“Città che invecchiano bene” di Ciro Lomonte

L’anima di un essere umano è la forma sostanziale del suo corpo. Se l’anima viene costantemente, pazientemente, accuratamente formata nel corso degli anni, il corpo invecchia bene, a volte diventa addirittura più bello nella vecchiaia. Qualcosa del genere si può dire, mutatis mutandis, di quelle città che hanno un’anima, un’identità, un volto. Invecchiando migliorano, come il buon vino.

È una delle riflessioni che nascono leggendo l’ultimo libro di Cesare Capitti, La Città disumanizzata. Rigenerare l’umanità nel mondo angosciato dalla pandemia e dalle guerre. Anche dell’autore, architetto, già Dirigente dell’Assessorato del Territorio e dell’Ambiente della Regione Siciliana, si può dire che invecchiando migliora. Da quando è andato in pensione si è impegnato caparbiamente a diffondere il desiderio di una città a misura d’uomo. Quella che ci presenta in vario modo è la parabola storica dell’arte di costruire le città. Non la soluzione perfettamente equilibrata della statica grafica, tanto amata da Antoni Gaudí, bensì l’evoluzione originaria, plurimillemaria, e l’involuzione recente, accelerata, nella ricerca della bellezza e della vivibilità tipica in modo eminente delle aree urbanizzate, definite centro storico dal 1960 in poi, dal primo Congresso di Gubbio. Potremmo rendere la parabola una sinusoide e rilanciare la ricerca della bellezza, senza ingenuità, perché la sfida è ardua.

In senso stretto è difficile parlare di bellezza della città al tempo dei greci e dei romani. Agli occhi di quelle grandiose civiltà erano importanti l’agorà ed il foro, non le case, perché gli esseri umani erano considerati individui. L’individuo può essere sacrificato alla specie. È dal 325 d.C. in poi, dal primo Concilio di Nicea, che si sviluppa il concetto di persona, individuo irripetibile in quanto dotato di un’anima razionale che si relaziona con la realtà, degno di rispetto di per sé. È da lì che si sprigiona lo splendore delle città medievali, ricche di relazioni della comunità delle persone con la natura e delle persone l’una con l’altra.

Anche le città rinascimentali sono meravigliose, ma sono frutto di un principio di razionalismo che avrà conseguenze nefaste al tempo della Rivoluzione Industriale e con il dilagare del fenomeno dell’urbanesimo. È da quel razionalismo chiuso in sé stesso e nelle proprie granitiche convinzioni che nascono, per esempio, i progetti di Le Corbusier per una città da 3 milioni di abitanti e il Plan Voisin. È da lì che salta fuori la Carta d’Atene, che tante conseguenze avrà sul disegno delle città contemporanee. Non sono elaborazioni neutre, sono frutto del modernismo e della gnosi spuria, sono legate ad una visione distorta dell’uomo che non poteva far altro che produrre una città disumanizzata. Ecco perché Capitti, nei libri precedenti, fa appello alla Dottrina Sociale della Chiesa. Oltre alle questioni squisitamente tecniche, infatti, ci sono quelle antropologiche e quelle morali.

Esiste una relazione biunivoca fra la qualità delle città e la civiltà degli abitanti. Non è meccanica, né pavloviana, perché l’uomo è un essere libero, ma esiste. Basta esaminare le periferie degradate presenti in tante città italiane e siciliane, progettate da fior di professori di Architettura. Basta guardare al meritorio processo di trasformazione delle banlieues in Francia, per esempio a Le Plessis-Robinson. Il libro di Capitti fa cenno anche al covid, ma ci porterebbe lontano riflettere su come le persone si siano incattivite dopo il 2020. C’è maggiore diffidenza nei confronti del prossimo. Quanto questo sia collegato all’incremento di malori e morti improvvise da un lato ed alla recrudescenza di delitti senza motivo dall’altro meriterebbe uno studio a parte. Di sicuro lo scenario di questi fenomeni e delle irresponsabili guerre scatenate negli ultimi anni è sempre la città.

Ci sono tanti film che spingono ad ulteriori riflessioni sull’argomento. Qui citiamo “The Old Oak”, opera del 2023 di Ken Loach, che descrive le tensioni generate nella città di Durham, immalinconita dalla chiusura delle miniere ai tempi della Lady di Ferro, dopo l’arrivo di profughi siriani, fuggiti dalla terribile guerra scatenata dall’esterno nel loro Paese. In fondo alcuni degli abitanti, anche se imbarbariti da forme di razzismo irrazionale, stanno cercando di proteggere l’identità dei propri quartieri. Reazione che non si registra invece mentre la speculazione edilizia produce città senza volto, tutte uguali in ogni angolo del pianeta. Città senza piazze, possiamo ben dire, per esseri umani straniati, disorientati, omologati. Cittadini spiazzati.

C’è poi il fenomeno dell’overtourism, del turismo di massa che espropria gli abitanti della propria stessa città, che trasforma i centri storici in malinconiche Disneyland per il consumo di emozioni. Cos’altro può provocare se non una profonda tristezza osservare sequenze urbane fatte originariamente di case umili, palazzi, chiese, negozi e botteghe artigianali, rese banalmente fondali per i selfie di turisti mutandari? I quali alloggiano in B&B sottratti ai residenti, che non possono più comprare un appartamento a prezzi ragionevoli.

Nel frattempo alcuni studiosi lungimiranti provano ad elaborare soluzioni aggiornate. C’è chi lavora alla cosiddetta genetic architecture (molto visionaria, disegnata prendendo a modello l’anatomia umana). C’è chi, con basi più sapienziali, lavora alle reti neuronali e ai codici del Mediterraneo, come gli esperti della Società Internazionale di Biourbanistica, con base ad Artena. È possibile progettare città a misura d’uomo, per milioni di abitanti oppure per piccole comunità, in piccoli borghi, favorendo per esempio il ritorno dei giovani alla campagna. Dopo la rivoluzione informatica è possibile anche questo.

Perché allora non cominciare dalla Sicilia, con una legge di pianificazione avveniristica? Perché non fare invecchiare bene lo Statuto Siciliano, al servizio di città che invecchiano bene?

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