“I SARACENI ALLA CONQUISTA DI QAL’AT ‘AWBI, TERRA DI TUFO, NELLA STORIA E NELLE LEGGENDE” ROMANZO STORICO DI GIOVANNI TERESI

I saraceni alla conquista di Qal'at 'Awbi, terra di tufo, nella storia e nelle leggende - Giovanni Teresi - copertina

Romanzo storico di Giovanni Teresi  

 

Tra storia e leggenda, Giovanni Teresi racconta della Sicilia al tempo delle invasioni arabe e del loro contributo alla nascita di una cultura straordinariamente variegata e affascinante. I Saraceni alla conquista di Qal’at ‘Awbi ripercorre le tappe della conquista musulmana fino al suo declino, mostrandoci come realtà storica e fantasia popolare si intreccino mirabilmente per donarci una Sicilia ricca di tesori.
 

Abstract del Romanzo storico

Il ra’is, capo del consiglio degli anziani che amministrava il villaggio

La debolezza dell’imperatore greco, il malessere dei Siciliani, la già citata morte di Eufemio accesero i Saraceni ad una più concreta speranza nel loro intendimento: conquistare l’intera isola come loro stessi la definirono :“la conquista di Qal’at ‘Awbi  ” la terra di tufo“.

Infatti la città di Mineo e Girgenti, come già detto, furono prese dai Musulmani in quel medesimo anno 828 e nei due anni seguenti, con varia fortuna e grazie alle milizie greche, presero Messina.

Ziadath Allah, visto il successo delle milizie, inviò in Sicilia Mehammed Ben Abd Allah per governarla. Costui subito si diresse a Palermo per espugnare la città, che dopo cinque anni di assedio si arrese. Palermo divenne la sede del governo saraceno; da qui Mohammed Ben Abd Allah mandava gli ordini, dirigeva le imprese. Da tali manovre altre città vennero sottomesse all’impero degli africani. […]

I Siciliani, che vivevano nei villaggi, erano servi, vincolati alla terra che, in circostanze ordinarie, non potevano abbandonare; non potevano neppure alienare le quote di campi arabili di loro spettanza. Ogni villaggio era amministrato da un consiglio di anziani, presieduto da un capo che le popolazioni chiamavano ra’is, titolo arabo conferito a chi aveva autorità su una comunità e che fungeva da intermediario tra i governatori e i governati.

Il titolare di questa carica aveva diritto a un appezzamento di terra più grande e a una casa più ampia di quelli spettanti agli altri abitanti del villaggio; presiedeva alle decisioni in materia di agricoltura prese dall’insieme della comunità, riscuoteva i tributi dovuti dai contadini del villaggio al signore ed era quasi il giudice della comunità.

Il villaggio di questo tipo era in genere formato da un nucleo abitativo – un gruppo di case basse addossate le une alle altre – con una cisterna, con un mulino, un forno e alcune aie per trebbiare; intorno a questo nucleo si estendevano vigneti, orti, frutteti e uliveti, che costituivano un possesso personale degli abitanti. Al di là di questo centro si allargavano le terre arabili, che venivano lavorate collettivamente. In alcune parti dell’isola si praticava una rotazione biennale delle colture, essendo i campi suddivisi tra quelli seminati a metà novembre con frumento e orzo, e quelli lasciati in parte a maggese fino alla semina della successiva primavera per avere un raccolto estivo – il sesamo dal quale estrarre l’olio – e in parte destinati alla coltivazione di ortaggi.

Le messi venivano trebbiate nelle aie apposite del villaggio e poi suddivise in mucchi da cui ogni famiglia prelevava una quota corrispondente a una frazione delle terre del villaggio. Naturalmente prima che si procedesse a questa suddivisione, si sottraeva la parte che spettava al ra’is, a sua volta da suddividersi in più parti, se il villaggio aveva più di un signore. Era questo l’antico tributo musulmano Kharaj  che solitamente ammontava a un terzo o a un quarto del raccolto dei terreni arabili e alla metà o un quarto dei prodotti agricoli dei vigneti, degli uliveti e dei frutteti; a questo tributo andava aggiunta un’imposta gravante sui musulmani ed ebrei: un “dopo personale”, esso pure molto antico, detto mu’ra; un tributo su chi possedeva capre, pecore, e api; e altre imposizioni minori. Era pratica comune che tutti questi tributi fossero combinati e commutati in una somma di denaro, ma era comune anche il pagamento in natura. I feudatari tendevano a congregarsi, e molti di loro spendevano il denaro ottenuto in ragione dei loro privilegi feudali.

Le continue scorrerie musulmane ed il malcontento del popolo siciliano

 I siciliani non gradivano questo sistema economico d’imposizione fiscale e a lungo andare cercarono di sovvertire le sorti dell’isola con la cacciata dei Musulmani.

In qualche paese  riuscirono, ma non del tutto per liberare la Sicilia.

Nell’anno 855, Al Abbas, che già da tre anni era successo al comando di Mohammed Ben Abd Allah, prese con inganno la piccola città di Castrogiovanni. Nel cuore della notte, quando gli abitanti erano immersi nel loro profondo sonno, la guarnigione fu uccisa, i cittadini furono oppressi. I giovani nobili e le figlie dei patrizi vennero fatti schiavi e la città saccheggiata.

In quel tempo accaddero frequenti mutamenti di governo nell’esercito dei Musulmani.

La conquista assunse un carattere organizzato e sistematico.

Sotto la guida di Abu-Fihr cugino di Ziyadat Allah, e poi di Fadhl-ibn-Iacub,  di Abu-I-Aghlab-Ibrahim (851), di Abbas (861), di Kafagia e di Hassan.ibn-Ammar, i musulmani si impadronirono successivamente di Messina (824-843), di Ragusa (849), di Enna (859), di Siracusa dopo un aspro assedio (878) e di Taormina (909), da loro ribattezzata Almoezia; ultima fortezza bizantina che capitolò fu quella di Rometta (965), per opera di Hassan-ibn-Ammar.

Nel 872 il governo fu affidato a un tale Habasci ed un nuovo ardore animò le schiere dei Saraceni. Questi, con un esercito per via terra e con una flotta navale venuta dall’Africa, cinsero d’assedio Siracusa. Subito il patrizio che la governava chiese soccorso all’imperatore Basilio il Macedone, che vi spedì un’armata capitanata dal patrizio Adriano. Costui invece di soccorrere Siracusa, si stabilì nel Peloponneso. Intanto i Saraceni cercavano di abbattere le mura della città e facevano una vigile guardia a che i Siracusani non ricevessero viveri.

Così la popolazione cominciò a patire la fame. Non mancarono malattie ed epidemie. I Siracusani, benché afflitti da tante calamità, per l’amata patria, per la santa religione di Cristo, combatterono valorosamente e riuscirono ancora a respingere il nemico; si confortavano fra loro e speravano in un vicino soccorso. Da eroi, per diversi mesi, affrontarono il terribile assedio e dimostrarono che l’antico orgoglio siciliano non era spento.

Dopo i Saraceni diroccarono la torre che era nell’angolo destro del porto; abbatterono il muro che era congiunto alla torre e ferocemente, a guisa di un impetuoso torrente, inondarono la città.

Lo spavento, la strage che seguì, il saccheggio, gli incendi desolarono l’infelice Siracusa che fu totalmente distrutta. Quattromila cittadini furono uccisi, gli altri fatti prigionieri; il governatore e i più illustri personaggi vennero trucidati nei modi più barbari. Il bottino era così grande, che di nessuna città cristiana gli arabi avevano tratto un maggiore guadagno.

Il vile Adriano, cagione di tante sciagure, fu punito solo con l’esilio (878).

Espugnata Siracusa, i Saraceni di Sicilia divennero potenti e formidabili governatori più dei Greci e dell’emiro africano. Da un lato le intollerabili durezze e le orrende crudeltà dei governanti inviati in Sicilia, dall’altro la coscienza del proprio coraggio e delle proprie forze e l’aver quasi interamente cacciati i Bizantini; fecero si che i Saraceni siciliani rompessero ogni freno e facilitassero il giogo degli Africani.

Girgenti e Palermo, levatesi in armi, assalirono i Saraceni d’Africa, e in molti scontri sfondarono le loro fila. Gran sangue si sparse dall’una e dall’altra parte.

Gli emiri, intanto, mandavano in Sicilia poderosi eserciti per dominare le città sollevatesi e per punire i ribelli. Intanto si versava altro sangue, si esercitavano altre crudeltà; nuove cagioni di malcontento per gli indocili ed audaci Siciliani. Era unanime desiderio dei Siciliani avere un governante per l’intera isola; così quando sembrava che dovunque regnasse la pace, ecco improvvisamente levarsi lo scontento dei rivoltosi che dava grave molestia ai governanti.  […]

Giovanni Teresi

 

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