Imperdonabilità, sprezzatura e leggerezza. Verso una critica del linguaggio. Dialogo con Arturo Donati

di Rossella Farnese

 

Arturo Donati è nato nel 1952 a Palermo dove insegna filosofia nei Licei. Si è laureato in filosofia con una tesi sulla critica neo idealistica al marxismo. Poeta e saggista, ha anche promosso eventi culturali occupandosi di Cristina Campo, Marina Cvetaeva, Ludwig Wittgenstein, Alejandra Pizarnik, Alda Merini e Simone Weil. È stato socio del Centro Montale, collabora alla rivista Spiritualità e Letteratura e gestisce il sito ufficiale dedicato a Cristina Campo, mantenendo scambi culturali con la cerchia degli studiosi della scrittrice. Durante la giovinezza si è occupato di poesia con positivi riscontri critici. Si fa promotore di un metodo di approccio alle opere letterarie che ne esamini la grammatica spirituale criticandone il linguaggio in relazione ai fattori di disincanto riconducibili ai processi di secolarizzazione del nostro tempo.

Rossella Farnese (11 agosto 1992), dopo studi classici compiuti in Valle d’Aosta, si è laureata in Lettere Moderne con lode presso l'Università degli Studi di Padova con il professor Silvio Ramat con una tesi di Letteratura Italiana Contemporanea volta a indagare e a confrontare la produzione poetica senile di Marino Moretti e di Aldo Palazzeschi intitolata L’ultimo Marino Moretti: un garbato clown nel suo giardino (con uno sguardo su Palazzeschi).

Ha proseguito gli studi a Padova conseguendo con lode la laurea specialistica in Filologia Moderna e Critica Letteraria con una tesi su Cristina Campo dal titolo Il vuoto e la grazia. Poesie, traduzioni, lettere e saggi di Cristina Campo, disponibile online sul sito dedicato alla poetessa. Appassionata di letteratura, cinema, teatro, musica e arte, collabora con il SoleLunaTrevisoDocFilmFestival e scrive per diverse riviste tra cui Excursus.org, e Flaneri.com.

Qual è, secondo lei, il senso del fare letteratura oggi?

La letteratura intrattiene un rapporto indissolubile con la storia come metabolizzazione del continuativo cioè come narrazione comune. Nel finale de Il Dottor Zivago Pasternak esprime il senso dell’incombente decadenza dei legami più forti e della fine delle metafore di fronte alla crudezza della storia che rileva senza rassegnazione. Conclusivamente viene ricostruita la vicissitudine della figlia di Lara abbandonata al suo destino. Tale terribile rottura della continuità generazionale allude o preconizza la frattura del linguaggio. Infatti Pasternak scrive: «È successo più volte nella storia. Quello che è stato concepibile in modo nobile e alto è diventato rozza materia [...] Ma adesso tutto quello che era traslato si è fatto letterale; i figli sono veramente figli e i terrori sono veramente terrori».

Esiste quindi un legame tra letteratura, cultura e universalità?

Se per “cultura” si intende, come dice Pavel Florenskij in Filosofia del culto, la diposizione della comunità a un rito comune che consenta il recupero umano della presenza fondante del divino restituendo il senso alla storia alla luce dell’unità, oggi io avverto un vuoto culturale immenso. Avvalorato anche dalla proliferazione di una letteratura che soddisfa la mera immediatezza, le esuberanze di un superficiale vitalismo e l’apologia del corpo. La vertiginosa moltiplicazione dell’offerta commerciale implica il poter trovare sempre un libro rifugio per il lettore che avverta suo

malgrado “sete del nulla”. Incapace di evadere dallo schema del privato posto in posticcia relazione antitetica con il pubblico o con l’alterità umana. L’emancipazione non risiede nell’espansione della misura soggettiva della discrezionalità dell’agire, ma nel porre in rapporto critico il privato e l’universale in un processo di narrazione sensato che propaghi bellezza.

«Beauty is Truth, Truth Beauty; that is all ye know on earth and all ye need to know», così John Keats nell’Ode on a Grecian Urn. Cosa ne pensa del rapporto tra letteratura, bellezza e verità?

Solo i grandi scrittori, quelli realmente nichilisti o intimisti e quelli realmente tradizionali, mistici o meditativi, riescono ad offrirci un prezioso tratto significativo dell’universale verità cui anela l’uomo. Per questo direi con sintesi paradossale, che il vero scrittore deve essere capace di odiare il lettore sino alla soglia del disprezzo, deve essere imperdonabile cioè indisponibile a un dono limitato di sé perché il sé non può essere un dono che si esprime con un linguaggio tradito o condizionato, costi quel che costi.

Gottfried Benn, ad esempio, non vuole presentare o descrivere la disillusione, ma scrive e fa ricerca, incurante di chiarine le ragioni, compiendo uno sfrontato percorso di conoscenza profonda del reale, incurante degli effetti sortiti di ciò che racconta. Per questo continua a essere grande e si fa portatore di un linguaggio di ricerca e di profanazione, facendo evadere il lettore dalle strettoie dell’immaginario personale e dalle insidie delle nuove “enfasi cosmiche”.

Consideriamo anche quanto Wittgenstein osa provocatoriamente dire a un ipotetico lettore del suo Tractatus sintetizzabile in “se non pensi come me è inutile che mi leggi”, inutile perché non avrebbe nulla da imparare. I veri nichilisti sono cioè sempre aperti a una ricerca che li porta a compiere il sacrificio di non consentire a loro stessi la quiete cui potrebbe portare la conoscenza.

Rifletterei anche su quanto possiamo imparare dall’impareggiabile erudito che fu Elémire Zolla - sebbene io non lo ami molto e d’altro canto il filosofo non si curava eccessivamente di essere amato - autore tra l’altro di Volgarità e dolore e Che cos’è la tradizione. Opere, pertinenti ai tratti del nostro discorso, nelle quali Zolla demolisce gli schemi mentali ordinari denunciando la sclerosi spirituale dell’uomo contemporaneo.

Perno del primo libro è il non vivere il dolore come ulteriore volgarità così da non degradare anche la conoscenza e la libertà. La volgarità, piaga irruente e insipida, depotenzia il linguaggio disorientando la visione del mondo e la conoscenza religiosa. Sarebbe però meglio parlare non di visione del mondo ma di riscoperta della tradizione intesa come il protrarsi nel tempo dei risultati della cultura in direzione di un uomo non sclerotizzato, ancora desideroso di sapere perenne e di immaginazione.

Per citare Luzi, nel magma o nella torre d’avorio, nel labirinto o sulla barca, una poesia inclusiva o allusiva?

Assistiamo a una crisi dell’immaginario per una mancanza di lettura dell’altezza dei riti. A causa della coscienza de-spiritualizzata tutto è ritualizzato, tutto è etico. Nella “civiltà” delle risposte preconfezionate e della sopravvivenza non c’è più spazio per la filosofia, non più per la religione e quindi resta ben poco da dire. Benn additava a proposito un’azione bellissima: squarciare il nulla, questo è quello che deve fare l’intellettuale cogliendo le radici del trascendente piuttosto che riflettere sulla cultura di massa che è un controsenso. Poi dietro c’è un vuoto ancora maggiore ma l’intellettuale non deve sottrarsi alla risposta, piuttosto offrire energia, come Leopardi per il quale, la spinta della poesia e della filosofia è tanto più forte quanto più ha metabolizzato il male dell’essere terrestre ed è necessario per questo una negazione grande, non banale.

E la banalità è il prodotto della perdita della sprezzatura - per alludere a Cristina Campo - cioè di quella capacità di restare insensibili verso la volgarità del mondo che non si può eliminare escludendo i volgari ma evitando il compromesso, la mistura impura e equitativa tra alto e volgare. È bene distinguere tra necessità di diffusione e salvaguardia dell'altezza, non nel senso di abbandonare l’ordinario ma di darvi senso.

Una volta Maria Luisa Spaziani, in risposta a una domanda occasionale sulla propria poesia definita vertiginosa e paragonata a un’alta scala, ribadì che il compito del letterato è proprio quello di salire quei gradini. E quello che aiutava la Spaziani non era il successo ma la coscienza delle mancanze, e di questo solo i grandi si avvedono. In Luzi che è stato un gigante non ancora del tutto recepito, la dimensione allusiva è certamente presente quanto l'inclusività delle preoccupazioni reali nell'intreccio dei suoi versi che hanno percorso il secolo. Ma la sua grandezza è proprio la capacità di eludere la polarizzazione della tematica sociale che deprime la poesia. Lo può in forza di una sintesi metafisica eche denuncia l'amnesia spirituale dei tempi come si evince nei versi inclusi nella silloge, I fondamenti invisibili (1971) che cito: Le nazioni non meno dei singoli/ disimparano l'amore della sostanza.

Come considera il rapporto tra lo scrittore e il linguaggio?

La letteratura non deve essere un linguaggio appagante, l’autore non deve superare l’opera. Lasciare intatta l’energia interiore del dolente vuoto creativo non è da intendersi come una rinuncia alle risposte ma come accettazione della metamorfosi interiore, chiave segreta di una cultura viva e precipua fonte della parola.

La poesia non potrà mai essere rivoluzionaria perché non ha una stasi, è una forma di emancipazione continua, di liberazione dell’uomo e della parola. Il poeta è sempre postumo rispetto a ciò che dice.

La poesia esprime tutto ma lascia sempre un rinnovato bisogno di dire, colmabile compiendo un salto, cambiando cioè forma. Cristina Campo dice, a proposito, che si deve cambiare la forma quando essa è compiuta, cioè quando raggiunge - più che l’acme - la perfezione, intesa come “fatto per” risalire al divino. Raggiunto un grado di perfezione, il discorso potrebbe procedere da solo e così il poeta si “svuota” della sua creatura perché, nel momento in cui domina la forma, questa non è più sua. Allora per incanto la poesia “abbandona” l’autore e il linguaggio diventa dono.

Se si considerano le geometrie del disincanto e si individua in questo non la sfiducia nella vita ma la coincidenza nell’atto creativo di pienezza e perdita, allora la poesia è l’arte divina di trasformare il disincanto in bellezza. Da questo punto di vista è notevole l’operazione di Pavese - il poeta che più ho amato da giovane insieme a Novalis e Pasolini - il quale a partire dalla personale sfera di dolore, riesce a conferire un senso universale alla nostalgia e alla perdita. Per usare la nota espressione stendhaliana, la cristallizzazione del dolore, in Pavese, si muta in perdita definitiva dello sguardo: « Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», un verso lapidario e epocale, un attimo fermato per sempre, il carpe diem rovesciato per la terribile rinuncia dell’attenzione alla vita, anticipazione della catabasi nella memoria della morte. Un momento che è illusorio rivivere. La negazione patetica del lettore in Pavese è tremenda, l’emulazione diventa destino reale, cecità e silenzio.

E quanto alla dialettica autore-lettore?

Lo scrittore oggi con leggerezza chiede troppo aiuto al lettore, pretende complicità nel condividere la propria traiettoria intellettuale e talvolta tradisce l'autenticità del suo racconto. E quando si fa critica si devono pertanto faticosamente distinguere i due piani di polarizzazione dell’opera: da un lato il genio dello scrittore e il suo grande discorso che è e resta un fatto della storia della letteratura e dall’altro l’entropia spirituale dello scrittore che si approccia in modo originale alla descrizione del vissuto che è sempre un mistero da sciogliere. Questo stimola il critico a ricondurre con prudenza agli eventi soggettivi le invasività della cosiddetta postmodernità che alimenta o depriva ogni narrazione riconoscendone le quote di valore espressive raggiunte.

Quale prospettiva delinea quindi per la critica?

Ciò che io definisco critica del linguaggio non è altro che la disanima delle grammatiche spirituali che animano l’opera. Il genio di chi scrive è estremamente differenziato e variabile invece, la tipicità della crisi spirituale del tempo no. È possibile pertanto che anche una “piccola” opera faccia comprendere grandissime cose. È una nuova metodologia, quella della lucciola. Una piccola lucciola può pian piano condurre ai confini del bosco come la lanterna più grande. Il critico tenta a suo modo di chiudere il cerchio della conoscenza. Completa il binomio scrittore-lettore che diventa una triade.

Il critico è un modesto artigiano della parola, appassionato medium tra il visibile e l’invisibile, tra il vivente e la natura, tra le radici profonde del sogno e l’incanto dell’eternità, tra gli abissi umani e la luce della gioia. Infiniti sono i linguaggi ma unico è il destino. Io credo che il Nulla non abbia ancora vinto la sua battaglia, dobbiamo respingerlo imparando ancora di più sull’uomo e sulle sue infinite scritture. Il critico può tentare di farlo ma deve trasformarsi, con umiltà e senza nostalgia, in rabdomante esploratore dell’anima.

Intellettuale engagé o critica estetica?

La demagogia del tempo presente, orientata verso le nuove generazioni e mistificata dalle ideologiche misture dei linguaggi, cancella di fatto la continuità. Lo fa altrettanto cinicamente ma in nome di una pseudo libertà spacciata per apologia della libera scelta che implica una de-responsabilizzazione sociale di fondo e l’elusione di ogni principio guida. Venendo a mancare una pedagogia della continuità umana e delle relazioni fondanti, rispetto a quale modello di etica o di immaginario sociale dovremmo essere o professarci organici. Rispetto a quale presupposto di organicità dovremmo a buon ragione strutturare una critica?

Non è pensabile oggi un’operazione in termini gramsciani - che non rimpiango - sebbene sia innegabile il legame reciproco tra emancipazione politica e emancipazione letteraria, in particolar modo in un Paese il cui retroterra più saldo è stato l’Umanesimo. Ma in che modo il letterato può emancipare - se mai possibile? Forse proponendo un modello o una modalità di pensare distaccata dall’ordinario, banalmente trasgressiva? Il letterato che propone un modello, sia esso di apertura o conservatorio, perseguito tramite la mercificazione dell’immaginario e compiacente alla committenza dei nuovi poteri, di fatto risulta reazionario e limitante, favorendo un mai augurabile conformismo culturale.

Quale ruolo ha, secondo lei, il critico oggi?

È necessario per essere in qualche misura critici, comprendere con quale animo ci si misura con il fatto letterario, cioè interrogarsi su che cosa si chiede leggendo? È impensabile una militanza critica diretta e credibile. Sarebbe tragico quanto farsesco coniugare l’attuale recupero della soggettività estrema, che alimenta l’impoverito immaginario collettivo, saturo di psichismo sessuale, con la nostalgia della battaglia contro il dominio di una classe egemone - se mai le classi sono esistite - che, in quanto centro di potere reale, invece mira al superamento delle conflittualità addomesticandole. Tentando con progressivo successo l’assorbimento “della sovrastruttura culturale anestetizzando le intelligenze disorientate dalle “nuove” libertà. Diversamente mi sembra auspicabile una “militanza” intellettuale coraggiosamente demistificante che allenti le strettoie della storia, lasciando un’apertura interpretativa alla libertà di pensare. E pensare oggi implica cimentarsi nel leggere i segnali subdoli dei processi di secolarizzazione, di desacralizzazione del cosmo e di scristianizzazione dell’esistenza. È altrettanto impensabile, e nient’affatto liberatoria, una critica compiacente verso gli atteggiamenti evasivi e volta a risaltare l’incompatibilità tra legge formale e diritto al vissuto. Tutto ciò mette

piuttosto in luce la patologica incomprensione della tradizione, la banalizzazione del passato che grava sul presente e la perdita del culto della parola antica.

All’indomani della traduzione del tanto discusso II canone occidentale di Harold Bloom, ha ancora senso secondo lei parlare di “canone”?

Se la preoccupazione del letterato è comunicare - e il resto viene dopo - allora deve ignorare il canone, se invece vuole trasferire qualcosa che ha compreso e che riesce a dire solo in un determinato modo

10 deve canonizzare, cioè lo deve investire di una procedura espressiva non influenzabile facendolo rientrare nelle modalità di lettura storicizzate dalla legittima autorità dei “grandi”. Il letterato per restare autentico non può porsi il problema mentre scrive. Di fronte al talento l’archivio delle passate e future memorie deve attendere. La classicità nella sua specificità è irripetibile ma il valore della tradizione è proprio l’estensione della verità nei tempi. Se il canone lo paragoniamo allo sposo, questi dà sostanza alla cerimonia presenziando prima di tutti ma deve - per così dire - accettare il ritardo della sposa. In altre parole, conta di più ciò che si fa o la pedagogia letteraria della ripetitività dei grandi che comunque mai devono essere ignorati? Di certo il problema del canone non si può porre se non siamo all’altezza della novità e ci mostriamo ad esso insensibili. Possiamo superare il canone quindi solo se ne siamo padroni, ritengo infatti che può evadere un galeotto che conosca sino in fondo la sua prigione e che proprio in quei luoghi abbia sentito nascere in sé stesso la dirompente ansia di libertà.

Cosa si intende secondo lei per “classico”?

11 buono scrittore contemporaneo, o se preferiamo classico relativo, non rinuncia mai a nutrirsi di valori simbolici forti prendendo astutamente e garbatamente in giro il lettore, dicendo cioè alcune cose sapendo di suggerirne molte di più. Kundera, ad esempio, ha una scrittura potente, è ironico e arguto, leggero e strategico, conosce i limiti del letterato, cattura la compiacenza del lettore, con ritmo cinematografico di cui è maestro, senza però spegnere la forza del linguaggio. Può farlo, è un grande, ma incombe la sua profezia sul futuro della letteratura, enunciata in occasione di una delle sue famose lezioni americane - ahimè tristemente andata a buon fine - “siamo destinati a una contaminazione del kitsch”.

Il classico è un libro che non smette mai di dire qualcosa, come diceva Calvino?

Parlerei a proposito di Calvino della raccolta Fiabe italiane. Il grande scrittore moderno capace di “salvarsi dal moderno” distanziandosi dalle limitatezze con la sua impareggiabile forza interiore e ironia, non recupera soltanto la cultura popolare e linguistica, ma tracce di tutte le tradizioni e un certo rapporto con il mito, o meglio la stessa natura tradizionale della narrazione. La narrazione

letteraria è un’evoluzione delle narrazioni iniziatiche a partire proprio dalle fiabe che sono il primo binario del discorso sapienziale. Sebbene connesse a un contesto domestico e popolare, le fiabe consentono un recupero antropologico dell’uomo che è tale per il nesso reciproco tra identità e linguaggio che riconduce alle sfere del mito e della conoscenza. La definizione che Calvino dà dei classici è quella che più amerebbero i classici se potessero essere interpellati. Per me i classici sono i Grandi che aiutano a comprendere il presente in un continuum. Bisogna limitarsi nel definirli, rispettarli profondamente e conoscerli, non necessariamente amarli.

Cosa ne pensa del rapporto reversibile tra letteratura e vita?

Continuando a parlare di Calvino, egli con notevole coraggio non rinuncia mai alla propria tipicità espressiva, consapevole del proprio successo ma non schiavo di esso, fa dell’esperienza letteraria una fucina di ricerca che rende possibile l’identità tra tempo letterario e tempo della vita. Ben altra tendenza è quella agonizzante della conversione completa del tempo vissuto in tempo di scrittura, praticata ad esempio da Alejandra Pizarnik che fa dell’espressione la sua vita reale. Quando dovrà scegliere tra il vivere per scrivere e lo scrivere vivendo, rinuncerà alla vita per concludere la narrazione. La Pizarnik segue una scrittura patologica, che si trasforma in totale incapacità di vivere se “esce” dall’opera d’arte. Nel post moderno la coscienza non regge l’immaginario che produce. Il vitalismo contemporaneo è segnato dal declino dell’immaginario e dal rifugio del soggetto nella dimensione sensitiva del corpo distante dal senso iniziatico delle Metamorfosi di Ovidio che invece accompagnano verso l’alto l’idea della natura. Pensiamo al De rerum natura. Lucrezio, sebbene lapidario e disincantato, nutre una preoccupazione costante per l’uomo la cui rassegnazione resta possibile riconoscendo la legge di natura che unisce tutti gli uomini sotto lo stesso destino.

La tendenza odierna dei vitalisti è quella di eludere il destino rassegnandosi di contro a destini minori che insidiano l’integrità della persona, e persona significa portatore di suono, del suono proprio, cioè del proprio linguaggio. Come sosteneva la Campo l’uomo è tale sè degno di un destino superiore. Quindi il letterato deve tentare un linguaggio forte e comprendere quand’è giunto il momento di chiudere e modificare la forma. Ma quand’è il momento di chiudere con un linguaggio, ad esempio la poesia? Giunge quando ciò che dico diventa più importante di ciò che mi ha portato a comporre. Pensiamo all’ermetismo che cerca di dire “tutto” in un minimo espressivo, non in un nucleo limitato di grandi significati, basti pensare al minus dicere di Carlo Betocchi. L’ermetismo non è la chiusura del discorso, né la sua riduzione a sintesi, piuttosto l'ardita ricostruzione del discorso-parola, cioè tentativo di restituzione alla parola della potenza espressiva originaria. Potenza custodita nel segreto dell’anima e che ci permette di raccontare l’amore. Qualcosa di tutto questo deve comprendere a sua volta con la propria anima il critico.

Secondo lei può esistere un modello letterario?

La Cvetaeva rivelava che la poesia si “scrive con l’orecchio”, va sentita dall’esterno prima che sia nostra. La musicalità della poesia risuona dall'entropia interna del cosmo ed esige una cultura dell’ascolto che rientra nel patrimonio sapienziale della tradizione. Ritengo che l’opposizione netta tra classicità e modernità non sempre regga in letteratura, se c’è è ideologica ed è un limite degli scenari del tempo breve. La letteratura metabolizza uno stato d’animo ancestrale che prende forma dal nostro immaginario. Le racconto un aneddoto personale per chiarire. Da bambino mi regalarono il Moby Dick e, per quanto a fatica, riuscii a resistere alla tentazione di andare a guardare subito l’illustrazione della balena che offriva la pagina centrale del volume. Ho iniziato a leggere il libro con la lentezza della bassa onda e quando ho finalmente incontrato l’immagine, ho riconosciuto quella che m’ero già costruita nella mente, l’ho percepita viva, nata in me, emersa dai fondali della mia immaginazione e adesso nella pagina soltanto per essere contemplata.

La desacralizzazione del cosmo, delle relazioni, dell’esperienza corporale, la banalizzazione della trascendenza e del cristianesimo, il mito dell’autosufficienza tecnologica, hanno reso sterili le immagini e paralitiche le azioni. Spesso nelle vicende narrate le azioni esauriscono gli eventi, non li compiono e si mutano in fatti senz’anima, quando l’autore segue un committente che richiede la produzione di immagini che debbano sedurre e non stupire. Ritengo che si debba procedere al contrario: è l’immaginario che deve alimentare la creatività dello scrittore e imporgli di scrivere.

Si leggono troppi libri per compiacenza ma lo scrittore non dovrebbe mirare a sedurre. Quando si è sedotti da un libro, e accade, poi si cerca una diversa lettura capace di cogliere e svelarci le nascoste sfumature del nostro io. La letteratura è infatti la conversione del vissuto in una forma, quindi un discorso sulla forma e sulla legittimità del vissuto, da qui la critica del linguaggio. Essa deve tenere conto della soggettività che impone al soggetto di tradursi in forma e non in azione; il linguaggio è quindi compiutezza dinamica dell’immaginario di chi scrive e di chi legge.

Il modello letterario perfetto è la liturgia - lo sosteneva la Campo - perché coniuga il carnale e l’anima mediante lo spirito in un unico evento che annulla il vuoto, perché lo spirito che s’incarna è il linguaggio concreto della conciliazione concreta tra l’eterno e il tempo. Spiritualmente non siamo mai schiavi. Il linguaggio invece talvolta può esserlo, di un potere o di un’impostura letteraria. L’opera d’arte simula l’atto liturgico ma si arresta sulla soglia dorata della verità teofanica della bellezza, non ancora alla bellezza della Verità cui dobbiamo tendere. La Verità rivelata sul principio del Logos che non pretende più il prodigio del racconto ma il gioioso incanto della contemplazione.

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