Gianni Rodari fra incanto sempreverde delle “Filastrocche” e anticonformismo giocoso della narrativa - di Maria Nivea Zagarella

Rileggere le filastrocche di Gianni Rodari a cento anni dalla sua nascita (23 ottobre 1920) significa continuare a “liberare” la fantasia e la speranza verso una società migliore, come voleva lui negli anni ‘50/’70 del Novecento, quando avvertiva adulti e bambini che lo scarto rispetto alle ciclicità della Natura (le quattro stagioni, i 12 mesi…) sta nelle scelte degli uomini: anche quest’anno/ sarà come gli uomini lo faranno” (L’anno nuovo). Nato a Omegna sul lago d’Orta, maestro dal 1937, comunista dal 1944 senza sclerotizzazioni ideologiche, aperto all’utopia, che voleva trasferita dal mondo dell’intelligenza a quello della volontà, Rodari ha innovato la didattica e la letteratura per l’infanzia valorizzando la creatività infantile, l’estrema libertà espressiva, e la forza dell’immaginazione quale filtro leggero e serio, divertente e divertito, tra la realtà e il pensiero. Non una scuola dove si deve stare attenti e ricordare e basta, ma una scuola/vita dove dal primo giorno ogni scolaretto con penna e matita corre a scrivere la propria vita: Scrivi bene, senza fretta/ ogni giorno una paginetta./ Scrivi parole dritte e chiare:/ amare, lottare, lavorare, consapevoli tutti -almeno così dovrebbe essere- che in fondo al calamaio dell’inesauribile esperienza/sapere c’è un tesoro nascosto/ e chi lo pesca/ scriverà parole d’oro/ col più nero inchiostro. Passato e presente, tradizione poetica e contemporaneità si fondono e si integrano nell’originale, e sempre più estroso negli anni, e profondamente etico, laboratorio creativo delle Filastrocche di Rodari, che dalle prime raccolte alle più tarde e postume, attraverso l’allegro gioco linguistico e il fertile fiorire di immagini sempre nuove e insolite, scandiscono sogni della fantasia, come ne “Il gatto inverno” fra stupore visivo e incanto realistico (con le zampe di neve imbianca il suolo/ e per coda ha un ghiacciuolo..), ma anche difficoltà contraddizioni speranze degli anni dal dopoguerra all’ineguale boom del benessere. In “Prime fiabe e filastrocche” l’alberetto di Natale dei poveri è solo sognato o disegnato sui vetri ghiacciati della finestra e si cancella con un dito, e la lettera alla Befana la invita a prendere non il treno diretto che salta tante stazioni dove invano aspettano bimbi buoni, ma un accelerato così da potersi fermare alle case dei poveretti con tanti doni e tanti confetti. E gli odori sani dei mestieri (mentre i fannulloni non sanno di nulla, anzi puzzano un po’), i problemi del bilancio familiare (che è la quotidiana scuola dei grandi), i capelli bianchi del muratore, del vecchio maestro, del nonnino contafiabe ai nipotini accompagnano le trasformazioni di una società in cerca allora (e tuttora) di democrazia “reale”, e dai confini che si fanno sempre più ampi, planetari. Nella filastrocca “Il Turno” ad ogni mattino il sole apre sulla Terra, a turno, le scuole da Oriente a Occidente e i gessetti cantano sulle lavagne nere le parole più bianche di tutte le lingue, e in quella dal titolo Tanti saluti dai fiumi, il mare cancella i nomi dei fiumi più famosi delle varie nazioni e continenti, facendone solo un mare dove i delfini vanno a giocare. L’avara formica della favola antica non piace a Rodari che le preferisce la cicala che il più bel canto non vende, regala, e della prima si augura la “rivoluzione“ della generosità: Ho visto una formica in un giorno freddo e triste/ donare alla cicala/ metà delle sue provviste. Inoltre è per lui un Natale “tutto sbagliato” (vedi “Un abete tutto speciale”) quello in cui anche un solo bimbo nel mondo resta senza niente…[e] piangere non si sente, e ben triste gli appare la Napoli senza sole della Filastrocca del Pallonetto con i suoi vicoli storti, stretti, senza cielo e senza mare/ senza canzoni da cantare. Non mancano nei suoi versi neppure l’emigrante con la sua valigia povera (un vestito, un pane, un frutto) e il cuore rimasto, fedele come cane, nella terra che non [gli] da il pane, o il senzatetto che ogni sera si rifugia nella sala d’aspetto della stazione: di una panca si contenta/ tra due fagotti si addormenta. E ancora, la denuncia esplicita delle ingiustizie sociali, che vanno contro le leggi di natura, dato che il cielo è di tutti gli occhi…e non c’è povero tanto povero/ che non ne sia il padrone, e l’ironia irridente sugli sprechi arbitrari e i capricci assurdi dei bravi signori, che buttano le castagne e mangiano i ricci, buttano i pinoli e mangiano le pigne, insomma buttano via la vita e mangiano solo la buccia. Molte filastrocche sono gioia pura di immagini e liete sonorità: ll pulcino Marziano, Filastrocca di Capodanno, Il treno dei bambini, Il naso di Pinocchio, Un tale di Macerata, La casa di gelato, Il giornale dei Gatti, Filastrocca di Carnevale… e deliziose scorrono certe variazioni sulla Primavera e l’Autunno. Deliziose per mimetica ingenuità infantile e freschezza di immagini, come il gatto che gioca con le foglie/farfalle secche, rosse e gialle, saltando e contendendole alla scopa; o la sera di primavera che ritarda a venire distratta dal profumo delle prime viole, da un cespuglio di gaggia, dal tamburo di latta di due bimbi; o le margherite appena nate e gli esercizi musicali, fuori della finestra della scuola, degli uccelli che suonano solo strumenti naturali, che attraggono lo scolaretto (Autunno, Filastrocca marzolina, Signora maestra). Altri testi sono lievitati, fra tenero ammonimento e sorriso, di ironia anti-guerra, anti-avidità di denaro, anti-aridità spirituale: Re Federico, rimasto senza nemico, per la disperazione butta la corona e va in pensione; i due componimenti “Sulla Luna” e “La luna bambina” invitano a non dare la luna a un generale (ne farebbe una caserma o una pallottola), a un banchiere (la chiuderebbe in cassaforte per mostrarla a pagamento), a un avaro (la nasconderebbe in banca), a un ministro (riempirebbe di scartoffie i lunatici crateri), a un calciatore (vorrebbe una paga lunare/ ogni calcio un trilione). Bisogna darla invece ai poeti sognatori che sanno sperare “l’impossibile” anche quando sono disperati, e ai bambini che con la luna ippogrifo, reggendole le briglie, faranno il giro del cielo/ a caccia di meraviglie.

     Quelli del dopoguerra e della seconda meta del ‘900 erano gli anni dell’urbanizzazione (vedi in “Avviso” il bimbo solo senza amici sul quinto balcone con in mano un aquilone che volare non sa), delle imprese spaziali Usa/Urss, della paura/minacce di guerre fra i due blocchi, dei popoli in cammino del Terzo Mondo, e si moltiplicano perciò i versi ricchi di fantasie spaziali e interplanetarie: “La stazione spaziale”, con le astronavi che vanno e vengono dai vari pianeti del sistema solare; la “Befana spaziale”, che viaggia a cavallo di un razzo, “La distrazione interplanetaria” che accomuna gli scolaretti distratti di ogni angolo del firmamento, o il “Pianeta (compensativo per i bimbi che non ce li hanno) degli alberi di Natale”, stracarichi di doni e dove le vetrine con i giocattoli sono senza vetri e non si passa mica alla cassa; e accanto ad esse le filastrocche che tornano sul rifiuto della guerra, la richiesta della pace, il dramma della fame, l’immagine simbolo dell’Arcobaleno (Promemoria, Dall’uovo di Pasqua, Filastrocche delle parole, L’uomo di neve, Dopo la pioggia, L’arcobaleno, Il giorno più bello della storia). Le questioni sociali e la crescita morale stanno molto a cuore al maestro Rodari: scuola è il mondo intero -scrive- quanto è grosso:/ apri gli occhi e anche tu sarai promosso. A questo obiettivo “umano” puntano nei suoi testi la semplicità del linguaggio, le rime facili, il vezzo delle antitesi, gli agganci alla quotidianità spicciola, anche di quartiere, mescolati alle punte più estrose e fantasiose dell’inverosimile e dell’assurdo, o a ciò che sembra tale, come nella filastrocca “Il gatto e il topo” dove il gatto in carne ed ossa al topo “letterato” di biblioteca, vanitoso divoratore di gatti in figura (alias stampati), dice prima di mangiarlo: Rispetto le belle lettere…ma perché non ha studiato/ un pochino anche dal vero? E nel “vero” per Rodari rientra la ricerca, storica e esistenziale, del “Paese senza errori”: il tizio che cammina cammina e non lo trova, e sempre riparte, e l’autore osserva:…scusate però/ non era che meglio che si fermava in un posto qualunque e di tutti quegli errori ne correggeva un po’? Di errori da correggere sulla Terra ne restano ancora tanti -precisa in “Storia universale”- rimboccatevi le maniche, c’è lavoro per tutti quanti, e all’Utopia che deve farsi realtà (Un giorno tutti saremo felici) alludono la metamorfosi sociale del “Paese dei bugiardi” e la poesia “La Parola”. L’arrivo in “quel” paese di un povero ometto…che non diceva una parola che non fosse vera, diffonde, sebbene venga chiuso in manicomio e mostrato a pagamento nel giardino zoo-illogico dentro una gabbia di cemento armato, il bacillo infettivo della Verità  e la gente, che ormai diceva bianco al bianco, nero al nero, lo libererà eleggendolo presidente;  nella seconda, l’autore immagina che la parola “piangere” si troverà domani solo nei vecchi libri e i bambini andranno in fila a visitare il Museo delle lacrime di ieri (madri senza pane, vecchi senza fuoco, operai senza lavoro, negri frustati, bimbi scalzi, affamati, umiliati…), perché tutte quelle lacrime divenute fiume travolgente -spiegherà la maestra- lavarono la terra da continente a continente/, si abbatterono come cascata e la gioia fu conquistata. Alcuni testi rimandano e illustrano la “Grammatica della fantasia” (1973), trasformando in avventure giocose della fantasia gli errori (L’ago di Garda, Viaggio in Lamponia, Il museo degli errori, La bensina) o lezioni di punteggiatura, ortografia, morfologia, aritmetica, storia (Il caso di una parentesi, Tragedia di una virgola, La tragedia di un dieci, L’avventura dello zero, Per la colpa di un accento, Il punto interrogativo, La famiglia punto e virgola, B.P., Sospiri, Accento sulla A, Filastrocca corta e matta…), invogliando a creare “fiabe a rovescio” o nuove (Le storie nuove del tale di San Donà del Piave, Le favole a rovescio) e a inventare casuali binomi fantastici (vedi La pianta dei gatti) o nuovi termini, quale “slitigare” (Parole nuove). E qui siamo di nuovo oltre la didattica, in pieno impegno civile, come con “La testa del chiodo” (Anche il chiodo ha una testa, però non ci ragiona:/ la stessa cosa capita a più di una persona) o con il punto “dittatore, piccoletto/ superbioso e iracondo che si credeva un Punto-e-basta e non era che un Punto-a-capo, mentre il mondo continuava una riga più in basso. Così la parola “slitigare” dovrebbe servire per dividere i tipi litighini, trasformare i nemici in buoni vicini, e cancellare dal mondo (insieme con la gomma senza pietà), la guerra, la fame (Il giorno più bello della storia), l’intolleranza, come nel paese de “Gli uomini blu”, dove Giovannino Perdigiorno si ritrova legato, chiuso in gabbia e studiato da 12 professori e 200 studenti solo perché bianco (Ma guarda -gli dicono dopo- sei un uomo pure tu! Credevamo fossi un mostro/ perché non sei turchino). Cancellare l’errore insomma di una Terra divisa tutta a pezzetti (sic!).

     Quanto alla folta produzione narrativa di Rodari, vi risalta lo stesso inesauribile “brio” di novità e instancabile inventiva. Non solo nelle “storie” in sé, originali anche quando utilizzano spunti favolistici tradizionali, come in “Miss Universo dagli occhi color verde-venere” la favola di Cenerentola ambientata però fra una lavanderia a secco di Modena e una festa da ballo sul pianeta Venere, o nel romanzo breve “La gondola fantasma“ l’intreccio fantastico-avventuroso fra l’elemento esotico-piratesco, quello mercantile veneziano e le maschere della commedia dell’arte. Ma pure nei risvolti impensabili di singole immagini (la carovana di turisti americani che fanno gran rumore masticando chewing-gum, Ercole che lascia la clava nel portaombrelli, Cicerone con il cornetto acustico…) o nelle pieghe giocose, spesso demistificanti, del linguaggio (la Coppa dei campioni, la Coppa delle Coppe associate al Torneo notturno della Tolfa; il Gran Premio di Monza e di Gorgonzola; il Festival della Canzone di Busto Arsizio…) fino alla bagarre della pubblicità (la cera Blu che brilla di più; se non sono Mambretti non sembrano neanche spaghetti). Piacere del narrare, divertimento della lettura, ottica civile e impegno morale, bizzarrie fantastiche e riferimenti concreti di vita quotidiana si fondono in una narratività che fa dell’anticonformismo, dell’ironia, della gioia di essere e di vivere le sue cifre caratteristiche. Ne “La torta in cielo” (1966) al professore Zeta che vuole distruggere la “torta” millegusti, prova vistosa del fallimento del suo esperimento di un fungo atomico dirigibile, e morirvi dentro, il bimbo Paolo replica: Lei è pazzo professore, ma pensi come è bella la vita e come è dolce la torta. L’ironica invenzione della bomba trasformatasi per errori di calcolo in una gigantesca, volante, torta spaziale è una denuncia della follia nucleare, ed emblematico è il rovesciamento che la sapienza/buon senso infantile del decenne Paolo e della settenne Rita (alias il maestro Rodari) attua della trista scienza e delle azioni degli adulti, dal prof. Zeta agli scienziati ridicolmente antagonisti prof. Rossi e prof. Terenzio finiti in ospedale per attacco di panico, ai comandi militari, che schierano cannoni lanciafiamme carri armati razzi terra-terra contro il nemico/torta, che sulla collina prenderà nel sole del tramonto il colore di un budino alla fragola, per non parlare del suo interno: filoni di crema, panna montata, pasta mandorlata, pozzanghere di marmellata, gelato di pistacchio, pavimento di cioccolato… Le preziose sostanze che il prof. Zeta voleva risparmiare, rendendole riciclabili per colpire obiettivi diversi, Paolo le definisce apertamente velenose (avvelenando -dice- l’aria, avvelenando la pioggia, [distribuendo] dall’alto le principali malattie), osserva che si risparmierebbe di più se le bombe atomiche non si fabbricassero nemmeno, e si meraviglia che il prof. Zeta, pur avendo due bambini uno più bello e più caro dell’altro, fabbrichi bombe. Lo scienziato atomico si ricrederà quando tutti i bambini di Roma, radunatisi a migliaia grazie al moderno piffero magico del telefono e del passaparola, e guidati da Rita e dalla bimba Lucrezia dalla rossa (sic!) vestaglia, assalteranno la collina e mangeranno la torta. La visione di quelle migliaia di bambini e di mamme che merendavano beatamente all’ultima luce del giorno -annota il narratore- gli metteva le lacrime agli occhi. Nessun esperimento riuscito gli aveva dato la felicità che gli stava procurando quell’esperimento sbagliato. E’ proprio vero che qualche volta sbagliando si impara.(sic!). Dall’antiautoritario “Le avventure di Cipollino” (1951) all’inconsueto “C’era due volte il barone Lamberto” (1978), convinto che l’errore spesso non sta nelle parole ma nelle cose e che bisogna correggere i dettati certo, ma soprattutto il mondo, Rodari fanciullescamente scherzando e inventando ha consegnato, passo dopo passo, nel suo affabulare in prosa e in versi ai bambini (e agli adulti) di ieri e di oggi un messaggio fondamentale, sintetizzabile con le sue stesse parole: E’ difficile -diceva- fare le cose difficili: parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco. Bambini imparate a fare le cose difficili: dare la mano al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi. Perciò all’interno della sua “attualizzata” affabulazione, le tante altre “fiabe” e frasi spiazzanti che seminate qua e là, accanto a stilemi del vecchio narrare orale e popolare, travolgono allegramente schemi comportamentali e mentali del mondo “benpensante” o massificato o guerrafondaio. Se Giovannino Perdigiorno nei suoi “Viaggi” (1978) prende le distanze dagli uomini di zucchero senza sale in zucca, dagli uomini di sapone delle cui belle parole bolle di sapone non rimane niente, dagli uomini di gomma che hanno aria in testa e non pensano per niente, dagli uomini a vento che si voltano secondo il vento (mentre lui cammina controvento) o dalla gente timida dell’insulso paese del Ni, non meno espressive e dissacranti verso il Potere e le umane falsità e fatuità risultano tutte le varianti, al livello di personaggi e di battute, aggiunte al rifacimento della fiaba di Andersen “Il vestito nuovo dell’imperatore” divenuta breve pièce teatrale. Dalla satira sul risveglio dell’imperatore e della regina e sui loro primi atti, al paese d’origine (Merlopoli di Merlandia) dei due tessitori che sanno bene di fingere di cucire per gente da niente, al “monello impertinente” che smaschera la nudità delle due Maestà, sturando i tabù collettivi (Hanno scambiato -dice la folla- il balcone per la camera da letto./ O per il gabinetto). E mentre l’imperatore reclama il boia per quel bambino che ha detto la verità, un cortigiano invita il pubblico a nasconderlo e proteggerlo sì che quando sarà grande tornerà/ per mettere in fuga mille bugiardi/ con una sola verità. Che “crescere” è responsabilizzarsi verso i problemi della società lo ha capito Giovannino che fugge dal “pianeta fanciullo” i cui mini-cittadini non vogliono diventare grandi, bollandoli come fifoni. E nella stessa direzione guardano il rifiuto della guerra ne “Il tamburino magico” (1974): Rulla tamburo fino a scoppiare: questa guerra non s’ha da fare, e le disavventure/avventura di libertà delle marionette Arlecchino, Pulcinella, Colombina (in “Marionette in libertà”, 1974) della compagnia del dispotico e ubriacone don Fernando Malvasìa che soccorsi in extremis dalla gratitudine del merlo loro amico vanno infine nel paese di Libertà: una terra felice e onesta/ dove nessuno ha un filo in testa,/ una terra senza padroni/ né brutti né buoni./ Questa terra, se ancora non c’è/ la faremo io e te”. Questa la sottotraccia pedagogica anche de “Gli affari del signor Gatto” (1978), racconto lungo dove i topi rifiutano di farsi catturare e “inscatolare” dal Gatto commerciante, rovesciamento del rapporto esistente nelle società industrializzate fra produttori/gatto che abbagliano con la propaganda e consumatori/topi che abboccano.

     La stessa sottotraccia corre lungo le “Novelle fatte a macchina” (1973) dove nello scanzonato mirino di Rodari non è solo la pervasività mediatica, pubblicitaria e consumistica. Vedi la signora Boll Boll che con i buoni-punto del grande concorso del brodo Bric sul pianeta Karpa vince la Torre di Pisa; i due giovani esperti pubblicitari, e in concorrenza, dott. Martinis e dott. Martonis, rispettivamente impegnati a piazzare l’aranciata Frinz! e l’aranciata Fronz! (si noti l’abituale sapido gioco con i nomi!); il figlio motociclista del commendatore Mambretti che sposa prima una moto rossa giapponese sempre più pretenziosa nella richiesta di trasformazioni, e poi la Miss Universo delle lavatrici. Pervasività che tocca l’acme nel surreale racconto “Il mondo in scatola” dove i vuoti a perdere di vetro, di latta, di plastica inseguono le macchine, entrano nelle case e nutrendosi di vuoto, per essere sempre più vuoti, ingrossano, come spiega il prof. Scatolini (sic!) docente di barattologia al politecnico, sì da inscatolare mobili, suppellettili varie, persone, perfino il Colosseo (la gente -leggiamo- impara rapidamente a entrare e uscire dalle bottiglie, dai vasetti della marmellata, dalle scatole dei surgelati… Ogni famiglia ha i suoi vuoti, ogni vuoto la sua famiglia). Sotto l’occhio critico e divertito di Rodari cadono pure i ritualismi fanatici del mondo dello sport, del calcio, della canzone (Il postino di Civitavecchia, I maghi dello stadio, La guerra dei poeti), piacevolmente caricaturati nei loro eccessi emotivi (sfinimenti di migliaia di tifosi), luccichio vanitoso di interviste e megacollegamenti radiotelevisivi (con nelle tribune ministri, arcivescovi, commercianti di pelli di coniglio, nobili decaduti, ladri in libertà provvisoria, laureati, calvi, mancini), trucchi sleali (il sonnifero propinato al postino eccezionale sollevatore di pesi; i superpoteri parapsicologi e condizionanti dei due allenatori rivali delle squadre del Barbarano e dell’Inghilprussia), il vaniloquio di certe rime canzonettistiche e l’usura delle parole cuor/amor, con connesso smercio segreto ai fan di flaconcini con le lacrime del Poeta Piangente. Significative le chiuse dei due racconti sul postino e sugli allenatori maghi. Nella prima si legge che i grandi campioni sono modesti… così modesti che il loro nome non lo sa nessuno. Tutti i giorni della vita sollevano pesi spaventosi, ma non ci pensano nemmeno a farsi intervistare... Nella seconda appare in campo, evocato contemporaneamente dalla mente dei due maghi, il pifferaio di Hamelin che è subito seguito dai giocatori delle due squadre, dall’arbitro, dai maghi stessi, dal pubblico: tutti vanno a casa, dimenticano la partita, dimenticano il gioco del calcio (per tre mesi) e imparano a suonare il flauto. Altrove Rodari scherza seriamente pure sull’impoverimento del linguaggio, il fumettese ad esempio del racconto “Crunch! Scrash ovvero Arrivano i Marziani”, nel cui finale si chiede: E quanti sono quelli che insistono a voler parlare [con le parole] facendo rumore, invece che fumo (cioè le nuvolette mute dei fumetti istoriate di lettere dell’alfabeto)? Non si sa. Ma speriamo tanti. Ma è soprattutto attraverso personaggi come il ricchissimo commendatore Mambretti, i professori Terribilis e Ferrini (sic!), i genitori di Enrica (che le donano una bambola con lavatrice incorporata) e di Carlo/Carlino che viene progressivamente perdendo le potenzialità creative della sua comunicativa mente infantile che il pedagogista Rodari ribalta e demitizza con gustosa ironia ogni modello sociale o scolastico-formativo di tipo autoritario, repressivo, conservativo. Anche nella raccolta “Novelle fatte a macchina” alcune storie rimandano alle indicazioni teoriche della “Grammatica della fantasia”, contemperando con le sollecitazioni concrete del “presente” o della sensibilità soggettiva di Rodari (attenzione ai vecchi, passione per la musica e il violino, amore a certi luoghi italiani e alla Natura) spunti attinti agli spettacoli della Tv, ai fumetti, a film noti, a personaggi delle fiabe e del mondo classico, o addirittura a talune consuetudini linguistiche formulari o strutture logiche che fanno da esca alla sua fertile immaginazione e narratività. Si pensi al coccodrillo che va al Rischiatutto (Il coccodrillo sapiente), al vecchio che diventa gatto e poi, reversibilmente, di nuovo uomo (Vado via con i gatti), al cowboy che porta sul cavallo il pianoforte (Pianoforte Bill e il mistero degli spaventapasseri), al mito rivisitato di Alcesti e Admeto  (Per chi filano le tre vecchiette?), ai martelli magici dei gemelli Marco e Mirko alle prese con la banda del borotalco prima e poi con i diavoli; alla Befana scomposta nei suoi “fattori primi”, scopa, sacco, scarpe rotte, e modernizzata (Trattato sulla Befana), al mascalzone opportunista “fuorivia” dott. Foresti (ll dottore è fuori stanza) frequentatore iracondo (e interessatamente mutevole) del Paese di Fuori… Ma la linea dell’impegno nel “reale” è più evidente e allusivamente ben segnalata nei racconti che ruotano attorno al commendatore Mambretti produttore di accessori per cavatappi a Carpi, che ha trenta automobili e trenta capelli, imprenditore grottescamente invidioso e geloso del modesto ragioniere Giovanni suo dipendente, oltre che capo segreto di bande di ladri e di agenti segreti a supporto dei suoi voleri, e proprietario di un bel giardino con frutteto su cui esercita lo stesso dispotismo padronale, pretendendo frutti e fiori a comando (ci vuole severità -dice- con le piante. Disciplina. Autorità…I caratteri vanno piegati da giovani. Chi ama, castiga.) e bastonando di conseguenza alberi e cespugli di rose che non lo soddisfano, invano difesi dall’umile giardiniere Fortunino che verrà licenziato. La stessa “morale” polemica è mediata dalla bambola a transistor di Enrica che, manomessa dall’anticonformista zio Remo, con i suoi comportamenti ribelli “apre gli occhi“ alla bambina a liberarsi dal modello di casalinga “brava mammina e brava padrona di casa” in cui vorrebbero passivamente inquadrarla i genitori. Analogo, anche se come processo al contrario, il messaggio che emerge dall’involuzione subita dall’autonomo “neonato” Carlo (che infine accetterà di essere chiamato Carlino), da quando i genitori smettono di “ascoltarlo” e rispondergli, restando zitti come pesci lessi, e da quando l’asilo e la scuola elementare ne verranno abitualmente mortificando con i castighi l’iniziativa e l’inventività (Va’, -gli dice il direttore- diventa un bambino perbene e sarai la consolazione dei tuoi genitori). Chiederà alla fine “Carlino” alla sorella: Sono già abbastanza stupidello? (cioè “conformato”?).

     Per Rodari se una società come quella attuale, basata sul mito della produttività (e sul profitto) ha bisogno di uomini a metà - fedeli esecutori, diligenti riproduttori, docili strumenti senza volontà- vuol dire che è fatta male e che bisogna cambiarla. Per il cambiamento serve l’uomo completo, creativo e consapevole, allenato al “pensiero divergente” e con una visione problematico-utopica delle realtà scottanti del mondo, da sanare: l’uguale dignità delle persone ad esempio (il cielo è di tutti gli occhi,/ di ogni occhio è il cielo intero) platealmente invece misconosciuta; la giustizia sociale ancora irrealizzata (cuocere un pane più grande del sole per sfamare tutta la gente che non ha da mangiare); la “crescita” culturale e mentale dei singoli nella costruttiva lealtà del rapporto interpersonale (I miei pensieri e i tuoi si sono stretti la mano:/ in due si pensa meglio,/ si va più lontano); l’amicizia infine come legame collaborativo e solidale (In compagnia lontano vai… Chi ha cento amici fa per cento). Un uomo nuovo insomma è necessario, con un credo fondatamente “democratico”, lucidamente costruito fin dalla primissima infanzia ed età scolare sulla libertà fantastico-espressiva del soggetto, sganciato da asservimenti automatici alla “routine”, alla “tradizione”, al “consueto”, secondo l’insegnamento progressista fra gli altri dello “strumentalismo” di Dewey. Diceva infatti Rodari:<<Tutti gli usi della parola a tutti>> mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo. E forse il personaggio in cui lo scrittore pedagogista meglio ha lasciato tracce del suo autobiografico “sentire” ed “essere”, oltre l’umile ragioniere Giovanni supervessato dal commendatore Mambretti, ragioniere che divenuto il più bravo violinista del mondo e ricco di un sacco di rupie (non sfugga la sottile autoironia!) si compra un tram da corsa (?), il personaggio -dicevo- più autobiografico è il solitario/onesto cowboy Piano Bill. Così geloso della sua indipendenza spirituale che, dopo avere sconfitto a colpi di ”tema da pianoforte” lo Sceriffo/don Rodrigo della Tolfa e salvato i promessi sposi Vincenzino e Vincenzina, rifiuta di suonare al loro matrimonio l’Ave Maria di Schubert richiesta conformisticamente da Vincenzina, perché prima di lei l’avevano avuta la figlia del sindaco, la figlia della maestra, sua sorella Carletta e sua cugina Rosanna!… Vincenzina voleva assolutamente “quella” Ave Maria, e Piano Bill sprona invece lontano il suo cavallo, tornando alle sue solitudini campestri e montane, dove perfino le nuvole attraversano il cielo in punta di piedi per non perdere nemmeno una biscroma di quella musica divina (e iper-autonoma!) del suo pianoforte.                

 

      

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