo e dove le parole altro non sono che onde, che dopo un lungo viaggio vanno a morire sulla riva. E’ il loro destino e fanno da ulteriore metafora della vita dell’uomo. La poesia di Ignazio Balistreri lascia spazio alla meditazione, ma non per la suggestione che suscita, ma perché lascia disorientati sulla comprensione della dimensione di tanta grandezza. A leggerla non si riesce a contenerla in una ordinaria definizione. Possiamo dire che è cosmica nel suo pensiero perché abbraccia tutto lo scibile delle emotività dell’animo e potremmo accostarla a quel monte Olimpo di mitologica memoria che serviva come un tramite tra gli uomini e gli dei che pure non stavano in cielo anche se Giove tuonava dal cielo ma non dall’Alto dei Cieli, termine usato in seguito nelle preghiere cristiane. Ma non ci fu solo l’Olimpo. Ci furono montagne che furono additate come luoghi più vicini alle divinità e per questo chiamate sacre, certo simboli e, come afferma lo storico Franco Cardini, concepiti come tramite indicante una ascesa o comunque un passaggio per accedere ad un altro mondo. E montagne sacre sono ancora presenti in molte culture tradizionali, valga per tutte il Monte Fuji in Giappone. Un tramite, dicevamo, per avvicinarsi a Dio. Oppure al pari delle montagne anche costruzioni dell’ingegno umano quale furono le piramidi egizie o gli ziqqurat babilonesi o i teocalli aztechi.  E che cosa è “La Giostra” se non una costruzione che attraverso i suoi elementi tematici quali il dubbio, il dolore, la gioia, l’amore anche sensuale, ne prova l’esistenza? Dio è tutto questo anche se il Nostro, rivierasco per eccellenza, nel vasto mondo della Natura ha, come prima richiamato, un suo prediletto: il mare. Mare che cita in tanti versi come “il ventre è mare chiuso e salato”…”una risacca di sogni”… “lacrime disciolte nel mare”… “che si lascia andare nel mare aperto”…”la mia alba marina tra mare e cielo”… “lasciando cicatrici al mare”…”questo granello di mare”…ecc. Una presenza dove è occulta la presenza del sacro dal momento che la parola “Dio” è espressamente scritta  una sola volta, come prima ricordato a pag. 41 del volume. Un sacro appena velato ma evidenziato da parole la cui prima lettera è scritta in maiuscolo pur senza essere capoversi, come Sogno, Parola, Credo, Dialogo, Pace, Essenza ecc. Parole che fanno parte di contesti diversi con argomenti disparati ma che hanno una semantica particolare. Ma forse, nello specifico, l’argomento che più si distingue in questa raccolta, è l’amore. Amore che nella sua “esplosione dell’immanente” viene “usato” come un ponte, come quell’Olimpo già ricordato, un tramite, un meraviglioso viatico verso il Trascendente. La comprensione dell’Amore nel solco della Verità, nel profondo intimo del Sublime, è quello che emerge insieme alla devozione verso la donna, la sposa, la madre, verso quella Madonna di cui l’Autore anni fa ne ha registrato l’apparizione. Una luce accecante apparsa con le Sue sfumate sembianze in un angolo di una oscura Cappella. Parliamo quindi dell’amore puro, quello del sentimento, dello slancio amoroso che qualche volta si piega naturalmente verso il sensuale che non è un sensuale erotico ma desiderio di unione, di comunicazione, di completamento. Sono poesie caratterizzate dall’Io parlante,  fortemente interiorizzate. In esse l’Autore  declina l’inutilità di provarne l’esistenza dato che le parole sono cucite dentro il cuore (v.Dalla trincea) o dove è l’attesa che sia la donna a parlare (v. La montagna)  o ancora dove si connatura davanti a lei come ad un istante tra nascita e morte, tra giorno e notte (v. L’impero delle luci) o infine quando come un aquilone  la porta spasso tra le nuvole e perfino quando con un senso di protezione si immedesima ad una finestra socchiusa per smorzare il caldo estivo sui corpi. Ma non c’è solo la natura, l’amore, la donna a fare da tramite verso il Trascendente, ma anche ciò che l’uomo riesce a creare dal suo spirito. E così la musica e la pittura entrano prepotentemente nella sua sfera poetica. Ma più che la composizione classica di un Bach o un Beethoven è la pittura a specchiare il mondo della sua parola chiamando a testimoni ora Chagall, Manet o Matisse. Ma è Magritte  il pittore più consono alla sua personalità e che lui richiama nell’ultima parola di “L’impero delle luci”. E questo perché si vede riflesso in lui come uomo-ombra e in quello che l’arista afferma: “ la realtà non è mai come si vede. La verità è soprattutto immaginazione”. Se ne ha conferma, senza richiamare le immagini della caverna di Platone, nel quadro del pittore surrealista, nell’uomo che si guarda allo specchio e sa che quello non è lui ma la sua immagine. E così Ignazio Balistreri scrive, ma quella che descrive non è la realtà ma quella che lui immagina. Il suo è un sogno e vede cose che non ci sono se non nella sua visione o nei dubbi delle sue certezze. “ Io non so/ se t’amo/ o t’ho amato… sono qui/ davanti a te/ come presente incosciente/…”. E’ realtà, sogno o immaginazione? E allora quale è la verità?. La verità è nell’attesa. I versi del Poeta sono sorgenti di pensiero, cascate di parole, che vanno giù e poi si frantumano in bolle che evaporano, che saltano per poi perdersi in un mare, il mare dell’Essenza. Come nei quadri di Magritte il pensiero puro a contatto con l’aria si decompone e quella che vediamo non è la realtà ma la verità. Perché noi, come afferma il Nostro, e qui lo ripetiamo, siamo delle gocce di pioggia in groppa al vento. La nostra vita è “ un treno appena transitato/ perso dal viaggiatore/..”e allora altro non resta che cercare un mezzo per arrivare lassù sull’Olimpo. Un viaggio che non si può compiere da soli, ma con l’amore e attraverso l’amore per la compagna della vita, da amare con slancio, con devozione fino all’estasi. Eccoci dunque ritornati al tema dell’amore, della vita. Pagine già scritte che non abbiamo ancora letto (afferma l’Autore), ma il presente c’è. Ed è un presente di fuoco, di pioggia, di onde che trovano riposo sulla spiaggia dopo un lungo viaggio. Eccoci tornati al riposo, alla pace che anela. L’ultima carezza il Poeta la riserva alla Terra. L’unica cosa certa, inamovibile, anche lei in attesa. Ma Ignazio Balistreri ha la sua riva. Sa che è lì e che l’attende e lui del canto del mare le porta le più soavi melodie, non sapendo ancora, né lo saprà mai, se il suo amore è solo preda o predatore, ancora un’attesa. Il suo canto d’amore, asse attorno a cui ruota come una giostra la vita, sta rinchiuso in una stupenda lirica il cui titolo è anche il primo verso: “Ti porto”. E cosa c’è di più dolce del canto delle cicale d’estate, del lento fluire di un fiume dove scorrono le barche degli amanti, della luna che imposta “malinconia per un vassoio di baci” e della notte che si fa maestra?. Definire a questo punto la poesia di Balistreri, come preannunciato in altra parte, non è facile e per la poliedricità degli argomenti e  per la spezzettatura delle immagini guarnite da metafore inaudite. E così come in un quadro di Magritte dove le immagini sono scomposte e surreali, così i versi di Balistreri sono riconducibili  verso un abisso di sensazioni che s’innalzano col verso successivo fino a toccare quello che gli sta davanti e a sfidarlo: l’infinito. Infinito che non è la compiutezza di un discorso, la linearità di un approccio etico o filosofico, ma l’immagine del giorno che non è giorno ma nemmeno notte e quindi impossibile da percepire. Eppure tutto ciò affascina perché la poesia del poeta asprense si ammanta di mistero perché sfugge quando sembra a portata di mano e il suo pensiero che pensiamo di avere carpito senza alcun dubbio, risultare inafferrabile, eppure vivo. E’ lì. Basta rileggerlo per assaporarne il significato, il fine, la distanza che lo separa dalla rivelazione finale. Una distanza che lascia tutto a mezz’aria, senza ricadute quando, come lui dice, resta assorto tra l’orizzonte e il sogno. Un orizzonte che appare come una certezza perché sta lì a portata di vista, ma inafferrabile perché l’orizzonte non è mai quello che vediamo( una visione dal sapore magrittiano) ma si sposta man mano che lo avviciniamo mentre il sogno resta al di là della sua linea. Per tutto questo, per quello che il Poeta dice senza scriverlo, ma che lascia intravedere, Ignazio Balistreri è un poeta che segna una via, apre una porta. La sua comunque non è poesia assimilabile alla linea ermetica ma poesia che va oltre e pertanto possiamo definirlo come il poeta della parola non scritta eppure visibile. Il volume “La Giostra” quindi altro non è che un mezzo, un tramite come fosse un ponte che partendo dalla sponda dell’immanente conduce, come la scalata di una montagna sacra, al trascendente. Potremmo definire Ignazio Balistreri, per la rottura di tutti gli schemi del classicismo, per l’assenza del reticolo di leggi metriche e per le immagini-flash che infiorano le sue poesie, come un neo futurista-romantico. Un ossimoro certo, ma questo è il poeta.  Un poeta che, ne siamo certi, ha ancora tanto da dire.

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