Elite e Distinzione/ 15 - Carmelo Muscato

Il termine “aristocrazia” sopravvive nel mondo moderno come cimelio di un mondo che ormai non è più, mentre nel mondo premoderno o tradizionale esso costituiva un concetto centrale tanto nella organizzazione sociale che nella riflessione politica.

Secondo la classica divisione dei regimi costituzionali delineata da Platone nel Politico, poi ripresa da Aristotele, da Cicerone e altri ancora, ci sono tre forme di governo sane: monarchia, aristocrazia e democrazia, a seconda che il governo sia retto da uno, da pochi o da molti. Queste tre forme di governo, degenerando, danno luogo a tre forme deteriori di regimi: tirannide e oligarchia le prime due, un regime variamente denominato la terza. Tra parentesi in Platone, Aristotele e anche oltre il termine democrazia tende a indicare più la forma degenerata del governo dei molti che quella sana, ma questo, che pure è un aspetto importante, riguarda altro un discorso.

Come è facile notare nell’orizzonte politico moderno sopravvivono i termini di questa antica classificazione ad eccezione appunto del termine aristocrazia. Per descrivere gli attuali regimi costituzionali possiamo servirci del concetto di democrazia ma anche di quello di monarchia o tirannide, magari con il sinonimo di dittatura, così come del concetto di oligarchia. Certo, è mutata la logica della classificazione platonica, per cui per esempio le monarchie europee sono anche delle forme di democrazia. Ma i termini permangono, ad eccezione appunto del termine aristocrazia.

Che cosa è accaduto con la rivoluzione moderna che ha messo in soffitta il termine aristocrazia? Innanzitutto possiamo osservare che, avendo la borghesia scalzato l’aristocrazia, ora l’articolazione sociale è tutta all’interno di quello che era il “terzo stato”. Per comprendere il significato di questa sostituzione sul piano sociale, e quindi politico, possiamo passare dal mutamento osservabile nella realtà esterna al più intimo mutamento concettuale. Riflettendo sull’etimo del termine aristocrazia, come è a tutti noto, oi aristoi in greco significa i migliori. Messa da parte la reazione negativa che tale significato suscita nella mentalità egualitaristica moderna, possiamo notare che nella riflessione platonica è determinante il riferimento al Bene. “Migliore” è superlativo di “buono” e i guardiani della kallipolis sono i migliori perché guardano al Bene. Ora chiediamoci: perché aristocrazia è diventato un termine in disuso? Perché il problema del Bene in età moderna è stato rimosso. Se i guardiani in Platone sono gli aristoi perché guardano al Bene, ora borghesia e proletariato sul versante sociale, monarchia, democrazia o oligarchia sul quello politico, possono sussistere senza alcun riferimento al Bene.

Ciò in quanto si è ritenuto che il Bene al singolare, cioè l’idea metafisica e dunque filosoficamente più problematica, potesse essere agevolmente sostituito dai beni al plurale, siano essi beni materiali e oggettivi, o siano beni psicologici, il benessere soggettivo. Ma è veramente possibile occuparsi dei beni o del benessere contingente, aggirando l’ardua questione del Bene metafisico? In realtà ciò non è che un’illusione. Che cosa sono i beni contingenti, quelli che non pretendono di costituire un bene assoluto ma che hanno comunque il vantaggio di essere misurabili, facilmente individuabili e agevolmente trattati dal punto di vista razionale? Sono stati di essere considerati buoni non in sé ma in vista di qualcos’altro, quindi qualcosa che parla non del Bene assoluto ma del bene relativo. L’abbaglio consiste nel non accorgersi che anche i beni relativi e contingenti in realtà rimandano al Bene in sé e lo presuppongono in maniera imprescindibile, anche se non immediatamente evidente. Come il mezzo inevitabilmente presuppone il fine, qualcosa può essere considerato un bene relativo solo in quanto, anche indirettamente è collegato al Bene in sé. Posso considerare un bene laurearmi anche se la laurea in sé non è un Bene, in quanto la laurea può costituire un mezzo in vista di un fine, per esempio ottenere un lavoro o realizzare una carriera. E quest’ultimo stato a sua volta può anche non essere un bene assoluto ma un bene contingente, in quanto è anch’esso un mezzo in vista di uno stato successivo considerato fine, e così via. Tuttavia questo modo di considerare i beni relativi può funzionare solo in quanto ammettiamo, consapevolmente o meno, che alla fine della catena, non importa quanti numerosi siano gli anelli, risieda qualcosa che è il Bene in sé, ossia qualcosa che sia fine ultimo e non solo un fine in vista di un fine ulteriore. Quello che Aristotele spiega così: “Se poi vi è un fine delle nostre azioni che noi vogliamo di per se stesso, mentre gli altri li vogliamo solo in vista di quello, e non desideriamo ogni cosa in vista di un’altra cosa singola (così infatti si andrebbe all’infinito, cosicché la nostra tendenza sarebbe vuota e inutile), in tal caso è chiaro che questo dev’essere il bene e il bene supremo”[1].

Da questo punto di vista, nonostante possa sembrare invecchiato e inutile, il concetto di aristocrazia ha una validità sempre attuale: infatti l’idea metafisica di Bene è, e non può non essere, un’idea imprescindibile. Solo una sciagurata inconsapevolezza può farci credere che non sia così. Sempre facciamo riferimento al Bene, anche se non ce ne accorgiamo. Possiamo considerare una significativa questione dei nostri giorni che tanto ha fatto e continua a far discutere: la legge emanata dall’attuale governo, chiamata “la buona scuola”. Possiamo mettere da parte ogni discussione e immaginare Socrate che con la sua ironia così si rivolga a chi ha fatto la legge:“oh divino Renzi, devi essere davvero un conoscitore del Bene per essere riuscito a individuare quale sia la buona scuola!”. Solo la superficialità può farci credere che sia possibile riconoscere la buona scuola dalla cattiva scuola anche senza aver affrontato il problema del Bene. E così, ancora, nella scuola come in altri ambiti della società, si discute molto di meritocrazia, illudendosi che si possano individuare i meriti, senza essersi preoccupati di sapere cosa sia il Bene.

Allora, nonostante sia caduto in disuso, il concetto di aristocrazia ha una validità sempre attuale, come sempre imprescindibile è il Bene che esso richiama. Ecco perché l’organizzazione socio-politica nel mondo tradizionale è comunque sempre una forma di aristocrazia: anche laddove c’è un re siamo sempre in presenza di un assetto che trova la sua centralità nell’aristocrazia, non tanto per la sua preminenza intesa in senso stretto come classe sociale, ma per il significato più ampio e più profondo del concetto. Non a caso, a parte la classificazione del Politico, la kallipolis, ossia la polis ideale, delineata nella Repubblica platonica è una polis aristocratica, nel senso che l’ottima costituzione – quella da cui per graduale decadimento sorgeranno rispettivamente: timocrazia, oligarchia, democrazia e tirannide – è la costituzione aristocratica.

Da questo punto di vista non c’è contrapposizione tra monarchia e aristocrazia. Anche il termine “re”, che dal latino rex rimanda alla radice indeuropea (da cui il sanscrito “raja” e il tedesco “reich”), indica ‘il punto raggiunto in linea retta’. “Re” nel suo significato originario, non è tanto il detentore del potere, ma colui che conosce ciò che è retto, la linea retta, la via da seguire. Come ricorda Benveniste, il rex indoeuropeo è molto più religioso che politico. Il suo compito non è di comandare ma di fissare le regole, di determinare ciò che è in senso proprio ‘retto’. Ossia il Bene.

 

[1] Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1094a.

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