Daita Martinez, “Liturgia dell’acqua” (Ed. Anterem) - di Ester Monachino

Spicca per la sua singolarità l’ultimo volume di versi di Daita Martinez “Liturgia dell’acqua” edito con i tipi di Anterem Edizioni e prefatto da Maria Grazia Calandrone: una struttura compositiva compatta, cubica si potrebbe dire, che sembra attingere sospensioni e stupori da un livello cosmogonico per lasciarci vedere, o intravvedere attraverso una ferita, feritoia e varco, come scaturisce l’acqua, la scioglievolezza, quel fluido che da alcuna cosa può essere trattenuto.
La pagina bidimensionale presenta composizioni quadrate, rettangolari che travalicano nell’immaginario tridimensionale in cubi e parallelepipedi perché non soltanto sono pelle esteriore ma dentro racchiudono sentire ed emozioni e tempi liricamente accesi. L’assenza totale di punteggiatura, che coadiuva alla compattezza,  consente un multiverso che è da considerarsi un multiuniverso, un caleidoscopio che il lettore assimila e fa suo secondo il proprio metro di lettura interiore. E’ come dire che ogni composizione rispecchia il molteplice nell’unità e nel frattale individuale risuona la coralità. Allora il canto in sordina o racchiuso tra valve segmentali si fa varco ed emerge con possanza singolare.
Non innesto, dunque, del vissuto quotidiano della Martinez sulla scrittura ma scaturigine della stessa dalla propria macerazione, dal succo del sé in nudità animica senza alcuna incrostazione.
E’ così che si leggono campi e fioriture appartenenti al dominio di una natura mobilissima, libera da recinti, che non si nasconde, che si fa dono di se stessa.
Ci stupiamo, pertanto, per gli alberi di ciliegio che emanano la loro essenza in pieno inverno (vedi pag.11), l’incantesimo che dettano con la loro cantilena (pag. 51), il “nido sulla schiena...l’aurora tra le dita” (pag. 12); e ancora l’infanzia, certamente dell’anima atemporale, per cui ci si può “scaldare i fiocchi delle fiabe” (pag. 18), giocare a farfalle (pag. 14), a cardellini sotto i portici (pag. 25), “ninnare dalla tenerezza di Dio” (pag.29).
Nel discorso poetico della Martinez il nome, più che “da indossare” come scrive a pag. 15, è da “inossare”, una parola poetica che ha dimora fin nelle ossa.
In due composizioni si riscontra una ripetizione-anafora, una litanica disposizione che accentua il discorso, l’immagine poetica.
A pag 35 leggiamo “non ancora” ripetuto ben nove volte e a pag. 39 “s’arrampica” ripetuto cinque volte. Di certo non vogliono essere parole di disseminazione ma accentuazione di identità contenutistica.
Il “non ancora” ci introduce in una sospensione temporale che non è apnea, non è istante oppositivo, ma che fa da momento introduttivo al “s’arrampica” dove la visionarietà diventa verticale, svettante, ariosa.
In alcune composizioni fanno capolino, in un contesto di naturalezza, parole dialettali che, non dimentichiamolo, sono sangue e nome di Daita, suo respiro imprescindibile.
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