Giuseppe Bagnasco recensisce "La Casa dell'Ammiraglio" di Tommaso Romano (CulturelitEdizioni)

Ѐ la terza volta, a memoria nostra, che nei titoli delle innumerevoli pubblicazioni di Tommaso Romano, ambulante della cultura e propagatore di pensiero, compare la parola Ammiraglio.La prima in “La Torre dell’Ammiraglio”, la seconda nel periodico “L’Ammiraglio informa” e la terza in questa “La Casa dell’Ammiraglio” (CulturelitEdizioni, Palermo, 2020). Non sappiamo se questo volume chiude un simbolico trittico letterario, ma certo crediamo che sia in qualche modo conclusivo per il solo fatto che il racconto, perché di racconto si tratta, si articola su tre personali dimore: quella di Via Ammiraglio Gravina, quella di San Cipirello che fu la Colonia Agricola del Beato Giacomo Cusmano e, infine, quella familiare. Ma delle tre quella che viene indicata come il “Luogo”, è la prima non tanto perché sede della Fondazione Thule e della omonima Casa Editrice, quanto per ciò che questa dimora rappresenta. Un luogo singolare tra un museo o un “buen retiro” dove fare ristorare l’anima. L’occasionale visitatore che vi si reca già all’ingresso si trova come smarrito e subito immerso in una dimensione che ha del “cosmico” per la percezione di un’atmosfera che trasuda di genio e di nobiltà di tradizione. A questi “guardoni senz’anima”, come afferma l’Autore, può sembrare l’esposizione di una miriade di oggetti d’antiquariato pronti per la vendita. Non sanno, né possono supporlo, che quella è la dimora di un nobile Demiurgo dove viene custodita un’anima, la sua.

Tutto ciò che vi si trova è dovuto ad una certosina ricerca di tutto ciò che possa avvicinare l’anima alla bellezza. Ѐ lì che ogni cosa trova la giusta collocazione sebbene spesso non definitiva perché il tutto obbedisce ad una gerarchia di qualità e perfezione nonché di provenienza e d’età secondo gli imperativi categorici dei canoni della bellezza sia per i manufatti in marmo, resina, gesso, ceramica o porcellana, che in quadri, dipinti e acqueforti. Ma la cosa più sorprendente è come il Signore del “feudo” (come l’Ammiraglio ama definirsi nei confronti dei suoi “marittimi”) fosse convinto che, data la loro perfezione estetica, quelli potessero avere non solo un’anima, ma volendo, perfino il dono della parola. D'altronde non fu Michelangelo che davanti la perfezione del “Mosè” disse: Perché non parli? E l’Ammiraglio, azzardiamo noi, specie nei mercatini della domenica a Piazza Marina, non “sentiva” la voce del manufatto scelto che gli chiedeva di concludere la trattativa e portarlo via? Era certamente questo un rapporto surreale di sensazioni tra il “Signore” e i suoi prediletti e fu conseguente l’aver chiamato la dimora casanima. Ed eccoci alla trama.

Nel racconto vengono trattati, attraverso dei dialoghi, una complessità di temi a sfondo socio-filosofico secondo il metro comparativo tra il “Tempo Dorato” e quello attuale. I dialoghi sul concetto del bello, del giusto e del vero, alla maniera di quelli platonici, si svolgono tra l’Ammiraglio e i manufatti fino ad allora ritenuti semplici oggetti inerti, ma che improvvisamente e senza alcuna spiegazione logica iniziano a parlare entrando così nella quotidianità della vita dell’Uomo di Thule. Le voci, le parole e i concetti, proprio perché provenienti da manufatti non soggetti al deterioramento della vita degli umani, assurgonopertanto data la loro staticità nel tempo, a sentenze di saggezza se non a principi di verità. Tra i dialoghi più inerenti ai temi sopraccennati, quello che assume una certa periodicità è quello che l’Ammiraglio intrattiene con una statuetta di immacolato marmo bianco alla quale dà il nome di Cometa. Un nome non gettato lì a caso ma crediamo perché la fanciulla con le sue argomentazioni era in grado di “indirizzarlo” ad un guardarsi dentro. Una sorta di Critica della Coscienza Pura (per parafrasare il modello kantiano), con cui la prima Coscienza deve confrontarsi con le sue Ragioni. Ma ci sono altri due personaggi di cartello: una tartaruga oltremodo lenta per il peso del mondo che portava addosso, come ella afferma, e un quadro raffigurante un aristocratico inglese chiamato familiarmente Don Carlo. Sono dialoghi che sorprendono sempre più il signore di casanima dato l’eccezionale ed inspiegabile evento ma nei quali a volte risponde a muso duro come con don Alessandro, in finissima porcellana, che con una sorta di “J’accuse” di zoliana memoria, gli rimprovera la sua incapacità di aver saputo o voluto amare, oppure l’altra di nome Eleonora (un calco di ottima fattura) che lo sfida a “squarciare il velo, ad accettare il raro dono dell’amicizia, ad ignorare la decadenza e a misurarsi con l’Eterno”. E non solo. Oltre a questi ci sono gattine, cani, uccelli in pregevoli materiali, che parlano spesso confidenzialmente con il loro benefattore, ritenuto tale dato che questi li ha tratto dall’anonimato di una vetrina o di una bancarella, offrendo loro una adeguata sistemazione nella nobile dimora.

Ma con ciò, non ci troviamo di fronte ad un redivivo San Francesco che comunque parlava con esseri vivi come il lupo di Gubbio, ma davanti ad un collezionista di bellezza di condizione abbastanza agiata che al posto del canide di Gubbio deve confrontarsi, a seguito di questi eventi vissuti, con un altro animale ben più agguerrito: il dubbio. Un dubbio che con caparbia comincia a tormentarlo se dovesse o no considerare quei dialoghi frutto di allucinazione o di una devianza psichica.

Inizia così un “camino di Compostela” che lo porta a raccontare e raccontarsi a eminenti personaggi di cultura laica e religiosa. Una spasmodica ricerca ad una richiesta di verità ma con risposte spesso varie e contraddittorie ad eccezione dell’intervento della Madonna della Cappella della Colonia Agricola (la sua seconda dimora) e a cui il Nostro non resta indifferente quando lo esorta a considerare i “Similumani” custodi di quella semplicità perduta dagli uomini e a ritenere le loro parole il linguaggio dell’anima cosmica. Un linguaggio comprensibile per chi come l’Ammiraglio ha ideato e sorretto l’idea del Mosaicosmo. Una ricerca che, comunque, si conclude con l’incontro con Padre Nuaranti (studioso di esoterismo, settarismo ed esorcismo) e dal quale trova finalmente la risposta tanto attesa: il suo è uno stato di grazia, un dono venuto dall’Alto e per quanto riguarda le statue inerti, queste hanno avuto dagli angeli quel soffio d’anima che li pervade. Ѐ la fine del pellegrinaggio e il ritorno all’Arca-casa, un’accezione non fortuita visto che la preziosa raccolta è fatta per preservare dalla dispersione e “salvare dal naufragio definitivo una piccola memoria del mondo”. Lì finanche l’Angelo di cartapesta della Cappelletta “palatina” gli parla confermando l’esistenza degli angeli come fossero dei “fratelli maggiori”. E così l’Ammiraglio, riacquistata la serenità perduta, per cui aveva perfino sofferto incubi notturni, finalmente adagiandosi sulla sua amata poltrona rossa e guardando “con occhi paterni” la piccola Cometa, sopraffatto da una stanchezza interiore, si addormenta. Se vogliamo un surrogato di un verso di Goethe con “La prima notte di quiete” ma solo similmente giusto per sottolineare quel raggiunto stato d’animo che lo porta a consegnarsi a Morfeo. Fin qui la trama del racconto-sogno di cui in quarta di copertina se ne ha conferma vedendo il “Pellegrino del Cosmo”, finalmente nella veste plastica del professore Tommaso Romano, lasciarsi trasportare su di un tappeto-zattera verso quella che sullo sfondo sembra identificarsi come l’immaginaria e sospirata Isola di Thule.

    Ma al limitare di quanto rapportato, una domanda sorge all’orizzonte della riflessione: è tutto qua il racconto dell’Assertore dell’anima cosmica o nasconde qualcosa in sé? Da sempre uno scrittore nel pubblicare un libro si riserva intimamente di inviare un messaggio, di comunicare attraverso la narrazione una propria idea, foss’anche un principio o il dettato di un valore. Tommaso Romano non è un romanziere, non usa la fantasia alla maniera di un Dumas o di un Natoli per affidarsi a storie d’appendice. Se scrive lo fa per comunicare originali concetti filosofici o per tracciare e indicare precetti o raccomandazioni carichi del significato di vita. Pertanto lo scrivere un finale dove riporre la soluzione di un grave problema affidandosi a quello che era comune per un commediografo greco e cioè facendo intervenire il deus ex-machina, non ci sembra congruo per un pensatore della sua levatura, per un intellettuale di rilievo quale egli è. Ѐ per questo che ci riserviamo di tracciare una analisi che non potendo essere conclusiva ed esaustiva non ci lascia altra strada che ritornare indietro e rifare all’incontrario la “via franchigena” appena percorsa.

“La casa dell’Ammiraglio” è certamente un racconto-sogno dove un uomo, attraverso un peregrinare dell’anima e il percorso del cammino investigativo della coscienza, frutto di una vera e propria introspezione, approda ad una verità che sebbene di stampo fideistica, come l’affermazione dell’esistenza degli angeli, costituisce pur sempre una verità accettata.Un racconto alquanto seduttivo più di quanto non immagini l’eventuale lettore, sia per l’esposizione nella descrizione della dimora, che per l’avvincente trama del racconto che coinvolge il lettore al punto che, come si trattasse di un thriller, sembra essere personalmente presente sulla scena della fantastica dimora. Ma nonostante ciò il frutto di un libero pensatore quale è il nobile Romano d’antica schiatta positana, non può limitarsi ad un racconto di certa levatura solo per affermare l’esistenza degli angeli. Troppo riduttivo per chi, e pensiamo ad un lettore di credo laico, dopo aver seguito pedissiquamente tutto l’iter investigativo dell’Ammiraglio, lo vede approdare ad una conclusione che appare banale. C’è qualcosa che non appare ma è da riconsiderare. E allora torniamo ai tre interlocutori sopra accennati e soffermiamoci a chiederci cosa, a parere nostro, rappresentino. Parliamo di Cometa, della Tartaruga e di Don Carlo. Il primo, l’assorta fanciulla che scrive e che in fondo costituisce “la chiave di volta” nella struttura del racconto, la possiamo identificare come “L’Elogio della bellezza”. Una bellezza non necessariamente esibita ma una bellezza interiore, un “essere” infinitamente superiore e in cui alberga un’anima pura, un “luogo” di rara saggezza e spiritualità. Il secondo, la tartaruga. Rappresenta plasticamente “L’Elogio della lentezza” di maffeiana memoria. In un mondo pervaso dalla frenesia dell’apparire, dove non c’è più posto per l’ascolto non soltanto degli altri ma perfino della Natura, così tanto violentata dal progressismo, la sua voce predica prudenza giacché, come le suggerisce la “voce fuori campo”, la fretta è disordine interiore. Il terzo, l’aristocratico Don Carlo.

Rappresenta “L’Elogio della distinzione”. Parola di derivazione greca perché Aristocratès è colui che si governa da sé e pertanto, in grado di potersi isolare dalla massa, di restare lontano dalla confusione e guardare con occhio e il fare distaccato, tutto quanto avviene intorno. Il dettato che il nobile inglese espone con convinzione è la contrarietà al livellamento sociale giacché “l’annullamento delle differenze non porta solo alla superbia buonista, apportatrice di lutti e violenze” ma costituisce un pressante invito a “resistere contro la massificazione del pensiero”. A questo, aggiungiamo noi, anche alla rinuncia della creatività, all’isolamento dell’individuo che non sente più quell’afflato “divino” dell’ispirazione di un’opera d’arte. Ѐ la morte della spiritualità prestata alla poiesis. Finanche l’amore, come interloquisce la statuetta di Giunone, non sarebbe più un segreto con conseguenze negative per la sopravvivenza nella ricerca delle affinità elettive o della perfezione, tanto care al nostro Autore. Anzi, come egli afferma, proprio la ricerca della perfezione dell’impossibile e la incompletezza per non avere “osato e andare oltre le Colonne d’Ercole” sarebbero state la sua condanna. E allora alla fine quello che si trae dal volume, sono le affermazioni degli insegnamenti che i tre ci forniscono e che costituiscono le precipue linee guide di comportamento. Una sorta di “breviario” al pari, ma spiritualmente superiore, a quello di Monsignor Della Casa (autore del “Galateo overo dè costumi”) e non poteva essere nient’altro che questo visto che il professore Romano, docente di filosofia “ della vita” e già di estetica presso l’Istituto delle Belle Arti, ha speso tutta una vita all’insegnamento e alla pubblicazione del suo pensiero così come ancora si evince da una attenta rilettura de “La Casa dell’Ammiraglio”. Da vero esteta e sensibile cultore, oltre ad aver avuto con la bellezza un rapporto simbiotico, ha sempre considerato “il fare bellezza non come accumulazione di banalità ma come sostanza dell’infinito”. Infine l’armonia. Un dettaglio che non può sfuggire ad un attento osservatore che si soffermi nell’indagare sull’accorto posizionamento degli oggetti così come appaiono ne “Le stanze di Thule”, libro-catalogo pubblicato a cura dell’Associazione Thule Cultura (Palermo 2020). Il posizionamento dei quadri e dei manufatti o il loro spostamento non è frutto di piacevole perditempo ma segue un’esigenza dettata dallo spirito del “curatore” che li manovra da un punto all’altro delle pareti e questo fino a raggiungere, anche con una ricercata simmetria (sinonimo di ordine), quella perfetta armonia tale da donare la sospirata raggiunta serenità al “ricercatore” e la definitiva inamovibilità ai soggetti.

Ne “La Casa dell’Ammiraglio” è possibile pertanto ammirare uno scenario che, sebbene ispirato al Vittoriale dannunziano, pur non raggiungendolo per abissali differenze, si impone per l’eleganza e la nobiltà di selezione. Tommaso Romano, ed è questo il messaggio apparentemente occulto, con questo volume ha esternato quel “grido di dolore” per la devastazione del tessuto culturale in atto e cercato di conservare in piccolo quel tratto della Cultura che fu teatro alla fine dell’Ottocento e ai primi del secolo scorso con la creatività di quel Nouveau e di quel Liberty presenti nei numerosi manufatti mobiliari della Dimora romaniana. Per finire un’ultima nota.

Il ricorso al racconto dell’Apostolo della Cultura, pur se punteggiato da eventi personali reali ma mai scadenti nell’autoglorificazione, si mostra ancora una volta come un efficace veicolo per affermare e difendere i valori d’un tempo che non possono non assumere valenza eclettica. E ciò grazie a “condottieri o ammiragli”, quali in fattispecie, che pur non rispondendo al precrociatico grido di “Dio lo vuole”, con la pervicacia tipica di chi non arretra, cercano da novelli Diogene l’uomo vero per ridargli quella dignità da troppo tempo perduta.

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