“Il Festino dei tradimenti” di Ciro Lomonte

Esattamente dieci anni fa pubblicai un saggio dal titolo L’urna di Santa Rosalia come paradigma della storia di Palermo. Nutrivo la sincera speranza che, per i 400 anni dal ritrovamento dei resti mortali di S. Rosalia, ci sarebbero stati festeggiamenti degni della grandezza di Palermo.
 
La delusione per lo spettacolo al quale stiamo assistendo in questi giorni è una ferita sanguinante. Come si fa a sprecare così un’occasione tanto importante? Malafede o incapacità? Se si fa eccezione per le due mostre sull’epica ascesa della devozione nei confronti della Santuzza (quella della Fondazione Sicilia e l’altra – ancora visitabile – della Cattedrale di Palermo), tutto il resto è l’ennesimo tradimento all’essenza di un evento che rispecchiava (e può ancora rispecchiare) il vero animo dei palermitani.
Si prosegue indefessi sulla strada delle carnevalate, per nascondere – senza esito – il degrado in cui qualcuno vuole mantenere la capitale della Sicilia.
Forse l’ultimo Fistinu dignitoso fu quello realizzato nel 1974, con spirito da esploratore di tesori perduti, da Rodo Santoro, per dare un rilievo grandioso ai 350 anni della ricorrenza. Fu lui a sottolineare come la manifestazione fosse stata soppressa o tradita a partire dal 1859.
Si trattava di un evento non trascurabile nella auto rappresentazione della identità palermitana, a partire dal nome stesso. In passato i palermitani usavano diminuitivi più o meno ironici per designare fatti eclatanti. Così la manciatina era in realtà un’abbuffata, la fuitina una tragedia familiare, l’ammazzatina una strage. Mentre ‘u Fistinu era la sontuosa festa principale della città, quella per ‘a Santuzza, la patrona alla cui intercessione è attribuita la liberazione definitiva dalla peste, che a Palermo non tornò mai più. Questo è un dato di fatto.
La manifestazione nacque nel 1625 per celebrare il ritrovamento su Monte Pellegrino delle ossa di S. Rosalia il 15 luglio 1624. I frammenti dello scheletro, riconosciuti come reliquie della santa eremita del XII secolo da una commissione istituita dal Card. Giannettino Doria, arcivescovo genovese estremamente ligio alle norme canoniche nell’esame dell’autenticità delle reliquie, vennero portate in processione e contribuirono alla scomparsa della epidemia dalla città. Che poi il gesuita Giordano Cascini elaborasse già nel 1625 una storia più o meno romanzata sulla vita di S. Rosalia è un’altra faccenda.
Negli anni successivi la festa assunse proporzioni grandiose. Sarebbe meglio dire le feste, perché erano due, in parallelo: una celebrazione era a carico dell’Arcidiocesi, l’altra era organizzata dal Senato di Palermo (l’amministrazione civica di allora).
Il culmine della festa religiosa era costituito dalla processione dell’arca d’argento – un capolavoro di oreficeria sacra – nella quale vennero custoditi i resti venerati dello scheletro a partire dal 1631. L’apice di quella civica si toccava con la sfilata del Carro di S. Rosalia, a forma di nave o di poppa di un galeone, ed allo spettacolo di fuochi pirotecnici che veniva rappresentato alla Marina, di fronte alle mura della Città. La sceneggiatura era a carico di un letterato palermitano che il Senato incaricava sulla base dell’autorevolezza acquisita, diverso ogni anno. Non si trattava quindi di una semplice esibizione di botti colorati, con “masculiata” finale. Si costruiva un’apposita scenografia, con fortini, vulcani e tutto quello che avesse a che fare con la vicenda che si sceglieva di raccontare di volta in volta al popolo entusiasta. I botti facevano parte della storia.
Alla fine del Settecento il viceré Domenico Caracciolo provò a sopprimere ‘u Fistinu con la scusa delle ingenti spese che esso comportava. Si tenga presente che alcuni costi e molti addobbi erano a carico delle maestranze della città. La popolazione insorse, forse consapevole che le reali intenzioni dell’intellettuale formato a Parigi erano altre. Al grido di «O festa o testa!» i palermitani ottennero che la tradizione venisse rispettata. Nel luglio del 1860 invece Garibaldi riuscì nell’intento con il pretesto delle barricate che ancora occupavano il Cassaro.
Fino al 1868 il Festino venne celebrato solo qualche anno e in maniera ridotta. La manifestazione era troppo pericolosa per il fragile equilibrio che si era venuto a creare. I palermitani hanno il sangue caldo e – una volta scoperto che i “liberatori” non erano per nulla migliori dei Borbone – iniziarono a scalpitare, con reazioni violente che toccarono il culmine nella Rivolta del Sette e Mezzo del 1866.
Dopo il 1868 si riprese a festeggiare S. Rosalia, ma in tono minore. Le celebrazioni di luglio si trasformarono sempre più in una malinconica sagra paesana, con le tipiche esibizioni di cantanti di musica leggera e le passeggiate con i bambini alle giostre del Foro Italico. Quest’ultimo, triste copia della cinquecentesca Strada Colonna, era stato allontanato di circa 200 metri dalla nuova linea di costa, un’informe spianata realizzata per ordine del Gen. Patton con le macerie della Seconda Guerra Mondiale, che ha sfigurato l’elegante lungomare precedente. L’enorme distesa serviva, fino agli anni Novanta del secolo scorso, ad una specie di Luna Park. Oggi l’area è ancora amorfa, ma perlomeno è stato realizzato un ampio prato – di circa 33.000 metri quadri – per il tempo libero dei palermitani. Qui si svolge la notte del 14 luglio lo spettacolo dei “giochi di fuoco”.
Riporto quanto mi ha scritto Carmelo Di Lio, un caro amico di Bivona:
«Credo che la radice di questo travisamento sia molto più antica. Ciò che continua ad alimentarla è il mascherato imbarazzo verso un’identità troppo marcata e confessionale, che di volta in volta va annacquata e miscelata con i molteplici temi sterili e contingenti, monotoni e ripetitivi, anacronistici e banali, che ci impongono da alcuni decenni senza soluzioni di continuità».
 
Travisamento che è un vero e proprio tradimento. Non più tollerabile.
 

 
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