COSPIRANDO IN GRAN SEGRETO – Compendio al testo storico “Sui moti carbonari del 1820 ’21 in Italia” di Giovanni Teresi
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- Creato: 16 Marzo 2019
- Scritto da Giovanni Teresi
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COSPIRANDO IN GRAN SEGRETO
Le società segrete italiane che cospiravano contro l’ordine
istituzionale e politico della restaurazione post-viennese,
si dividevano sostanzialmente in due grandi «correnti»
cui si rifaceva tutta la miriade di società segrete della
penisola: le organizzazioni che facevano capo ai «Sublimi
maestri perfetti» di Filippo Buonarroti – egemoni al Nord
e in particolare in Piemonte e Lombardia – e la Carboneria
– estremamente radicata nel centro-sud, in particolare
nell’area napoletana.
Nei primi anni della restaurazione, la messa al bando
della massoneria aveva accelerato la formazione delle
società segrete, composte in particolar modo da militari
e ufficiali. Tra queste, avevano avuto un rapido sviluppo
l’«Adelfia» e l’«Ordine Guelfo»: la prima – radicata soprattutto
in Piemonte – raccoglieva adesioni in particolar modo
tra le fila dell’esercito e nelle principali città, la seconda
– più omogeneamente diffusa nelle regioni del nord, ma
numericamente meno consistente – era stata fondata
da un ex ufficiale napoleonico ed era composta quasi
esclusivamente da massoni. Entrambe queste società, di
tendenze democratiche e repubblicane, erano collegate
all’organizzazione ginevrina di Filippo Buonarroti (il «Gran
Firmamento») e, quando questi procedette alla riorganizzazione
delle sette che a lui si rifacevano, si fusero nel
1818 dando vita ai «Sublimi maestri perfetti», lo strumento
che, nelle intenzioni del Buonarroti, doveva servire a
dirigere e coordinare tutte le sette. Successivamente, nel
1820 i «Sublimi maestri perfetti» fondarono un’economia
subordinata (così venivano chiamate le strutture organizzative),
la «Federazione italiana». Formata da nobili e
borghesi d’ispirazione antiaustriaca, da giovani ufficiali,
presente in Lombardia e Piemonte e diretta dal Confalonieri,
la Federazione poteva vantare un grande influsso
sul gruppo della rivista Il Conciliatore. Sempre legato alle
attività di Buonarroti era il gruppo «Costituzione latina»
attivo, dal 1818, nei possedimenti pontifici dell’Italia centrale
e sorto dalla fusione della locale Carboneria con la
setta «Società guelfa».
Lo schema organizzativo delle sette collegate ai «Sublimi
maestri perfetti» si sviluppava su tre livelli di iniziazione,
nettamente separati tra loro, ognuno con la propria
struttura interna e simboli. Il grado inferiore era quello
dei «maestri perfetti» che prestavano giuramento alla
fraternità e all’eguaglianza. Il livello intermedio, quello dei
«sublimi eletti» era composto da adepti che avevano la
responsabilità di controllare il grado inferiore e di tenere
i collegamenti tra la base e il vertice della piramide: essi
s’impegnavano a lottare per la costituzione repubblicana
fondata sulla sovranità popolare. In cima alla gerarchia
c’era il grado più elevato, quello dei «diaconi mobili», un
gruppo estremamente ristretto collegato direttamente
con il «Gran Firmamento» di Ginevra (cioè con lo stesso
Buonarroti): giuravano di perseguire l’abolizione della
proprietà privata e la comunanza completa di beni e di
lavoro. Questa struttura clandestina, estremamente rigida,
era perfettamente coerente con il programma politico
del Buonarroti che si rifaceva al più stretto spirito giacobino:
creare una repubblica unitaria sotto la dittatura
rivoluzionaria di una ristretta elite (i «diaconi mobili») che
dovevano risvegliare le masse popolari dal loro sonno e
prepararle all’obiettivo finale, la società di tipo comunistico,
nella scia della cultura politica che aveva caratterizzato
l’ala sinistra della Rivoluzione francese dell’89, di cui Buonarroti
era stato uno dei massimi esponenti (con Babeuf
era stato tra i dirigenti della fallita «congiura degli uguali»,
dopo il Termidoro, nel 1796). Nei fatti, però, il profondo
mistero che circondava i gradi più alti della piramide del
Buonarroti, limitò molto la diffusione del suo programma.
In Italia, poi, le circostanze politiche portarono i massimi
dirigenti dell’organizzazione a limitare il proprio orizzonte
programmatico alla guerra antiaustriaca e a proporre la
creazione di un regno costituzionale nel nord del paese.
La gran parte dei «federati» ignorava il programma repubblicano
e comunistico del Buonarroti e si limitava a
dividersi tra le due ipotesi costituzionali allora più diffuse,
la moderata Charte francese e la più democratica costituzione
spagnola del 1812, mentre venivano lasciate alla discrezione
e all’iniziativa dei gradi superiori le modalità che
doveva assumere l’attività delle sette. Spettava ai «sublimi
maestri» la decisione sul se e quando dirigere le insurrezioni
in senso democratico, come recitavano le istruzioni
impartite nel luglio 1820: «Nel caso circostanze favorevoli
portassero una rivoluzione, i presidenti delle riunioni
devono adoperarsi perché cada in mano a loro stessi o a
individui da loro dipendenti la direzione della medesima».
Meno articolata era l’organizzazione della Carboneria, che
egemonizzava le società segrete nell’Italia meridionale. Di
origini francesi, si diffuse nel sud del paese a partire dal
1806 e fino alle fallite rivoluzioni del 1820-21 fu l’organizzazione
segreta più numerosa a diffusa. I suoi membri
(chiamati «buoni cugini») si riunivano in sezioni, le «Vendite
», spesso assolutamente autonome l’una dall’altra.
Anche nella Carboneria abbondavano i rituali e il culto
della segretezza, spesso mutuati dai riti massoni. La cerimonia
d’iniziazione del nuovo adepto, sempre presentato
da un membro della «Vendita», era ricca di suggestioni e
si svolgeva in un clima di misticismo laico in cui l’iniziato
metteva la sua vita a disposizione della causa comune e
nelle mani dei nuovi confratelli cui si legava in un vincolo
di solidarietà. Ecco uno dei rari esempi conosciuti del
testo di un giuramento carbonaro: «Io, prometto e giuro,
sugli statuti generali dell’ordine e su questo acciaio, stru-
mento vendicatore dello spergiuro, di mantenere scrupolosamente
il segreto della Carboneria; di non scrivere,
incidere, dipingere nulla che la riguardi senza prima aver
ottenuto un permesso scritto. Giuro di aiutare i miei buoni
cugini in caso di necessità nel limite delle mie forze, e di
non attentare mai all’onore delle loro famiglie. Consento
e voglio, se vengo meno al giuramento, che il mio corpo
sia fatto in pezzi, bruciato, e le ceneri sparse al vento,
perché il mio nome sia oggetto di esecrazione dei buoni
cugini di tutta la terra. Che Dio mi assista».
Gli obiettivi della Carboneria erano altrettanto elastici
quanto quelli delle sette affiliate ai «Sublimi maestri perfetti
» del Buonarroti. Essa si era sviluppata rapidamente
nei primi anni del XIX° secolo nella lotta contro Murat, re
di Napoli ed era l’espressione dell’emergente borghesia
delle province napoletane che mal tollerava le strutture
feudali del regno di Napoli e, contemporaneamente,
aveva una forte sfiducia verso l’amministrazione di tipo
francese importata in Italia da Napoleone. Il ritorno dei
Borbone sul trono delle Due Sicilie non aveva risolto le
contraddizioni materiali alla base dell’esistenza della setta.
Il regime di polizia instaurato da Ferdinando I, aveva
anzi provocato un’ulteriore diffusione della Carboneria
che era molto diffusa tra i piccoli proprietari, i professionisti,
i mercanti, gli artigiani, il basso clero e – soprattutto
– nell’esercito tra gli ufficiali di grado inferiore. In contatto
con il brigantaggio, in alcune zone, godeva anche del
favore dei settori contadini oppressi dal latifondismo, che
speravano di veder soddisfatte le loro richieste di terra.
Il programma politico della Carboneria (anche di quella
più radicata e consolidata come quella napoletana) era
ancor più vago di quello delle società segrete del nord Italia.
La costituzione era comunemente considerata l’unico
mezzo per contrastare l’assolutismo borbonico e, quindi,
diventava il principale obiettivo da perseguire. In tal senso
la Costituzione spagnola del 1812 diventava il punto di riferimento
più diffuso, anche se non mancavano «Vendite»
più moderate che preferivano la Charte francese. Questa
articolazione di opinioni era resa possibile anche dall’assenza
di una direzione centrale (neppure del tipo molto
mediato dai gradi gerarchici che caratterizzava le organizzazioni
buonarrotiane). Quest’eterogeneità emerse
chiaramente durante la rivoluzione napoletana del 1820-
21: dopo i successi iniziali i carbonari si divisero presto tra
democratici e moderati, portando ben presto alla paralisi
il nuovo assetto istituzionale.
Diventata un’organizzazione pubblica dopo la rivolta del
luglio 1820, la Carboneria crebbe enormemente dal punto
di vista numerico, ma iniziò un percorso di divisione
lacerante che finiva per confermare il giudizio sulle sette
dato dal cancelliere austriaco Metternich qualche anno
prima: «Divisi tra di loro per quanto riguarda le opinioni
e i principi, i seguaci di queste sette si denunciano reciprocamente
ogni giorno e sarebbero pronti domani ad
armarsi gli uni contro gli altri». I carbonari napoletani non
giunsero a tanto, tuttavia essi non seppero trovare un
livello d’unità d’azione nemmeno di fronte al pericolo
costante di un intervento militare austriaco. Essi non operarono
nemmeno alcun serio tentativo di allargamento
della rivoluzione agli altri stati italiani e solo con le truppe
austriache ormai in marcia lanciarono un appello – che
cadde nel vuoto – alle altre sette d’Italia. Essi erano anche
intimamente convinti che le grandi potenze non sarebbero
intervenute se la rivoluzione fosse stata circoscritta
alle province dell’Italia meridionale, dimostrando così
una scarsa comprensione della politica internazionale
e affidandosi al giuramento di fedeltà prestato alla costituzione
da Ferdinando I, che, invece, prontamente lo
tradì. I carbonari napoletani, con mentalità prettamente
illuministica, pensavano che per un re un giuramento
fosse altrettanto sacro e inviolabile quanto lo era per loro:
sbagliarono, palesando tutti i limiti di una cultura cui l’enfasi
dei toni cospirativi s’accompagnava alla genericità di
obiettivi e al volontarismo dell’azione politica.
Giovanni Teresi
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