“Il mio diario – 10” di Antonio Saccà
- Dettagli
- Category: Scritture
- Creato: 17 Ottobre 2024
- Scritto da Redazione Culturelite
- Hits: 208
La tarda serata del giorno 10 ottobre, una perdita di liquido alla gamba destra, con piaga, rese preoccupati chi scorgeva questa situazione. Il sospetto addirittura di una cancrena, persino di una amputazione, e si oltrepassava anche tale ansietà. Io mi ero già convinto della necessità di una valutazione, e il mattino l’avrei adempiuta. Ma la preoccupazione altrui fu maggiore della mia voglia di aspettare. Sicchè, con qualche furtività che non percepii, recandomi a dormire, fui destato, e mi si disse che era giunto un medico. Non era un medico, piuttosto un conducente di ambulanze con una infermiera. La loro presenza e l’essere stati chiamati mi irritarono. In ogni caso diedi in vista la gamba, ed il volto della infermiera, o che fosse, stranì. Da preoccuparsi? Da preoccuparsi. Pericolo di infezione, di cancrena? Pericolo. Dico del mio incontro il giorno successivo, se vale anticipare qualche ora, la donna, infermiera o che, vuole essere certa che io mi recherò a farmi osservare, e riafferma il pericolo.
In questi recenti anni ho vissuto circostanze dolentissime, e nello stesso mese di ottobre, 2021, un malessere mi costrinse a correre all’ospedale, e ne uscii mesi e mesi successivi con 18 giorni di delirio e incoscienza; successivamente altri malesseri, e ambulanze, sicchè, specie nel buio, mi sembra di scendere in un abisso senza porte, finestre, e non uscirne. Ogni intanamento ospedaliero , definitivo. Senza ritorno. Però. Se effettivamente rischio la cancrena, una gamba strappata, o l’irrevocabile? Qualche ora ppotrebbe essere ferale?Chiedo. mi si dice e non mi si dice. Dico:no! Poi, immediatamente:sì. Rivivo i percorsi dell’autombulanza, la lettiga, le cordature,le minuscole burocrazie. E’ quasi notte. Attraversiamo Roma facilmente. Non so dove mi recano. Un viaggio breve, silenzioso, scomodo. Giungiamo. Aprono le porte. Mi discendono. Mi scaricano su di una lettiga con ruote. Gente con abiti ospedalieri. E di corsa in un saloncino.
Il saloncino è una sorta di deposito di esseri umani. Lettini, lettini, e persone stese. Folla. Sorprendente quante persone patiscono malesseri. Ed è un minimo luogo. Quello ha il viso pallidissimo, steso quasi cadaverizzato, inerte; quell’altro grida sofferenza, proprio il dolore che tenta sfogo nella voce; no, quello è il fantasma della rovina umana, a che può giungere l’annientamento, stecchito, abiti spenzoloni da spaventapasseri, un cappelluccio da babbonatale invecchiato, cammina strascicato, si ferma, indietro, cammina, va, viene insensatamente, si rintana, si alza, sbanda, va, torna, si ferma, farà questa vicenda l’intera notte, ed il mattino, si reca altrove, qualcuno gli si accosta e consegna involucri, forse cibo, più che un malato sembra un mendicante che si è accampato nell’ospedale,.
Aspetto, ecco, il mio incubo: ore a vuoto, ore in cui ti sembra di essere dimenticato; ore in cui ti sconsoli di stare in ospedale, e vorresti tornare a casa, pure da malato, ma non in quella prigione senza neanche guardiani che è l’ospedale. Ma sbaglio. I guardiani esistono, e trascinano i lettini, non me. Riesco ad afferrare un trascinatore. Dichiara che altri sono in condizioni peggiori e mi precedono. La notte del giorno 10/11.
11 ottobre
Le porte si spalancano automaticamente, lettighe, ancora, di continuo. Chi grida, chi è steso e pare smorto, chi agita il corpo come subisse elettricità, lo spaventapasseri sempre a girare insensatamente. Io ho dormito al minimo. E colui sempre sveglio. Infine mi chiamano. La gamba, le gambe, da sanare, certo. Ma nessuna cancrena. Potrei, dovrei essere curato in ospedale, mi sposterebbero dal pronto soccorso in giornata. Vi sono anche problemi nel sangue, che hanno prelevato e analizzato. Sì, opportuno andare. Accetto.Mi dicono, ore 14, che scorrono ed io rimango al pronto soccorso. La porta si apre insostabilmente, lettighe, chi grida, chi si lamenta, chi sembra smorto, lo spaventapasseri talvolta resta fermo, pare uno straccio appeso. Alle ore 15 un ragazzo mi si avvicina, mi nomina, e dice che viene a trarmi . Lo seguo. In altri corridoi altre lettighe. Un mondo nel mondo. Ormai divido l’umanità, morti, malati, sani. Appena uscito vedo la luce pomeridiana che striscia nei palazzi, e gli alberi, ed il cielo. E’ bastata una notte e mezza giornata ad oscurarmi la vita.
L’Ospedale è a Montesacro. Giungiamo facilmente. Smontiamo. Riconoscimento. Stanza. Terzo piano. Sembra un albergo. Non stanzoni , appartamenti. Pulitissimo, vista . luce. Due giovani infermieri, premurosi, mi vedono alto, quasi bianco, con il bastone, viso incavato negli occhi e nelle guance, e mostrano disposizione filiale. Il letto è un normale letto. Presto la cena. E’ venerdì, servono pesce, al Pronto Soccorso ed all’0ospedale. Orrendo. Il primo piatto è una brodaglia da rifiutare. Nessuna presenza di medici. Credevo di stare da solo. No. Una tenda mi separa da un altro letto. Un omone pancioso, grosso di volto , anche lui in stanza. Minimo saluto. Cerco di dormire. Luci che mi infastidiscono. Di colpo luci sfarzose, una donna, un uomo, in colma notte. Provvedono al compagno di stanza. Chiedono da me. Infine silenzio. Cerco di dormire.
12 ottobre
Albeggia. Luci. Prelievi,gli stessi del Pronto Soccorso. Aghi. Il mio sangue. Poi un tubicino per inondarmi, ed infatti appendono contenitori di liquidi e mi irrorano. Flebo. Colazione. Caffellatte e biscotti? Va bene? Anche pillole. Perché? Diuretiche. Ore senza apparizioni. Verso le 11 , le gambe. Sfasciano cautamente la gamba piagata, inumidiscono perchè lo strappo della garza non mi sanguini. Disinfezione, garza, fasciatura. L’altra gamba , un emolliente basta, solo scagliette e pelle secca.
I medici sono invisibili. Ma è sabato. Capisco. E la domenica, più solitudine. Ma il problema sono gli infermieri. Ripeto l’esperienza della pandemica e della mia lunga sosta in ospedali. Ne ho scritto nel libro: HO VISSUTO LA VITA-HO VISSUTO LA MORTE (Armando Editore), ed è l’essenza della vicenda . Il malato è un recluso, a suo modo, incarcerato. E’ vero che potrebbe uscire, ma è non meno vero che le sue condizioni non gli consentono di uscire, spesso. Il cuore, le gambe, il fegato, o che lo inchiodano, lo debilitano, necessitano di esplorazione. Anche la netta debilitazione, talvolta è legato, barriere. Al dunque, il recluso è libero di andare ma costretto a restare,. E ‘ il dramma. Perché questa impotenza assoggetta, diventa timore, la mente immagina che non avendo potenza di andarsene è in pugno agli altri. Non i medici, invisibili, ma gli infermieri. Taluni dei quali comprendono il loro potere e lo impongono. E sono miserrime, miserabili sopraffazioni, indifferenze, frettolosità, incurie, massimamente gravi per l’indifesa di chi le riceve, il malato, spesso anziano, e, ripeto, incapace di andarsene o tutelarsi,. E’ il punto drammatico, dicevo, della condizione ospedaliera. Occorre che quanti hanno relazioni più frequenti con il malato siano suggeriti di essere pazienti, premurosi, accorrenti, senza di che la vita ospedaliera è una prigione con guardiani aguzzini.
Il vitto è spesso brodaglia, acqua colorata. Sarebbe il primo piatto. Una bustina di formaggio dovrebbe insaporire. Accettabile il secondo piatto, carne e verdura, una minima confezione di olio, eccellente, arricchisce la verdura cotta. Quindi una mela, o una pesca o confezioni di frutta , acqua minerale. I pasti rimarranno medesimi, talvolta il primo piatto è quasi consumabile. Io mi sono risarcito da casa-.
Domenica 13
Solitudine più che mai. Nell’appartamento separato da un tendone vi era un altro paziente, effettivamente paziente. La divisione è radicale, i pazienti pazienti, ed i pazienti impazienti, con tratti impazientissimi. E’ il mio caso. Questo trasforma il ricovero in reclusione, e un ritardo, una mancanza affligentissimi. Oltretutto manco di possibilità comunicative oltre il telefono e nessuno mi sa attuare una connessione. Mi sento distanziato , aggiungo che i bagni non hanno il supporto che innalza il water, rendendo scomodo per una persona alta le funzioni. Il mio vicino è un rumeno, gran faccione, gran pancione, mi sente discorre al telefono di faccende sociali, e interviene con buon senso. Pare che se mi fanno avere il computer riuscirebbe a darmi connessione con il mondo. mi schiarirebbe la vita. E’ premuroso.
14-15-16
Disgraziatamente il rumeno, che patisce al respiro, se ne va, ed io che avrò il computer nella serata resterò senza comunicazione. Inimmaginabile come ormai bisogniamo di tali strumenti e quanto debilita la privazione. Nessuno mi sa operare la trasmissione di messaggi. Temo anche vi sia un pidocchioso risparmio. Qualcuno promette, qualcuno tenta, invano. Conoscenti esterni verranno, ma a giorni. Inaccettabile che un ospedale non dia connessione.
Le analisi. Qualche notizia. Ho delle anemie, non gravi ma da risolvere. Una dottoressa infine si rappresenta parla poco ma precisa. Potassio, ferro, vitamine. Devo restare? Meglio di sì. Vorrei andarmene e infine”comunicare”. E’ sbalorditivo che non vi sia questa ormai necessaria opportunità. Non è immaginabile la tristizia di non potere ricevere e inviare scritti. E’ un ulteriore suggerimento. Appunto in quanto segregati fondamentale favorire la comunicazione.
In stanza accanto è posto un signore anziano, grida, parla a se stesso, vocione. Il peggio di queste esperienze è avere prossimo chi ha male alla mente. Una mente che sconnette, farnetica, scorre incontrollata, e tu la senti, ti penetra, la temi, anche, quasi potesse coinvolgerti, travolgerti.
Medicazioni, nient’altro che medicazioni. Cuore a posto, ossigenazione a posto, pressione a posto, il ferro, il potassio, provvederemo, la gamba, la saneremo. Andarmene via, via, via, nel mondo banale, corrente che ora mi sembra il raggiungimento della felicità. Voglio rivedere il sole. Da casa mia.
Ma la conclusione è sorprendente. Un infermiere, di quelli cortesi e opportuni che mi avevano accolto all’inizio, ritorna oggi 16 . Con la medesima cortesia e premura. Come scritto avevo ampiamente richiesto la possibilità della connessione. Vanamente, ne avevo richiesto anche ad una giovane infermiera. Altrettanto cortese. Riviene il giovanotto ed in un secondo o poco più mi risolve la connessione. Lo voglio ringraziare. Il suo nome è Alessandro. E ringrazio la ragazza. Si chiama Sofia. Sono entrambi di bell’aspetto fisico e morale. Vi sono tantissimi giovani. Fa piacere. Conforta pensare che siano come Sofia e Alessandro. Sono fidanzati. Auguri. Li meritano. Valorizzano il loro impegno e la vita-