Prefazione di Ida Rampolla del Tindaro a "I versi e le parole" di Giuseppe Pappalardo (Ed. Thule)

Giuseppe Pappalardo è ben noto come poeta dialettale e come studioso e cultore del dialetto siciliano. Poesia e storia del dialetto sono sempre state da lui curate con pari interesse, anche perché nascono entrambe da un profondo amore per la sua terra. Lo studio delle espressioni linguistiche siciliane ha spinto il poeta ad illustrare in numerose conferenze, anche nelle scuole, sia la profonda valenza espressiva dei termini dialettali, sia la ricchezza di apporti linguistici derivanti dalle diverse dominazioni straniere che si sono succedute in Sicilia attraverso i secoli. Questi aspetti sono messi in rilievo anche in una sua raccolta di proverbi siciliani, «Alla ricerca del buon tempo passato», nella quale risalta l’intreccio tra civiltà, storia, costume e colore locale che ha dato vita, anche dal punto di vista linguistico, alle efficaci espressioni dell’antica saggezza popolare. E Giuseppe Pappalardo si è ispirato, pure nella poesia, agli aspetti più significativi del mondo isolano, esprimendo gioie, sofferenze, nostalgie e ricordi in quel dialetto che ha un’immediatezza e un’espressività spesso intraducibili in italiano.

Le sue opinioni sul dialetto siciliano offrono inoltre un importante contributo alle tante discussioni che si sono sviluppate tra gli studiosi a proposito di alcuni aspetti linguistico-letterari, come ad esempio la distinzione tra “poesia dialettale” e “poesia in dialetto” e la possibilità o meno della sua scrittura attraverso l’alfabeto fonetico.  Ma il poeta si rende anche conto che il dialetto dell’isola, legato in origine all’espressione del mondo tradizionale siciliano, ha modificato nel corso del tempo le sue fonti di ispirazione e ha dato vita a una poesia aperta a nuove tematiche di carattere anche sociale e psicologico che hanno richiesto l’uso di nuove forme espressive e l’abbandono di alcuni schemi classici. Queste considerazioni offrono vari spunti di riflessione anche a proposito di questa raccolta, «I versi e le parole», la prima pubblicazione di Pappalardo in lingua italiana.

In questa nuova opera le poesie rivelano, anzitutto e ancora una volta, l’interesse dell’Autore per la lingua e per i suoi meccanismi. Il titolo, in cui i “versi” precedono le “parole”, è infatti significativo. La parola, com’è noto, nasce prima del verso. La parola - formata da suoni e, nello scritto, da segni - si trasforma e si collega alle altre parole attraverso subordinazioni e coordinazioni, e assume particolari toni che rivelano lo stato d’animo e le intenzioni espressive di chi usa la lingua. E tuttavia anche questo non è ancora il verso, che caratterizza la poesia, nel quale è soprattutto valorizzata la musicalità della parola, che nel verso è disposta in modo da creare un particolare ritmo, messo in evidenza anche attraverso la rima. Tutto ciò è naturalmente successivo alla nascita della parola.

Il verso indica il raggiungimento della poesia attraverso la parola e attraverso una forma d’espressione adeguata.

Il rapporto tra parole e versi, cioè tra lingua e poesia, è stato affrontato da grandi linguisti e glottologi (ricordiamo ad esempio Antonino Pagliaro, che nel suo saggio «La parola e l’immagine» affrontò il problema di questi rapporti, e cioè, tra l’altro: la risorsa incomparabilmente ricca e produttiva offerta alla poesia dalla metafora; i mezzi con cui la lingua agisce sulla poesia attraverso gli elementi evocativi del reale; i rapporti tra il ritmo e l’arte; e così via. Il titolo che Pappalardo ha dato alla sua silloge fa pensare appunto a tutti questi aspetti, ma la precedenza data al verso rispetto alla parola indica il valore prioritario che l’Autore dà all’espressione poetica. Questo è confermato sin dalla prima lirica; in essa “i versi e le parole” esprimono immagini delicate e suggestive legate a un’ispirazione che nasce e “fermenta” da sempre nel cuore dell’uomo e che quindi, da sempre, è all’origine della poesia, che è certo basata sulla scelta e l’accostamento delle parole secondo determinate leggi, ma soprattutto sul gusto e l’ispirazione del poeta, come lo stesso Pappalardo afferma nelle considerazioni critiche sul dialetto pubblicate in «Çiuri di notti»  (Palermo, Thule, 2019).

In queste poesie in lingua italiana, l’Autore esprime anzitutto il suo mondo interiore. C’è sempre una tristezza contenuta, una dolorosa consapevolezza del tempo che passa inesorabilmente; e c’è, predominante, il tema del ricordo che, come diceva Pascoli, è strettamente legato alla poesia in quanto “la poesia non è se non un ricordo”; ma a quest’affermazione bisogna aggiungere quella di Longanesi, per il quale “i ricordi sono come i sogni: si interpretano”. In queste liriche, l’interpretazione è sempre espressa con una serena adesione alla realtà e nello stesso tempo con l’espressione di quell’indefinibile mistero che sempre incombe sulla vita dell’uomo e di quell’aspetto cosmico e soprannaturale che è sempre percepibile nell’ordine del creato. La concretezza degli oggetti e della natura si accompagna infatti ai misteriosi risvolti della realtà ed è resa attraverso accostamenti e metafore che alimentano sempre la ricchezza espressiva e che rivelano la spiritualità radicata nel quotidiano.

L’allusiva simbologia, l’intensità di alcuni vocaboli riscoperti nel loro significato essenziale, la delicata originalità di alcune immagini, la leggerezza di tocco con cui è reso liricamente l’eterno fluire delle cose, hanno spesso una particolare intensità melodica; mentre la raffigurazione dei paesaggi ha molte volte una drammatica evidenza. La limpidezza del linguaggio si accompagna talvolta a termini insoliti o ricercati: in una chiesa il poeta scorge “rabescati teli” e il volto di Cristo “di spunzoni coronato” (Nella mia chiesa). E non mancano i riferimenti alla scienza, come quando Pappalardo definisce la noce “un frutto ellissoidale” ricco di “resilienza” o quando si riferisce alla luna e rievoca le “stelle nane”, i “buchi neri”, il “big-bang”, le “forze gravitazionali” e i “parametri orbitali” (Alla luna).

La padronanza tecnica del codice linguistico e la ricerca formale non portano a un rinnovamento tecnico e stilistico dei modi espressivi, fenomeno che Pappalardo aveva notato a proposito dell’evoluzione della poesia dialettale, ma alla ripresa di forme metriche classiche e ad un linguaggio chiaro e limpido che si accompagna alla musicalità del verso, data spesso dalla rima, dalla forza raffigurativa delle immagini e dagli effetti fonici. Per quanto riguarda la rima, occorre ricordare ancora una volta ciò che l’Autore stesso aveva affermato a proposito della poesia dialettale, e cioè che “ogni poeta possiede il suo ritmo” e che “le rime svolgono, nei confronti dei versi, una funzione portante analoga a quella che le colonne svolgono nei confronti degli archi. In ogni caso, come per le altre attività artistiche, a decidere sarà sempre il gusto del poeta”.

Il garbo e il senso della misura si uniscono a una notevole varietà di ritmi e di forme metriche: il poeta risuscita perfino il sonetto e crea anche delle poesie brevi simili ad aforismi, caratterizzate da una grande concentrazione concettuale e verbale e dall’espressione immediata dell’essenziale. La sentenziosità non soffoca però l’intensità poetica: la consapevolezza della vanità della vita acquista ad esempio un tono particolarmente efficace con la scelta di termini legati al freddo e alla durezza, come quando il poeta afferma che “per vanità / la vita si fa marmo / e soffre il freddo della solitudine”.

Anche dietro le parole semplici e nitide c’è il richiamo alla spiritualità e all’essenza del cristianesimo condensata in lapidarie espressioni: “Solo chi cerca / l’uomo / sulla terra / trova la strada / verso l’infinito”. Altrove affiora un’antica e profonda saggezza umana: “Non attizzare / il fuoco che devasta / e non estinguere / il fuoco che infiamma”. A volte i ricordi sono interpretati con spietata lucidità, mentre altre volte traducono un travaglio intimo della coscienza o si ispirano ad alcuni episodi del passato avvolti in un’atmosfera onirica e suggestiva. La rivisitazione delle radici, che caratterizzava la produzione in dialetto del poeta, diventa qui uno scavo nel passato, una ricerca dell’ignoto, una rappresentazione dei vari significati del mondo circostante.

Nelle su citate note critiche, l’Autore aveva osservato che il dialetto riesce a coniugare i temi ispirati alla contemporaneità con quelli connessi all’interiorità dell’uomo, cioè le sue gioie, le sue speranze, le sue sofferenze. Per il poeta, il dialetto riusciva ad “evocare suoni, sensazioni ed emozioni che la lingua italiana non sempre era capace di rendere con pari efficacia e intensità”, anche a causa del suo progressivo impoverimento dovuto a vari fenomeni, tra cui l’immissione di termini stranieri.

Ma, nella silloge «I versi e le parole», la lingua italiana è tutt’altro che impoverita; in alcuni punti, anzi, appare elegante e perfino forbita, con effetti di classica melodiosità, e acquista un valore poetico grazie all’intensità dell’ispirazione. La valenza simbolica, unita alla realtà esteriore espressa nella sua essenzialità e a toni dolenti, sofferti o meditativi, pur espressi in modo delicato e velato, traducono, insieme alle vibrazioni dell’angoscia interiore, un lirismo limpido ma ricco di riposte risonanze.

Le già citate immagini legate al freddo, sinonimo di fine della vita, rievocano inevitabilmente lo scorrere del tempo e la fine delle speranze; ma, anche se il gelido vento dei ricordi “soffia sulle mie speranze insonni”, dal gelo “germogliano fiori” e “sulla strada si riflette il cielo” (Cielo notturno).  C’è sempre, quindi, una voce di speranza espressa attraverso le rasserenanti immagini della natura: “Apparirà l’azzurro / dopo l’arcobaleno. / Tornerà la ghiandaia / e nel cuore il sereno” (Settembre).

Il periodo primaverile, sinonimo di giovinezza, è espresso anche dal sorriso di una donna che “m’illuminava di chiarore limpido / come lampara che disvela il fondo / di un mare cristallino”.  L’abile scelta delle parole, tutte legate alla luminosità e alla limpidezza, contrappone le immagini della giovinezza a quelle, altrettanto efficaci, della tarda età, quando “l’algido mostro della solitudine / copre di neve il prato del mio vivere” e “la notte dei pensieri attende invano / il canto del mattino” (Il canto del mattino).

Il linguaggio, sempre formalmente controllato, e l’armoniosa classicità si uniscono dunque a una pensosa malinconia e a un senso religioso della realtà, espressi attraverso il linguaggio figurativo delle immagini, e riescono a rendere tutto il travaglio di una sofferta meditazione e la corrispondenza tra le cose e le creature, tra gli esseri e il cosmo.  L’espressione di un intimo sentire si traduce così in espressione poetica e in una melodiosità dettata, appunto, da un’autentica ispirazione. E anche questo giustifica la precedenza data ai “versi” rispetto alle “parole”, che sono solo l’espressione finale di ciò che il poeta sente interiormente e che, attraverso le parole, traduce in versi, cioè in poesia.

 

 

 

 

 

 

 

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