“Il Viandante” di Galimberti, una etica contro la catastrofe – di Maria Nivea Zagarella

Parlare di “fraternità”, mentre arde la guerra in Ucraina e a Gaza con propaggini nel Mar Rosso e in tutto il Medio Oriente, oltre che in altri punti caldi del pianeta, pare una beffa crudele. O è uno “schiaffo” potente alla nostra “cieca” umanità? La fraternità è per Umberto Galimberti, autore del ponderoso saggio L’etica del viandante, l’unica alternativa oggi per evitare l’autodistruzione della specie umana e l’irreversibile inabitabilità della Terra.

Chiamando a raccolta nel suo libro filosofi, da Platone e Aristotele a Nietzsche Heidegger Jaspers ai più recenti Emanuele Severino e Gunther Anders, e accanto ad essi antropologi, fisici, sociobiologi, etnologi, chimici, ambientalisti e intellettuali vari, Galimberti traccia una documentata e argomentata “storia” del pensiero e della civiltà occidentali, scandendone le fasi con mano sicura e densa vis polemica, senza alibi eurocentrici, e vergando a un tempo le linee di una etica nuova, pensieri ancora tutti da pensare -sottolinea, ma necessari -suggerisce-, imprescindibili. Fatta la premessa che gli uomini abbiamo sempre abitato “la narrazione“ che nelle varie epoche abbiamo dato del mondo, nell’antichità attraverso il mito, nel medioevo attraverso la religione, nell’età moderna attraverso la scienza, nell’oggi attraverso la tecnica, l’autore ripercorre in successione, ma con continui ritorni, quasi a scalpellare con forza le menti dei lettori, il “tempo ciclico” dei Greci in cui l’uomo trovava il suo limite nella natura, sfondo immutabile, e l’agire etico e politico (tecnica regia per Platone perché conosce ciò che è meglio) orientava il fare tecnico; il “tempo escatologico” della tradizione giudaico-cristiana, fondativo, nella sua scansione triadica di passato presente futuro, della Storia e del “senso” della Storia come un disegno/progetto da realizzarsi, o da una promessa iniziale (la Salvezza cristiana), o nel tempo (il Progresso, versione laico-secolarizzata della salvezza, mito della modernità scientifica dal ‘600 in poi); la “postmodernità” con il suo relativismo culturale, incertezza valoriale e individualismo assoluto, imperio della tecnica, cioè il nostro oggi. Quello che sembrava entro l’etica antropocentrica affermatasi con la modernità, etica che vede l’uomo come vertice/fine del creato, e signore e possessore della natura (Cartesio), un cammino trionfale di emancipazione/affermazione della Ragione umana universale tesa a conoscere possedere dominare il mondo naturale, e a eliminare ignoranza povertà malattie dispotismi e servitù sociali varie, si è invece arenato (e carico di colpe storiche, fra le quali -ricorda Galimberti- la “falsa coscienza” dell’esportazione/imposizione agli altri popoli della “salvezza” attraverso il “battesimo” e “la civiltà”, o il male “razionalmente programmato” dal nazismo della Shoah) nell’odierno umanesimo senza futuro. Il ridimensionamento/fallimento oggi dell’umanesimo antropocentrico del dominio non dipende solo da fine ‘800/inizio ‘900 dalla scoperta (Mach, Plank, Einstein, Heisenberg…) della non conoscibilità “oggettiva” della natura, per cui c’è differenza -per l’autore- fra l’uomo-viaggiatore di ieri o attuale, che continua a muoversi dentro illusorie escatologie religiose o laiche dalle mete/destinazioni per cosi dire “preconfezionate”, e l’uomo invece viandante che “erra senza meta” in un Universo a cui il viandante sa di non potere dare un senso (ontologico-conoscitivo), né l’Universo può dare un senso a lui. Il viandante -precisa Galimberti la cui visione dell’esistenza è in sintonia con il vitalismo nicciano dell’Oltre-uomo e con l’esistenzialistico fluire dei “possibili” (Heidegger e Jaspers) - è viandante perché sa che l’uomo non può legittimare la sua presenza e la sua missione nell’Universo e nemmeno può legittimare l’Universo secondo la logica umana. Dipende però il crollo dell’umanesimo del dominio anche dall’evidente a tutti ormai “insostenibilità ecologica” di un certo “progresso” (alias il buco dell’ozono, la deforestazione, l’inquinamento di fiumi laghi mari, l’effetto serra, lo scioglimento dei ghiacciai, l’assurdo ancora del ricorso al nucleare e/o al miglioramento degli arsenali atomici…), e dalla sua “insostenibilità sociale”, dato l’enorme divario tra ricchi e poveri e a livello planetario e nei singoli Stati.

Galimberti distingue fra vero progresso e vero sapere, che sono emancipazione e miglioramento delle condizioni umane, e “sviluppo” invece quale mero incremento quantitativo dei “mezzi tecnici”, già da Jaspers denunciati nel 1949  come riduzione dello spirito all’apprendimento di nozioni e all’addestramento a funzioni utili. Strumenti e apparati che non sono più oggi “mezzi” per raggiungere “un fine” posto dall’uomo (soddisfare cioè un reale bisogno umano), ma il ventaglio illimitato dei “fini” scaturisce meccanicisticamente dall’autopotenziamento/perfezionamento dei “mezzi” stessi e gli individui ci limitiamo a scegliere fra le possibilità di fini da essi offerti, con l’aggravante -sottolineano Galimberti e Anders- che ormai la “capacità di fare” della tecno-scienza è di molto superiore alla capacità umana di prevedere gli effetti del ”fare”! Idem per l’efficienza economica che, assumendo il denaro (anch’esso da mezzo divenuto “fine”) quale simbolo di tutti i valori, e intrappolati gli individui nella circolarità produzione/consumo e scartati i poveri a peso morto della società, perché non contribuiscono al consumo, ha solo nella crescita e decrescita il suo mito/spauracchio. Ma -scrive Galimberti- la crescita all’infinito non è possibile, sia perché i 4/5 dell’umanità non devono continuare a sacrificarsi per l’Occidente e la Cina, che si dividono l’80% del reddito mondiale, mentre tutti gli altri paesi solo il 20%, sia perché le risorse della terra non sono infinite e gli attacchi umani alla biosfera hanno già raggiunto una soglia limite, biosfera a cui si devono la generazione dell’aria, la purificazione dell’acqua, la conservazione del suolo da cui dipende interamente (sic!) la vita dell’uomo. Nessun egoistico sovranismo potrà salvare -osserva l’autore- le patrie natìe, se muore la Terra unica Patria, nell’universo angosciante, per l’uomo, il cui corpo è organicamente connesso nei processi naturali, senza alcuna supremazia, a tutti gli altri enti di natura, animati e inanimati. E cita il fisico Fritjof Capra (2002). Nessun organismo -afferma Capra- può vivere in una situazione di completo isolamento. Per i loro fabbisogni energetici gli animali dipendono dalla fotosintesi delle piante, e queste a loro volta dipendono dall’anidride carbonica prodotta dagli animali (così come dall’azoto che i batteri fissano alle loro radici) e nel loro insieme, piante, animali e microrganismi regolano l’intera biosfera e mantengono quelle condizioni che rendono possibile la vita. E a rincalzo riporta Galimberti anche le parole del sociobiologo Edward Osborne Wilson (2006) per il quale l’umanità, con il suo potere distruttivo è la prima specie, nella storia della vita a diventare una forza geofisica, donde l’impellente necessità di una limitazione volontaria della pervicace manipolazione e alterazione della natura, e l’avvertimento che al ritmo attuale metà delle specie vegetali e animali si estingueranno entro la fine del nostro secolo. Attualissimo pertanto risuona l’antico monito della misura lanciato a se stessi nell’antichità classica dai Greci (Chi non conosce il suo limite, tema il destino), i quali -ricorda Galimberti- incatenarono Prometeo, perché aveva alimentato negli uomini, dopo il dono fatto loro della tecnica, cieche speranze (Eschilo) circa il loro destino di mortali, mentre l’umanità tecnologica di oggi ha rotto quelle sue catene!

Perciò l’uomo-viandante di Galimberti, privo di un senso ultimo, affacciato sul Nulla del suo destino, perché la morte del Sole fra quattro miliardi di anni farà approdare l’avventura umana sia in termini individuali che in termini cosmici al Nulla, nomade errante senza barriere e confini territoriali aperto all’incontro/rapporto con tutti gli individui e i popoli che incontra nella sua quotidiana erranza, consapevole che l’attuale storico predominio della Ragione tecno-calcolante (memoria informatica compresa) per la quale tutto va normato, monetizzato, calcolato, quantificato, prefigurato in una ininterrotta catena di utilità efficienza funzionalità velocità, è soltanto una delle tante costruzioni/narrazioni culturali, che non esaurisce la totalità dell’essere umano (che è anche dimensione irrazionale) né l’imprevedibilità/molteplicità fenomenica del mondo-della-vita (Husserl) e la costituzionale anarchia del nostro cervello (mosso dalla stessa energia che fa evaporare le acque dei mari, crea le nuvole che irrorano la terra e fanno sbocciare i fiori), l’uomo–viandante, dicevo, abbandonato alla corrente della vita, va alla ricerca di altre modalità di uomo e di abitare la Terra. Preso atto dei limiti (etnocentrismo), contraddizioni (democrazia, diritti umani, triade libertà-uguaglianza-fratellanza grande merito storico, ma calpestati e disattesi a ogni sormontare di ragione di mercato e di egemonia), rischi (insostenibilità) del “modello occidentale” di sviluppo, che non può per quanto detto finora assurgere a “meta“ dell’intero genere umano e presumere di porsi -rimarca Galimberti- come la forma più alta di civiltà, il Viandante “relativizza” e abbandona l’etica antropocentrica (uomo “soggetto” e natura “oggetto“ da sfruttare) per una “etica nuova” che integri in sé diritto delle genti, primato della Vita, diritti della Terra. E richiama alle loro responsabilità la Scienza, che non è neutrale (gli scienziati conoscono bene -dice l’autore- gli effetti distruttivi di certe scoperte usate per fini di profitto, egemonia, consumo ) e perciò deve “autolimitarsi”, e la Politica, che  -con riferimento al significato di “prossimo” come il “Terzo” di cui scrive Emmanuel Lévinas in Etica e infinito (1982) - non si può ridurre all’accordo bilaterale tra me e te (cioè solo fra noi due) che può avvenire su qualsiasi base, fatti salvi i nostri interessi, ma [è e deve essere] quell’accordo tra me e te che si fa carico del Terzo, che sono le vittime (sic!) del tuo e del mio sistema, passando finalmente da una rigidamente territorializzata Ragion di Stato a una de-territorializzata e universale Ragione d’Umanità. “Ragione di Umanità” che è quella cogente verità-necessità che le generazioni giovanili- sostiene Galimberti- hanno già capito (vedi Greta Thunberg e le proteste dei Venerdì prima del covid-19 o le attuali incursioni degli imbratta-monumenti e opere d’arte). Ma chi li sostiene? Chi amplifica e raccoglie la loro voce? E ancora: non è una parola vuota, maschera senza sostanza, una cosiddetta “democrazia” che non investe in beni collettivi quali sono la scuola, la sanità, la previdenza, i trasporti pubblici, taglia le spese allo stato sociale e investe invece in misure di sicurezza, scelte coercitive, e continua a privilegiare fortune private e il mercato? Una profonda rivoluzione culturale dunque deve avvenire, e il Viandante di Galimberti trova conforto alla sua ricerca nell’idea nicciana dell’ ”uomo” come animale non stabilizzato e nelle definizioni di Jaspers dell’ “uomo” come essere incompiuto e esistenza possibile, un essere che ha la possibilità di “trascendersi”, di evolvere ulteriormente rispetto al suo stato attuale perché ciò contraddistingue la sua natura. Nella “incompiutezza” dell’uomo insomma sono custodite le possibilità ancora inespresse della sua identità da venire. Donde la possibilità di “nuovi pensieri da pensare” e a cui educarsi. Quali?   

Elaborare innanzitutto, e re-imparare ad agire secondo una etica biocentrica e planetaria, la quale assuma -scrive Galimberti- la Vita (Bíos) della Terra e i diritti della Natura come misura ultima di tutte le cose, facendosi carico di tutti i viventi e delle condizioni che permettono la vita ai viventi. Inoltre, cosmopolita, rispettosa delle diversità culturali e dei diritti di tutti i popoli, che vada oltre la tradizionale finora cultura del nemico e della guerra, dato che già l’ecosistema e le sue profonde ferite hanno travolto i rigidi confini degli Stati, che dovrebbero -suggerisce Galimberti- vincolarsi con un “nuovo contratto sociale”  (come già ai tempi di Hobbes per evitare “la guerra di tutti contro tutti”) a rinunciare a parte dei loro interessi. Un cosmopolitismo che traduca finalmente in pratica quel sentimento di fraternità, che anticipato dall’amore per il prossimo del Cristianesimo, e affermatosi con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, non ha finora concretamente trovato realizzazione nella storia. La “libertà” -precisa l’autore- ha avuto un seguito nella liberaldemocrazia, “l’uguaglianza” nella socialdemocrazia, la fraternità, al di fuori della teorica Dichiarazione dei diritti dell’uomo, è confluita nell’aggregante sì, ma anche tragicamente divisiva logica dell’appartenenza (il nazionalismo, la classe sociale). Invece la fraternità va fattivamente “universalizzata” e estesa, oltrepassando ogni barriera di cultura e etnia, non solo a tutta l’umanità, perché siamo tutti membri della stessa specie umana, ma anche, con un grande salto storico di qualità -rimarca l’autore- a tutte le creature animate e inanimate del pianeta sul modello del Cantico delle creature di San Francesco, enti ai quali finora -denuncia Galimberti- nessuna etica occidentale ha mai rivolto la sua attenzione. La Terra -ribadisce concludendo- non è materia prima da usare fino all’usura ma nostra dimora da salvaguardare perché qui e non altrove ci è concesso di vivere, Terra che è in sé portatrice anche -come teorizza Hans Jonas, alunno di Heidegger, in Il principio di responsabilità (1979)- della dignità teleologica di “fine in sé”. Nessuna etica tradizionale -scriveva già Jonas negli anni ’70 - all’infuori della religione (e non si può non pensare oggi all’Enciclica di papa Francesco del 2015 e alle nate da poco, nel 2017, Comunità Laudato si’ avviate da Carlo Petrini assieme alla Diocesi di Rieti, anche se Galimberti non fa mai riferimento né all’una né alle altre), ci ha preparati a questo ruolo di amministrazione fiduciaria (cioè all’idea di una natura extraumana data in custodia all’uomo, e dunque è  doveroso un altro nostro riferimento al richiamo di papa Francesco all’invito di Genesi 2,15 a “coltivare e custodire il giardino del mondo”), e ancor meno lo ha fatto la visione scientifica dominante della natura… [che] ci preclude con risolutezza anche la possibilità stessa -sottolineava Jonas- di pensare la natura come qualcosa che va rispettato, riducendola all’indifferenza della necessità e del caso e privandola di ogni dignità teleologica. Eppure –concludeva lo stesso Jonas- un muto appello a preservarne l’integrità sembra salire dalla totalità minacciata del mondo vivente. E a proposito di etiche mancanti e/o manchevoli si vuole qui ricordare che la fraternità uomo-natura è retaggio antico dell’etica di vari popoli dell’Amazzonia, come documentano, fra gli altri, il libro Terra Futura, scritto nel 2020 a quattro mani da papa Francesco e Carlo Petrini, fondatore di Slow Food (1989) e promotore della rete internazionale di Terra Madre (2004), o i noti racconti dello scrittore cileno Luis Sepulveda Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà (2015) e Storia di una balena bianca raccontata da se stessa (2018), che narrano dei costumi dei Mapuche e dei Lafkenche, che portano inscritta tale fraternità nel loro stesso nome. Mapuche etimologicamente significa “gente della Terra” e Lafkenche “gente del Mare”. E lo stesso Galimberti nel cap. 25 non si esime dal riportare, riprendendolo dal libro di Ernesto Balducci Montezuma scopre l’Europa (1992), il nobile discorso, rimprovero e profezia a un tempo, rivolto nel 1854 dal capo Seatle della tribù indiana dei Dwamish al presidente americano Franklin Pierce che voleva comprare il loro territorio. Come potete -diceva capo Seatle- acquistare o vendere il cielo, il calore della terra? Non è l’uomo che ha tessuto la trama della vita: egli ne è soltanto il filo. Tutto ciò che egli fa alla trama lo fa a se stesso. Affermava inoltre capo Seatle che l’uomo rosso e l’uomo bianco sono fratelli: il nostro dio è il suo stesso dio… Egli è il dio degli uomini e la pietà è uguale per tutti, tanto per l’uomo bianco, quanto per l’uomo rosso. Questa terra è per lui preziosa, nuocere alla terra è come disprezzare il suo creatore. E con fermezza ammoniva: Anche i bianchi spariranno forse prima di tutte le altre tribù. Contaminate il vostro letto e una notte vi troverete soffocati dai vostri rifiuti.    

Saggezza antica che, mentre ripropone il senso del limite, ribadisce, con lungimiranza anticipatrice e nativa scelta esistenziale, il senso della comunità, sia quale interdipendenza degli “uomini (esseri non autosufficieni) fra di loro”, come già segnalava Aristotele nella Politica (Se uno entra in una comunità e pensa di potere fare a meno degli altri o è bestia o è dio), sia quale interdipendenza “uomo-natura”, se è ancor più specificamente vero che -come scrive Capra- secondo la teoria di Gaia, elaborata da James Lovelock e Lynn Margulis, l’evoluzione dei primi organismi viventi procedette di pari passo con la trasformazione della superficie planetaria da un ambiente inorganico a una biosfera in grado di regolarsi. E oggi noi, generazioni del XXI secolo, abbagliati e distratti da una euforia tecnologica “di potenza” e da un cinico benessere, che non sono un reale “bene essere”, siamo, nonostante i tanti summit e forum e protocolli e allarmi, a un passo dal bivio/abisso di provocare, per avidità, indifferenza emotiva e chiusure mentali, o peggio, per fatalistica forse rassegnazione, la distruzione dell’immenso patrimonio biologico formatosi in centinaia di milioni di anni, e la nostra stessa autodistruzione! Una svolta /argine potrebbe perciò essere proprio una nuova etica “planetaria e cosmopolita” nei termini prima detti, scelta di saggezza/prudenza (la phrónesis aristotelica) in relazione alle attuali contingenze, e in grado di fare spazio a ciò che finora sebbene “già nato” e intuito (la fraternità universale uomini/natura) non è pienamente “germogliato”! Con il crisma tuttavia insopprimibile -ci ricorda Galimberti nel cap.26- della provvisorietà, consustanziale all’ “uomo-Viandante”, che sa che i giochi per il futuro non sono mai fatti in modo definitivo e resta perciò fedele alla sua avventura ignota promossa proprio dalla perdita [escatologica] del futuro come promessa.    

 

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