“I piaceri della tavola del commissario Montalbano, ricordando Andrea Camilleri a tre anni dalla morte” di Maria Nivea Zagarella

 

Il 17 luglio 2019 moriva Andrea Camilleri, la cui avventura umana, esistenziale, letteraria ha molto di singolare per il tardivo, eccezionale, successo dello scrittore. Senza il commissario Salvo Montalbano (dal 1994) e soprattutto il Montalbano televisivo (dal 1999) forse l’autore colto Camilleri non sarebbe mai così vistosamente emerso nel mondo della letteratura. “Montalbano” è anche il suo linguaggio, il “vigatese” e il “vigatese” (lingua siculoitaliana da lui inventata) è la Sicilia, sangue ossa carne e polpa dell’impegno etico-civile, nella denuncia, dell’uomo e dello scrittore Camilleri, ma anche base di uno scaltrito e divertito ludus intellettuale e linguistico cui non è estraneo un fondo di compiaciuta memoria autobiografica e familiare, insomma un confessato (e godibile sotto certi aspetti per la sottile autoironia) “amor di sé”. E gli “arancini” di Adelina e i piaceri della tavola, cui il Commissario non si nega, ne sono lo specchio, ironicamente, più “struggente”. Nel racconto del 1999 “Gli arancini di Montalbano” si legge:<<Gesù, gli arancini di Adelina li aveva assaggiati una sola volta: un ricordo che gli era trasuto nel DNA, nel patrimonio genetico: Adelina ci metteva due jornate sane sane a pripararli”. Nella realtà ricetta e preparazione rimandano alla nonna di Camilleri, Elvira, la generalessa della cucina della loro casa di campagna, a 1 Km e mezzo da Porto Empedocle, che li manipolava ad arte quando lui era bambino, con tanto di vitello e altrettanto di maiale, senza zafferano e con il salame a pezzetti. Dell’aria di “famiglia”, complice e affettuosa, molto è passato nel personaggio di Adelina “la cammarera” di Montalbano, la fimmina di casa che -scrive l‘autore ne “Il cane di terracotta” (1996; 2005)- una volta al giorno veniva a dargli adenzia e alla cui fantasia culinaria ma gustosamente popolare quello si affidava interamente, trovando sempre, al ritorno nella casa di Marinella dall’ufficio o da una indagine, nel frigo o nel forno, qualche pietanza già pronta. E Camilleri, con una ulteriore immersione nei ricordi dell’infanzia siciliana, aggiunge che al Commissario ogni volta che stava per raprire il forno o il frigo gli si riformava dintra la stessa trepidazione di quando, picciliddro, alla matina presto del due novembre cercava il canestro di vimini nel quale durante la notte i morti avevano deposto i loro regali. Su quei lontani regali, giocattoli e dolci, lo  scrittore indugia pure in “Riccardino” (il romanzo uscito postumo nel 2020, ma scritto nel 2004/2005) facendo bloccare a Montalbano la macchina davanti alla vetrina del primo bar sul corso di Vigata dove sono in mostra i cosi duci dei morti. Dentro la macchina Montalbano si abbandonerà al ricordo della madre morta e del triciclo, trovato da lui bambino, russo fiammanti tutto circunnato da cosi duci: frutti che parivano veri fatti di pasta riali (o pasta martorana, dalle monache benedettine del convento della Martorana di Palermo), rami di meli, mustazzola di vino cotto, carcagnette, tetù, viscotti regina. E c’era macari un pupo di zuccaro che arrapprisintava un bersaglieri. Dopo essersi rammaricato, ricordando, che l’anno appresso i regali l’aviva attrovati sutta all’arbolo di Natali. Forsi i morti avivano pirduto la strata di casa, il Commissario scenderà dalla macchina e acquisterà tutti quei dolci, rinunciando per la vergogna (pur facendogli gola) ad accattarisi ’na pupa di zuccaro, ‘na sgargianti ballarina di coscia grossa, sostituita tuttavia con due appetitosi cannoli giganti di ricotta. Successivamente nella nota verandina Montalbano sapientimenti (sic!) -cioè sensuosamente- alternerà i viscotti regina (ricoperti di semi di sesamo abbrustoliti) ai tetù (dalla glassa di zucchero e cacao), le carcagnette (o ossa di morti insaporite alla cannella e chiodi di garofano) ai mustazzola e ai cannoli, vivennosi di tanto in tanto un muccuneddru di malvasia. I mustazzola (biscotti secchi) sono anche il dono speciale che ne “Il cane di terracotta” porta al Commissario Gegè, piccolo spacciatore di droga leggera e proprietario di un bordello all’aperto detto la mannara, ma compagno di banco di Salvo alle elementari, specificando che sua sorella Mariannina li ha fatti apposta per lui (quelli che ti piàcino -dice). Ancora una volta sono di scena l’infanzia, l’atmosfera domestica, e la campagna, perché dopo l’uccisione di Gegè in un agguato e il ferimento dello stesso Montalbano, questi in visita di lutto all’affezionata Mariannina mangerà in casa di lei gli attuppateddri al suco, sulla cui descrizione Camilleri si dilunga piacevolmente, spiegando prima che gli attuppateddri sono quelle piccole chiocciole marrone chiaro che cadute in letargo secernono un umore che solidificato chiude, attuppa appunto, il guscio, e precisando dopo che il Commissario li mangia per una doppia sfida alla pancia e alla psiche. Alla pancia perché, convalescente della ferita riportata nell’agguato, dovrebbe mangiare leggero; alla psiche perché è ossessionato negativamente da un sogno osceno con Livia dal corpo corso da lumache. Davanti al piatto che mandava un odore finissimo di colore ocra, dovette farsi forza -precisa lo scrittore- ma dopo avere estratto il primo attuppateddru con una spilla ed averlo gustato, di colpo si sentì liberato: scomparsa l’ossessione, esorcizzata la malinconia, non c’era dubbio che magari la panza si sarebbe adeguata. “Panza” che normalmente “gode” dei saporiti cibi di Adelina, riposti ora in frigo ora in forno: ad esempio, un primo di pasta fredda con pomodoro, vasalicò (basilico), passuluna (uva passa) e olive nere che mandava un profumo d’arrisbigliare un morto, e un secondo di alici con cipolla e aceto (e zucchero); oppure polipetti affogati (con pomodori, cipolla, origano) dall’avvolgente sciauro; o calamaretti bolliti accompagnati da caciocavallo ben stagionato e finale granita di limone che la cammarera gli preparava secondo la formula uno due quattro: un bicchiere di succo di limone, due di zucchero, quattro di acqua. Da leccarsi le dita! Una Adelina che quando intuisce, da come Montalbano lascia la casa la mattina, che è teso, turbato, nirbuso, gli prepara piatti speciali che gli risollevano il morale, fra cui il sugo di seppie, stretto e nero come piaceva a lui: C’era o no un sospetto di origano? -si chiede ogni volta il Commissario odorandolo, ma l’indagine resta senza esito. Oppure sono di turno in forno le melanzane alla parmigiana, o una “troneggiante” teglia di pasta ‘ncasciata (cioè a strati, ricca di melanzane, carne tritata, salsa di pomodoro, pecorino grattugiato, basilico, uova sode, tuma, salame a fette) piatto degno dell’Olimpo. E in assenza di Livia (perché fra le due non passa buon sangue), e quasi a risarcire il gusto del Commissario alla partenza della sua compagna, Adelina appronta, squisiti e micidiali, pasta con le sardi e purpi alla carrettiera. Tutti sapori e odori forti, inebrianti, della tradizione siciliana al contrario di Livia, che -riflette Montalbano/Camilleri ne “La pazienza del ragno” (2004)- non è che cucinasse malissimo, ma tirava al dissapito, al picca condito, al liggero liggero, al sento e non sento. Più che cucinare Livia alludeva alla cucina, donde quelle sue cene con pasta tanticchia scotta e suco acitisco, e carne che assomigliava al cartone e del cartone aviva lo stisso ‘ntifico sapore. Mentre la fame lupigna che addenta spesso lo stomaco di Salvo ha bisogno di soddisfarsi -come in “Riccardino”- di pasta e fasoli, e angiovi all’agroduci e caciocavallo di Ragusa; oppure di triglie con acìto e cipuddra e caponatina, che lo fanno sentire una sera racconsolato con l’universo intero anche perché consumate opportunamente in verandina, dove c’era ‘n’aria frisca e lucita che smaltava i sapori, ragion per cui se la scialò. Al piccante e al “grossolano gustoso” di marca paesana Montalbano si orienta anche quando deve improvvisarsi da sé uno spuntino per così dire “povero”: nella putìa (bottega) compra, ripetendosi immancabilmente, cacio col pepe (cioè tipico “pecorino” siciliano) e una scanata di pane di grano duro, oppure aulive verdi, passuluna, caciocavallo di Ragusa, pesto trapanese, pani frisco con la giuggiulena (sesamo), e lo scrittore non tralascia di annotare che la billizza del mangiare pani con la giuggiulena (sic!) sta anche nel porre, pranzando (con gesto familiare ai vecchi un tempo, e a Camilleri/Montalbano tuttora!), l’indice della mano destra sulla tovaglia, facendovi aderire il semino di sesamo cadutovi, portandolo poi alla bocca. E se è nervoso il commissario scarica la tensione, mangiando nella solitaria passeggiata fino al molo un sacchetto di calia (ceci abbrustoliti) e simenza (semi di zucca essiccati), come dopo la morte/assassinio del cavaliere Misuraca ne “lI cane di terracotta” o prima di quelle odiose per lui conferenze-stampa che lo vedono esitante, strammato, stunato, o giallo come un limone. Con l’amico giornalista Nicola Zito della locale emittente “Rete libera” si concede talvolta la pizza Tabisca che è una straordinaria pizza multisapore, e la cui particolareggiata descrizione gli scioglie miracolosamente la lingua e gli dà una improvvisa disinvoltura proprio nel corso di una disastrata intervista! Se è invitato a pranzo o a cena, l’intima, complice, competenza fra Montalbano e il suo autore in fatto di sapori, tempi e modi di cottura dei cibi esalta ancora di più il “gusto” delle  pietanze portate a tavola. Così, in casa del vicesindaco cugino di Catarella (“La pazienza del ragno), avviene per i cavatuna col suco e il cuniglio all’agro-duci preparato da sua moglie Angila. Pietanza difficili -leggiamo- perché tutto si basa sull’esatta proporzione tra acìto e miele e nel giusto amalgama tra i pezzi del coniglio e la caponata dintra alla quale deve cuocere. La signora ci aveva saputo fare e per buono piso ci aviva sparso supra una graniglia di mennuli atturrati. Inoltre essendo stato preparato il giorno prima, il tutto ci aveva guadagnato in sapori e in odori. Così, in casa del questore amico, per le alici all’agretto preparate dalla moglie Elisa con arte e perizia, e il segreto della riuscita era nella individuazione della millimetrica quantità di tempo che la teglia doveva stare dentro il forno (Il cane di terracotta). Così, nello stesso romanzo, in casa del vecchio preside Burgio, dove le lodi del commissario andranno però a un tipo di cibo “leggero” preparato dalla moglie Angelina. Leggero, ma altrettanto -dice Salvo, con aggettivazione che riconosce imperfetta- leggiadro (sic!), cioè il tinnirume e triglie di scoglio con aglio, limone e pitrosino (prezzemolo). Accattivante, come le altre, la descrizione del “tinnirume”: cioè foglie e cime di cucuzzeddra (zucchina) siciliana, quella lunga liscia, di un bianco appena allordato di verde, che era stato cotto a puntino ed era diventato di una tenerezza, di una delicatezza che Montalbano trovò addirittura struggente. Ad ogni boccone sentiva che il suo stomaco si puliziava, diventava specchiato… e le triglie avevano la stessa leggerezza del tinnirume. Camilleri non ha avuto nessuna difficoltà in una intervista ad ammettere che <<la tavola del Commissario è la sua tavola>> e la piena sintonia con il personaggio, dato il paese di mare d’origine e appartenenza dello scrittore, risalta a tinte piene nelle soste in trattoria di Montalbano. O all’osteria San Calogero, dove -ne “Il cane di terracotta”- ora si spanza di antipasti di mare; ora entra vinto dall’immagine più che dal desiderio, catturato dalle parole del trattore: Ma io ho certi gamberoni da fare arrosto che non pare di mangiarseli, ma di sognarseli; oppure, attirato dal sciauru di triglie fritte, vi mangia un antipasto speciale di frutti di mare e due spigole così fresche che pareva stessero ancora in acqua a nuotare. O ancora meglio, nel locale fronte mare di Enzo, che sembra in ideale gara con Adelina. Ne “La pazienza del ragno” Enzo prepara, ma solo per i clienti che gli facevano sangue, come il Commissario, un cuscusu con otto tipi di pisci, e Montalbano appena si vitti il piatto davanti e ne sentì il sciauro, ebbe una botta di commozione irrefrenabile, che quello scambiò per febbre (avi l’occhi luciti!-gli dice), e se ne scrofanò due porzioni, e dopo ebbe la facci tosta di dire che qualche trigliuzza l’avrebbe aggradita. Quindi la passiata fino a sutta al faro fu una nicissità digestiva! E a chiusura del romanzo, soddisfatto di avere risolto il caso e della scelta umanitaria, e non poliziesca, attuata, Montalbano, volendo sentirsi anche sazio, e non solo riposato, sereno, affrancato come l’abate Vella di Sciascia, va alla trattoria di Enzo, dove mangia antipasto di mare, zuppa di pesce, un purpiteddu bollito e condito con aglio e limone, quattro triglie (dù fritte e dù arrostu), e beve tre bicchierini abbondanti di un liquore di mandarino a livello alcolico esplosivo, orgoglio e vanto di Enzo. In “Riccardino” Enzo supererà se stesso preparando un cuscusu di dieci varietà di pesci (Dottore, oggi il cuscusu comu Diu cumanna fici) e il Commissario, interamente concentrato sul sciaru e sul sapori del cuscusu, azzera del tutto i rumori e le voci del munno di fora (nel caso specifico i commenti della conformata e conformante Televigata e di quella facci a culo di gaddrina del suo notista principe) e si sbafa pure come secunno quattro triglie arrustute. Nel capitolo 10 troveremo un inno a Enzo e alla “mangiata”: Quel giorno, da Enzo, tutto fu perfetto. E Montalbano niscì dalla trattoria isanno inni di ringrazio agli dèi che proteggino la bona mangiata. Non sapiva chi erano, ‘sti dèi, ma dovivano certamente esistiri; e nel capitolo 15, una reciproca gratificazione fra cliente e trattore: doppo un purpiteddro a strascinasali di medie proporzioni (con solo sale e limone) il Commissario si ghittò supra a ‘n’insalatedda di pisci… a seguire si puliziò un piatto di trigli fritti. Appresso si passò lo sfizio di ‘na fetta sustanziusa di caciocavallo ragusano e Enzo gli fu arraccanoscenti:<< Dottore, vali la pena -dice- di tiniri ‘sta trattoria sulo per il piaciri di vidiri a vossia mentri che mangia>>. Il fatto è che il “mangiare” non annebbia in genere il cervello a Montalbano, anzi gli rende la testa sgombra, pulita e leggera ad intuire e agire! Camilleri ama il “suo” Montalbano franco, leale, “incazzato” contro all‘arroganza, supponenza, favusa cordialità, retorica (e corruzione) politica di chi pensa sulo alli ‘nteressi sò facenno finta di fari li ‘nteressi di tutti e che saltando al momento opportuno sul carro del partito di maggioranza, mafia o non mafia, gestisce il Potere a livello regionale e/o nazionale. E nel metaromanzo “Riccardino” fa capire che oggi un autore critico/polemico, che deve misurarsi anche con numeri tirature auditel, per “infiltrare” un minimo spiazzante di “verità” fra lettori e spettatori, non ha come arma utile che strutturare un godibile, “gastronomico“ (in senso brechtiano) prodotto armonizzato di poliziesco, tipi fissi, eros (anche di bassa lega), turpiloquio, sproloquio, sconcica, sisiata, bona mangiata…in pericoloso equilibrismo tra serietà e divertimento gratuito, consumo e “impegnata” (sic!) leggerezza. Estromesso infatti alla fine dal questore dalle indagini sull’ammazzatina di Riccardino Lopresti, perché non vuole accettare il vieto ripiego della vendetta per “corna” (e continuare invece sulla strada dell’intreccio mafia/droga/politica), Montalbano con un sapore in bocca di burro arranciduto e pisci putrefatto (il sapore della sconfitta!) procederà, concedendosi il lusso di una lacrima, alla cancellazione, come davanti a ‘na lavagna, di Livia, Fazio, Mimì Augello, Catarè…e di se stesso.           

      

 

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