Il “Giufà” di Nino Martoglio - di Maria Nivea Zagarella

 

Personaggio caratteristico della novellistica popolare orale siciliana, Giufà, di probabile origine araba secondo gli studiosi come pare segnalare pure il nome, è passato dalla raccolta Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani (1875) dell’etnologo palermitano Giuseppe Pitrè alle successive trascrizioni-rielaborazioni ad esempio di Italo Calvino in Fiabe italiane (1956), Giuseppe Bonaviri in Fiabe siciliane (1990), Leonardo Sciascia in Il mare colore del vino (1973) senza nulla perdere della sua originaria strana natura di “sciocco” sospeso fra stupidità e malizia. Osserva Sciascia che stupido come è, Giufà sa essere maliziosissimo, e Bonaviri conferma dicendolo, entro l’universale categoria dello sciocco, consanguineo e fratello di tanti altri consimili Giufà in bilico tra la comicità e la stupidità, tra la scaltrezza del popolo e la sua sconsolata saggezza. Di tale ambigua pasta di babbu/spertu (sciocco/scaltro) si rivela anche il Giufà protagonista della commedia di Nino Martoglio (1870/1921), L’arte di Giufà, rappresentata la prima volta al Teatro Argentina di Roma nel 1916 dalla compagnia di Angelo Musco. Opera nella quale l’autore intreccia allegramente al mondo del teatro il mondo del cinema di allora, fatto però quest’ultimo oggetto di una pungente, sapida, ironia.

Poeta, giornalista, commediografo, impresario, regista, Martoglio nel primo ventennio del ‘900 investì la sua inesauribile versatilità nel teatro, e dal 1913 al 1915 anche nella cinematografia. Nella lettera da Catania del dicembre 1902 a Stanislao Manca, critico teatrale del quotidiano romano La Tribuna, il quale era rimasto entusiasta della recitazione al Teatro Argentina di Giovanni Grasso e Marinella Bragaglia in Cavalleria rusticana (versione dialettale) di G. Verga e in La zolfara di Giusti Sinopoli, lo scrittore  precisava  che, essendoci stati in passato in Sicilia singoli geniali attori dialettali come G. Colombo (1783/1863) e G. Rizzotto (1828/1895) senza però compagnia teatrale e repertorio ad hoc, il vero teatro dialettale siciliano stava nascendo allora con Grasso e la Bragaglia, membri di una compagnia in formazione sotto il suo coordinamento/direzione, teatro che sarebbe presto stato ricco anche di un buon numero di lavori schiettamente siciliani. Alla prima compagnia presto discioltasi seguiranno quelle del 1904, 1907, 1918, e autori coinvolti nella produzione del repertorio saranno, oltre lo stesso Martoglio, Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, Rosso di San Secondo e altri minori. Quanto al cinema Martoglio si lasciò “catturare” nel 1913, scrivendo dei soggetti per la Cines film di Roma (Il gomitolo nero, Il tesoro di Fonteasciutta, Il salto del lupo) e curando la regia del film Il romanzo. Nel 1914 fondò a Roma con Roberto Danesi una sua casa cinematografica, la Morgana film, puntando a pellicole di qualità superiore rispetto alla produzione allora corrente e realizzando tre famosi film muti oggi perduti: Capitan Blanco, derivato dal suo lavoro teatrale U paliu; Sperduti nel buio, adattamento del dramma del napoletano Roberto Bracco (1861/1943), e Teresa Raquin desunto dal romanzo di E. Zola. I protagonisti erano attori formatisi nelle sue compagnie teatrali: Grasso nel ruolo di Capitan Blanco, il marito tradito, e Virginia Balistreri nel ruolo della moglie adultera Marta; ancora Grasso è il mendicante cieco violinista di Sperduti nel buio e Virginia Balistreri la mendicante Paolina figlia naturale del Duca; Giacinta Pezzana la madre paralitica in Teresa Raquin. Tutti film di successo, non solo per la coinvolgente mimica e la forte espressività corporea degli attori, le quali bene sostituivano, nel comunicare emozioni, la assenza della parola, ma soprattutto per le geniali innovazioni tecniche introdotte da Martoglio nel linguaggio cinematografico, che secondo gli storici del cinema fecero scuola presso registi del calibro di Griffith, Chaplin, Eizenstein. Innovazioni quali le riprese in esterni (la Libia, il mare, la costa di Acicastello, in Capitan Blanco; Roma e Napoli in Sperduti nel buio) mentre allora tutto si svolgeva nei teatri di posa; il “montaggio a contrasto” (alternanza interni/esterni, ambienti nobiliari/ambienti squallidi e di miseria come in Sperduti nel buio); le “dissolvenze” per i flashback (vedi i ricordi e i rimorsi del Duca in Sperduti nel buio). Soprattutto il realismo sociale di Sperduti nel buio (la cui unica copia sopravvissuta e studiata nel Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma sembra sia stata rubata nel ‘43 dai tedeschi in fuga) è stato giudicato dalla critica -fra cui spicca Georges Sadoul- una anticipazione del cinema neorealista del secondo dopoguerra, ma già giornali e critici del settembre e dell’ottobre del 1914 sottolineavano il “vero” del film di Martoglio grazie al quale la cinematografia aveva trovato la via verso l’arte, e vi sentivano tale palpito di vita, tale verità di ambienti popolari e principeschi… tale senso di umanità da fare scambiare lo schermo per un lembo di vita reale.

Il realismo di Nino Martoglio, figlio del naturalismo e verismo di Verga e di Capuana, andava in direzione opposta -scrive Carlo Lizzani- al dannunzianesimo e al filone storico-mitologico che allora produceva film come il kolossal Cabiria, il Quo vadis, Gli ultimi giorni di Pompei, o rispetto alle comiche che la Etna Film di Catania, finanziata dal “re dello zolfo” Alfredo Alonzo (1858/1920) realizzava assieme al kolossal religioso Christus e a vari soggetti melodrammatici. La Morgana Film interruppe però presto la produzione, sembra per le difficoltà create dalla Grande Guerra (partenza per il fronte dello stesso Danesi e sua morte in guerra), ma anche per il controverso rapporto di amore-odio di Martoglio per il cinema, quanto al quale, pur lavorandovi, lo scrittore aveva spesso lamentato, nei suoi servizi giornalistici, che contribuiva ad alimentare il cattivo gusto e faceva concorrenza al teatro, sottolineando il non elevato livello culturale degli attori e gli svarioni lessicali delle Dive superpagate. Di queste sue critiche troviamo conferma proprio in alcuni passi significativi della commedia L’arte di Giufà, oltre che nelle “Note Illustrative dei personaggi” premesse al testo, dove si legge che l’autore ha voluto, con queste scene, parodiare la cosiddetta arte cinematografica, fatta, secondo lui, di goffaggini e di trucchi, e esercitata in genere da tronfie nullità prive di gusto e ricche di volgari risorse. Nella sua commedia Martoglio immagina il personaggio di Pepè (Giuseppe) Moscardino, detto in famiglia Giufà perché bonario, semplicione, senza ambizioni, sostanzialmente improduttivo (tenchia morta per la suocera), il quale, come lo sciocco furbo della tradizione popolare che spesso nelle sue avventure la fa franca, si ritrova a percorrere una straordinaria, imprevista, carriera. Da individuo credulone, inizialmente gabbato quale tipo buffo con un provino fasullo fattogli dal personale della casa cinematografica Sicula Film (E com’è ca non ti persuadi ca ti sbintàru… Com’è ca nun capisci ca t’abbuffuniàru -gli dicono la moglie Mimì e la suocera donna Rachele nell’Atto I), ad attore invece insostituibile di farse grossolane (Straordinario… Immenso… Irresistibile… grande attore nato -proclamerà il Direttore Generale della Sicula Film nell’Atto II), ma economicamente molto redditizie (Sa lei -dirà il Direttore al regista conte Smiciaciato sul punto di licenziarsi- che di questi tempi la pellicola di Giufà va più e meglio della lira sterlina?) a fondatore  infine, in proprio, della casa cinematografica Moscardino Film. Nelle battute conclusive dell’ultima scena dell’Atto III al Direttore generale che puntualizza: Ah… e lei era lo scemo!... Lei era il Giufà, Pepè, che ha conservato come nome d’arte l’appellativo sprezzante che gli davano i familiari, ribatte infatti malizioso: E Giufà accussì è, ca pari babbu (sciocco) e poi è spertu (scaltro) Pepè ha infatti capito già nel corso del suo primo anno di ingaggio che tutti nello stabilimento lo “lisciano” per interesse (la pezza è longa -dirà), dalle attricette spregiudicate (le torinesi Almarosa e Gianfré) alla prima donna Sparapaoli al conte Smiciaciato al Direttore generale. Tutti lo vogliono per sé, in concorrenza reciproca e in esclusiva, al punto che per non mollarlo il Direttore generale, non solo fin dall’inizio ne assume per soggettista (inutile) il cognato drammaturgo/sceccu Liberino. Ne ingaggerà poi, dopo avergli aumentato lo stipendio a 5000 lire al mese per non farlo passare ad altre case cinematografiche concorrenti, anche la melodrammatica moglie e la suocera manesca andate a fare catuniu (baccano e rimostranze) per moralismo e gelosia nello stabilimento contro quell’harem di fimmini nudi in succinti costumi greci e romani alla mercé di quello scimiuni (scimmione) sfurcatu sfacciatu di Pepè che se la sciala fra tanta grazia di diu (cioè le femmine) a purtata di manu…

Varie sono le ragioni di godibilità del testo. Innanzitutto l’alternanza lingua/dialetto, talora accostati in divertenti qui pro quo, o più spesso mescidati in ibridi linguistici o forzature e spropositi, che accrescono l’ilarità delle battute. Parlano normalmente in siciliano fra loro Pepè, Mimì, Liberino, Donna Rachele, tranne quando si pizzicano reciprocamente in italiano con sottolineature enfatico-stizzose e/o ironiche, tipo: Chi con gallina pratica convien che razzoli (Liberino a Mimì); cumprisu tu, illustre drammaturgo! (Mimì a Liberino); quannu mai s’ha carculatu (si è tenuto in conto) il vile denaro (donna Rachele a Mimì); E comu! Finìu che la cinematografìa non è arte pirchì ci manca il divino esilio della parola? (Pepè sfottente, mentre ripete il giudizio di Liberino sul cinema muto storpiando la parola aulica ausilio in esilio). Sproposito questo da accostare a quello della serva Rosa, che storpia automobili in automorbitu, e a tutti quegli altri che infiorettano il parlare di Romeo, usciere della Sicula Film, in costante gara con sé e con gli altri per “elevarsi“ al livello linguistico dei ”continentali” che dirigono e bazzicano nell’azienda cinematografica, un Romeo che pare una prefigurazione del Catarella di Camilleri. Si vedano le sequenze in cui, svolgendo le sue mansioni, ora chiede: Scusa, cu sunnu lei?... Mi descrivono il so nomi e cugnomi… ; intanto torno e rebrico nella prighiera ca lei si ni vano dda bbanna; ora rimprovera la sfrontatezza delle attricette: dirò (al capo del personale artistico) ca… hanno entrato di pripotenza e insiemi con personi opposti (cioè di “altro sesso”) s’hanno abbandonato ad atti inconsapevoliMa chi soccessi ripubbrica!...Guarda chi c’è cca, chi sobbugliu ca ficiru…; e a una di loro, la Ciolli, per le sue procaci confidenze, dirà: Lei chi non nn’avi parenti chiù ‘ntrinsichi per cuntarci (raccontargli) questi privatanze... non sunnu cosi ca ci deve raccontare al mio dicoro! Spropositi di “umili”, a cui fanno da pendant quelli della altezzosa e ignorante Sparapaoli, che fra gli altri parlanti normalmente in italiano della Sicula Film (il Direttore generale, il Direttore di scena Pinetti, le torinesi Almarosa e Gianfrè, Smiciaciato, il bell’attore di posa Caciotta) recrimina sul giornalista, che ha osato paragonarla a Sara Bernardt, nei seguenti termini: il quale, se non ci ho dato querela, è per non avere begole e non espormi in una pubblica aula magistrale… Altrettanto “creativo” si rivela Pepè quando per fare assumere il cognato/bestia afferma: Ah… non fazzu ppi vantallu (non faccio per vantarlo), ma me’ cugnatu… è un drammiere forte! Soprattutto nell’Atto III italiano e siciliano si alternano saporosamente nel dialogare acceso fra tutti i membri della famiglia Moscardino fra di loro e con il Direttore generale fino alla nascita della nuova suciità cinematografica Moscardino, cui fornirà i capitali lo stesso Direttore che nomina Pepè suosocio d’industria”. Al livello del contenuto, risultano godibili anche gli stereotipi sottilmente e vivacemente orchestrati del tradizionale antagonismo suocera/genero, o fra cognati, o gli attriti madre/figlia, cose tutte che l’interesse economico alla fine riesce a mettere d’accordo. Non mancano inoltre l’enfasi caricaturale, opportuna sempre, ieri e oggi, che stigmatizza nel testo la non-arte a penna e in pellicola, alias i drammi prolissi e inverosimili scritti da Liberino (fanfarunati e bestialità per Mimì) e i suoi “inservibili” soggetti cinematografici a detta dello stesso Direttore (Caro Pagliuca, sarà una fatalità ma è un anno che sta qui e la Società non ha ancora potuto trarre profitto dei suoi talenti..), o l’ironia, di Pepè che sfotte il cognato (L’omu di geniu cu’ fussi tu?), o che investe le stesse assurde comiche di Pepè, quali le giudica la moglie (Qual è l’arte, chidda ca ci faciti fari l’ova comu fussi na gaddina [una gallina]? Chidda ca u faciti satari [saltare] di na finestra longu comu un citrolu [cetriolo] e arriva nterra largu comu na lasagna?), o quali le descrive lo stesso Pepè/Giufà, quando nei panni di Orazio Coppula (sic!) è sopra un ponte sol contro Toscana tutta [e] ddocu -dice- arriva la bomba col gas asfissiante, Oraziu si ntuppa le nasche, si jetta nel fiume, a fiscina (a fiocina), e nesci vistutu di pisci-spatu (pescespada).

L’ironia divertita è dello stesso Martoglio, e corre tutta la pièce! Anche se viene bene mimetizzandosi non solo nella lepidezza qua e là, e finta ingenuità di Pepè, assai sensibile invece al femminino e alle sue attrattive, ma soprattutto nelle icastiche battute dell’avvocato Sbenta (il cognome rimanda al siciliano sbintari, cioè smascherare!) in visita allo stabilimento. L’avvocato Sbenta si dichiara ammiratissimo dei locali, ma anche delle tre celebrità mondiali che illustrano la Sicula Film (Sparapaoli, Smiciaciato, Caciotta), alle quali  darà il colpo di grazia finale quando, al roboante elogio del Direttore generale circa il nuovissimo lungo metraggio inscenato dal conte e dove agiscono la Sparapaoli, Caciotta e sei leoni (sic!), farà eco alle ammirate parole di quello: Tutti i re della cinematografia insomma… con la sua (sferzante) osservazione:.. E degli animali…, subito addolcita, per la reazione piccata del Conte, nella innocua, convenzionale, spiegazione: Il signor direttore ha detto che vi agiscono anche dei leoni, quindi anche i re degli animali. E va sottolineato, per concludere, che pure il cognome “Smiciaciato” in siciliano allude ironicamente a un tipo ignorante e scalcinato!               

 

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