"In memoria di Stefano Vilardo fra furore e memoria (Delia, 1922 - Palermo, 2021)" di Tommaso Romano

Da sinistra Stefano Vilardo e Tommaso Romano
In un suo puntuale saggio Aldo Gerbino parla di Stefano Vilardo come di un “poeta tra presente e tradizione”, definizione a tutto tondo con cui brevemente lo presentiamo.
Sodale, compagno di classe e amico di un’intera vita di Leonardo Sciascia (che dedicherà molte attenzioni critiche a Vilardo), il nostro Stefano con Antonio Motta studioso sciasciano di valore, ha dedicato un gustoso e rivelativo volumetto, edito da Sellerio, dal titolo A scuola con Leonardo Sciascia, che ne percorre il sodalizio umano, familiare, culturale (ambedue furono insegnanti elementari), l’amicizia, con pennellate di straordinaria valenza espressiva sul nostro maestro di Racalmuto, autentica coscienza critica della Sicilia e non solo, del ‘900.
L’esordio di Vilardo data la metà degli anni cinquanta con il volumetto I primi fuochi, edito da Sciascia di Caltanissetta, a cui faranno seguito altre raccolte liriche fra cui Gli astratti furori dopo Tutti dicono Germania Germania e ancora la raccolta Il frutto più vero. Impasto originalissimo di memoria, sofferta ironia, scavo nel quotidiano, eco di violenza, con abbandoni autobiografici, la poesia di Vilardo vive in e di una Sicilia arcaica e tuttavia non idealizzata, vera comunque nella povertà profonda, straziata dal potere (da tutti i poteri) e dal malaffare anche mafioso, impastato di “miraggi e pene” come ne scriveva Vincenzo Consolo, senza dimenticare la forza perduta per sempre della “comunità solidale” che era una condizione reale dei paesi siciliani.
Scrittore scevro da protagonismi, a volte ostico, appartato Vilardo ha donato con la sua opera poematica Tutti dicono Germania Germania pubblicata prima da Garzanti (1975) e poi da Sellerio (2007), con bella postfazione di Gerbino, e articolata in 42 poemetti che disegnano liricamente di “quando i clandestini eravamo noi”. Certamente si tratta del capolavoro vilardiano che lo pone fra i classici siciliani del nostro tempo. Come acutamente afferma Giuseppe Saja in un suo articolo del 1992 le testimonianze dirette e raccolte da Vilardo sugli emigranti e la loro condizione, ovviamente con geniale rielaborazione lirica, si “prestavano non tanto ad una riscrittura in prosa, quanto a una trasposizione in poesia, in versi liberi che avrebbero dovuto “inchiordare” l’attenzione dei lettori sulla piaga dell’emigrazione, sugli effetti disumani dello “sradicamento” di tanti contadini meridionali, costretti alla mancanza di lavoro a battere suoli stranieri non sempre ospitali”.
Sciascia scrisse nell’introduzione, che il pregio maggiore dell’opera vilardiana consisteva nella “ricreazione” di vicende che si impongono per la loro alta drammaticità fra ripetizioni anacoluti, per una realtà che è anche riflessione esistenziale, documento umanissimo, dolore non sempre redimente sullo sfondo di uomini attratti da un benessere non sempre reale che lasciano le miniere, i campi, verso un nuovo disidentico paesaggio.
Temi ricorrenti che ritroveremo nel tessuto narrativo degli Astratti furori dove il tessuto etno-antropologico e la rielaborazione della radice popolare si incontrano con la violenza gratuita e la stupidità del Ventennio, narrato a sua volta e senza conformismi in Uno stupido scherzo senza tacere la decadenza socio-culturale successiva in grado di far perdere all’intellettuale perfino la sua funzione di denuncia e coscienza critica, come Vilardo ha a voce chiara denunciato in una intervista. Come ha scritto Andrea Camilleri “Vilardo trascende il reportage in versi per assurgere alla dimensione di una poesia senza aggettivi”.
La lingua di Vilardo, ben prima di altri sperimentatori, è una originale sintesi di quotidianità infarcita dal nostro efficacissimo idioma, con citazioni di una cultura viva e palpitante, profonda e tuttavia mai appariscente, vigile sempre, anche nelle descrizioni dell’antieroe Lorenzo Cutrano di Una sorta di violenza, che si snoda nel clima retorico e totalitario tra le due guerre.
Vilardo è quindi un testimone, un ricreatore di realtà e di miti senza retorica sacrale (porrei una sorta di parentela con il grande Giuseppe Bonaviri), senza esibire soverchie illusioni e speranze di trascendenza, il suo oltre che testo letterario di alto valore è documento antropologico, denuncia delle ingiustizie, anche delle difficoltà dell’esistere, ai limiti del nichilismo. Tuttavia il viaggio di Vilardo è sempre scavo, anche religioso malgrado le apparenze, mai mera cronaca raccontata, scavo di sé appunto e della propria terra nella parola intesa come unica possibilità, anche quella che ci appare come la più semplice del linguaggio comune, non trascurando nel suo originale linguaggio simboli, metafore, rimandi, consuetudini, proverbi (è recente l’edizione critica di testi di Salomone Marino) nella consapevolezza che i furori non mutano né storia né vita. E la parola di Vilardo che si pone, in sostanza, come scriveva Claudio Marabini “con la discrezione di un’ombra che pretende soltanto di porre un sigillo d’umanità”, nel tempo che scorre tra memoria e sangue.
Da Vittorini a Dolci, da Brancati a Bufalino, a Sciascia, Buttitta e Fortunato Pasqualino, Vilardo si iscrive di diritto nella grande tradizione letteraria isolana che in Verga e De Roberto hanno i capostipiti moderni, accompagnando una rara capacità di trasmettere al lettore realismo, umori e sensazioni, tutti elementi apprezzati dalla critica più puntuale e attenta di varie latitudini ideologiche da Fausto Gianfranceschi a Tano Gullo a Salvatore Ferlita.
Certo Sciascia rimane per Vilardo un esemplare modello permanente nella condivisione, nell’amicizia e nella pratica letteraria.
 
 
 
LE NEVI DI UNA VOLTA DI STEFANO VILARDO EDITE DA THULE
 
 
I racconti che compongono il volume testimoniano una sorta di leopardiana ‘Storia di un’anima’, in cui l’autore di Delia, attraverso una nuova e voluta intertestualità di queste brevi narrazioni recuperate, dipana il filo tagliente ma accorato, lucido ma commosso, delle sue memorie più personali. Sette dei dieci racconti hanno un carattere volutamente autobiografico: Vilardo ripercorre le stagioni del suo terreno transito, dalla fanciullezza, riaffiorante quasi da un tempo di magia, alla maturità disillusa, passando attraverso un’adolescenza accesa da dolori assoluti (la perdita del fratello) e amicizie salvifiche (quella con Leonardo Sciascia su tutte).
Il percorso autobiografico, di un’autobiografia soprattutto intellettuale, diviene, pagina dopo pagina, racconto dopo racconto, il ritratto di una generazione, di un’epoca che stava per vivere il trapasso dalla civiltà contadina a quella società dell’omologazione e dei consumi che, in Sicilia, sarebbe diventata ‘civiltà’ del cemento, della speculazione, del malaffare. Le ultime narrazioni della raccolta recuperano parzialmente la dimensione eterodiegetica e sono, per così dire, il riflesso di quella weltanschauung delineata nei primi sette racconti-confessione. I rispettivi protagonisti sono esseri disillusi, inariditi dalle personali esistenze; ma che tuttavia si sforzano di mantenere ancora brandelli di riconoscibile umanità.
Stefano Vilardo, nato a Delia (in provincia di Caltanissetta) nel 1922, ha pubblicato con l’editore Sciascia i volumi di poesie I primi fuochi (1954), Il frutto più vero (1960) e Gli astratti furori (1988). Nel 1975 affida a Garzanti Tutti dicono Germania Germania, 42 narrazioni di emigrati ‘ricreate’ in versi e riproposte nel 2007 da Sellerio. Con quest’ultimo editore ha pubblicato i romanzi Una sorta di violenza (1990), Uno stupido scherzo (1997) e il libro-conversazione A scuola con Leonardo Sciascia (2012). L’ultima sua fatica è il volume Si conta e si racconta. Quattordici racconti di Salvatore Salomone Marino (Lussografica, 2015).
Giuseppe Saja, dottore di ricerca in Letteratura italiana, è stato assegnista e docente a contratto presso l’Università di Palermo. Attualmente è docente di ruolo di Italiano e Storia. Ha pubblicato, per i tipi dell’editore Sciascia, i volumi «Il Momento». Identità d’una rivista di fine Ottocento. Con gli indici del periodico (1883-1885) (2004), Il silenzio e l’azzardo. Narratori e poeti siciliani del ’900 (2006), Impasse relazionale e solipsismo in Con gli occhi chiusi e altri saggi tozziani (2010) e Federigo Tozzi. ‘Incontri’ siciliani (2011). Ha curato il volume Opere di Antonio Castelli (Sciascia, 2008).
 
 
 
 
Riproponiamo un breve racconto tratto da "Frammenti di Sicilia" a cura di Nino Bellia
 
Nei giorni di vigilia, poi, quando il vento mi portava festa alle orecchie, e i battagli delle campane impazzivano, e i botti dei mortaretti rompevano il cielo in tante fiumare di luci, e la banda attaccava le allegre marcette di gloria, lasciavo fottere lavoro responsabilità e doveri del cavolo, e scappavo in paese alla facciazza di tutti i padroni del mondo e a quella di mio padre che non sapeva sbrigarsela da solo e cercava aiuto in un caruso di manco dieci anni.
Certo è un paese festaiolo il mio. Ogni quindici giorni si festeggia un santo con tanto di luminarie e musica in palco e giuochi di fuoco. lo zittivo la mia coscienza e me la scialavo tra le baracche degli ambulanti piene di dolciumi e di cubaite di tutti i tipi e di tutti i colori: alle mandorle, alle giuggiolene, ai pinoli, ai pistacchi, alle nocille... e marmorate e mostaccioli e papatelle e ossa di morti e tarallucci e bersaglieri e stronzucci di regina e mostarde ramette   moscardini mentine bomboloni cicirate calia e semenza.
Stefano Vilardo
"Una sorta di violenza"
 
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