Gianfranco Perriera, “Figure dell’intellettuale. La passione del pensare in tempi scompigliati” (Ed. Istituto Poligrafico Europeo) – di Guglielmo Peralta

       Figure dell’intellettuale, il nuovo libro di Gianfranco Perriera, ha la sua centralità nell’ identificazione dell’intellettuale contemporaneo con Cassandra: la sua “più pregna personificazione”. Sì. Cassandra è qui. Voce inascoltata, ‘apolide’. Senza patria, senza terra è il suo profetico linguaggio, il suo dire verità che ancora oggi restano ignorate. È l’intellettuale “impacciato e sbalestrato” di fronte all’indifferenza di chi (in primis i potenti) nega la “catastrofe verso cui si corre”. La sua voce (già giovannea) ‘grida’ nel deserto; annuncia “l’autodistruzione degli umani”, la sofferenza del nostro pianeta, degli ambienti soffocati dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo. L’in

tellettuale non è più la figura privilegiata nei secoli XV-XVI, quando era partecipe e sostenitore di un Umanesimo “civile”, in grado di elevare, custodire, preservare nella sua ‘purezza’ il patrimonio culturale e le idealità morali e politiche della società umana; quando, artefice e protagonista del Rinascimento, esercitava la nobile funzione di fornire i valori etici, estetici, spirituali e di guidare la società. Oggi, anche il secolo dei lumi è spento, oscurato da un pensiero che, nutrito di certezza e verità, degli ideali e dei fasti umanistici e rinascimentali, sembrava avesse fugato per sempre  le ‘ombre’ della ‘caverna’. E invece si è lasciato “affatturare e ottundere” dalla «peste del linguaggio» e dalla fagocitante ‘civiltà’ delle immagini. “Platone aveva forse prefigurato la società dei mass media?” – si chiede Perriera. La risposta è nell’accusa rivoltagli da più parti di avere “suffragato la diffidenza per le immagini della cultura occidentale”.  Le “meravigliose sorti progressive” dell’età moderna sono mutate nella ‘terrificante sorte progressiva’ di un’umanità alla deriva, impoverita spiritualmente, sempre più schiava e idolatra dei totem mediatici del ‘progresso’ involutivo, generato dallo sviluppo della tecnica, asservita alla fantascienza, e dell’intelligenza artificiale costruttrice dei nuovi idoli; nonché dall’ossessionante “compulsivo consumo della terra ridotta a risorsa da sfruttare”. Oggi l’intellettuale è un pallido riflesso rispetto al passato; è un’immagine replicata negli specchi paralleli, dove rischia di perdersi, di confondersi e smarrire il proprio volto e il proprio ruolo, perché la sua unica ‘certezza’ è la ‘visione’ catastrofica del mondo, sempre rinnovata, e il suo cruccio è sapere di essere, al tempo stesso, profeta inascoltato di sventure e il “parresiarca” che, in quanto mantiene un personale rapporto con la verità e la esprime, rischia “marginalità o condanna”. Egli «sa» e soffre come Cassandra per l’indifferenza dei potenti, per il “nichilismo reattivo del niente di nuovo sotto il sole”, che è il mantra che “non può che custodire la brama di ripetibilità del potere”. La saggezza è tormento, è “tragica” perché prefigura sciagure, alle quali non crede chi potrebbe evitarle, porre loro riparo. Tuttavia, l’intellettuale non rinuncia alla libertà e alla “passione del sapere”. Essere Cassandra, essere intellettuale, oggi, è non cessare di pensare poiché – avverte Perriera – “il pensare rende presenti a sé stessi. Rifugge dalle chiacchiere del “Si” di heideggeriana memoria e ci espone alla consapevolezza della nostra finitezza (…) si dischiude al bene comune”, ci rende responsabili e più ‘autentici’. E ciò compensa dalla delusione per la scarsa considerazione che si riceve e dagli scorni subiti da chi ostenta disinteresse e arroganza. Il pensiero, quello autentico, è rivolto all’essere – come c’insegna Heidegger. E in quanto tale, è in linea col linguaggio della ‘verità, la quale si ritrae dalla pluralità del pensare, nonché dalla chiacchiera, dalla banalità, dal vuoto, in cui viene meno la dimensione singolare del dire «ciò che è», e in cui, invece, prolifica, si moltiplica, dilaga ciò che ‘appare’ nell’assenza della Parola veritativa. Ne consegue che parlare, e dunque pensare,  nel ‘senso’ e nel ‘verso’ dell’«essere» “è necessario”. “La parola (…) aspira a raggiungere un gran numero di menti. (…) protegge le menti dall’Alzheimer culturale.” Questa funzione sociale, “protettiva” del linguaggio, non è più prerogativa dell’intellettuale “nell’Italia novecentesca dopo il tradimento degli ideali risorgimentali”. Egli ha perso “prestigio, nella professione e nella vita”; “Travet dell’esistenza”, ignorato, non più riconosciuto, asservito ai potenti, incapace di incidere sulla realtà rischia di ridursi a “caricatura di sé stesso”, di essere oggetto di scherno, del “ludibrio delle folle”.  Questo declino, questa ‘caduta’ della figura dell’intellettuale – osserva Perriera – “è un topos letterario ed ermeneutico antico, sin dalla caduta nel fosso di Talete tra le risate dell’arguta servetta trace”. (Da ricordare anche “La caduta” del Parini). Inoltre, essa è dal Nostro ben raffigurata attraverso Bernardino Lamis, il personaggio pirandelliano della novella  L’eresia catara, il quale si abbandona a un “delirante pontificare” per un “uditorio vuoto”, e che tanto ricorda L’Oratore della commedia, “Le sedie”, di Ionesco. Tuttavia, una così misera condizione può essere uno sprone: “opporsi all’inflazione del discredito culturale e persino all’agonia in cui ci si sente precipitati, ecco, allora, uno dei principali compiti dell’intellettuale”, oltre a quello d’immaginare un futuro per il mondo, per questa nostra terra, ridotta a “deserto”. Suo dovere ed ‘escamotage’ è “abitare il negativo”, discreditare la storia, dimenticare il passato abbandonandosi, senza memoria, “in un’indifferenza animale”, a un «grande sguardo d’animale» (Rilke), per ritrovare (restando fedele a Nietzsche) la felicità. La quale richiede di mutare nella suddetta “indifferenza” l’indifferenza prodotta dalla diluviante comunicazione informatica che offusca la «nostra coscienza massmedializzata» (Peter Sloterdijk, citato da Perriera). Tuttavia, la ‘salvezza’ non è in questa sorta di atarassia, ma nel linguaggio, nella parola, che pure è a doppio taglio: può indiarci o precipitarci nell’inferno. Se non la si libera dalla mendacità, dalla violenza, dal vuoto; se non ci si rende liberi col miglior dono della facoltà di pensare, di parlare, di intelligere, di leggersi ‘dentro’ per riflettere, per “non nascondersi i pericoli di una cultura afasica e falsificatrice, di non tacere (…) l’incombenza della catastrofe (…) per farsi carico della sofferenza che conduce gli umani nel deserto di senso”, nell’attesa e nella speranzosa certezza che giunga un Godot a dare pienezza di significato al linguaggio e, nell’orizzonte di questo, assicuri un nuovo cominciamento alla vita: un Finale di partita non conclusa e vincente. La domanda, allora, è se sia possibile tornare alla parola ‘singolare’ e, in virtù di essa, “all’assoluta irripetibilità del singolo”, alla sua distinzione dal “mucchio”, che “mostra la frattura (…) tra quantità e qualità”. Abitare il negativo è “non nascondere o dissimulare la condizione tragica”; è intravedere la luce stando nel “crepuscolo”, nel “nero fumo” dell’indistinzione, in cui è “tutto uguale”; è la  spinta necessaria perché il sole sorga ad occidente, e il mondo veda una nuova l’alba.

       L’ironia di Warhol, che respinge la demonizzazione del denaro e rifiuta l’“idea del business” vagheggiata dagli hippy, se da un lato conferisce leggerezza al testo di Gianfranco Perriera costituendo una pausa all’“eccessivo perdurare del tragico”, dall’altro lato mostra, nel risvolto della medaglia, il “disincanto con il sorriso sulla bocca” di fronte a una società disinvolta, che ‘sacralizza’ l’opulenza, il consumismo, il facile successo; che ‘insiste’ sull’apparenza, sulla chiacchiera e sullo sproloquio, che abbondano nei salotti della TV; che, altresì, è noncurante di un mondo alla deriva - ridotto a immagine e a “un gigantesco palinsesto pubblicitario” - il quale fa propria, consolidandola, “la ragione del tempo”, che trionfa, soprattutto, “nelle parole della politica”. L’intellettuale si ritrova di fronte al bivio tracciato da Umberto Eco: a dovere scegliere se fare parte degli “apocalittici” o degli “integrati”. Oppure, in un mondo «trasformato in una fantasmagoria inarrestabile di cui siamo tutti vittime affascinate» (Baudrillard, cit.), gli “restano tre opzioni”: abbandonarsi alla «fantasmagoria»; “rammaricarsi” per la perdita dell’immaginazione e dell’illusione a causa dell’eccessivo profluvio d’immagini; o “farsi corifeo e corago dell’epoca”. Altra scelta, per non soccombere, per non sparire, forse, è eleggersi, come Warhol, “a disincantato assertore dell’art business” che, “nell’epoca dello stallo e della nientificazione dell’umano”, può consentire all’intellettuale di “accattivarsi il pubblico”. Nell’adattamento a un tempo spiritualmente sempre più povero, perché sempre più ‘ricco’ tecnologicamente, consiste la felicità; ovvero, essa è “nel possesso di un bene esterno”, nel trionfo dell’oggetto e, in tal senso, è quella spettacolarizzata, differita e attesa “nei prossimi schermi”. Nel grande emporio del mondo, nel “mare magnum oggettuale”, dove tutto è mercificato e ridotto a “immagini dell’immaginario di massa”, l’intellettuale non può correre il rischio di “abdicare alla responsabilità”, ma deve “diventar soggetto pensante e critico”. Ma è una difficile impresa per l’intellettuale restare fedele a sé stesso, fare valere la propria responsabilità e impegnarsi per risollevare, tenere alta  “una cultura light che allarga i suoi fruitori ma abbassa il suo acume”; per innalzare sé stesso, ritrovare la propria dignità e superare la vergogna di “non contare più granché”, solo per il fatto di “non pensarla come i tanti”. Nell’epoca della commercializzazione, della massificazione, degli influencer, dell’avere che surclassa l’essere, che “di questi tempi è assai più che obliato”, Perriera si chiede se l’intellettuale saprà scrollarsi di dosso il peso di tanto vuoto e dare una svolta alla propria vita volgendosi all’arte, alla bellezza, rinunciando a collezionare beni e mercanzie varie. Per sottolineare e rappresentare questa condizione umana, della società moderna e contemporanea e dell’intellettuale, in particolare, Perriera ricorre ancora una volta alla letteratura teatrale. Nella commedia Vernissage, di Václav Havel, il personaggio protagonista Bedrich, intellettuale e scrittore dissidente, invitato a casa dagli amici Vera e Michal, nel momento in cui decide di congedarsi, di andare via, viene da loro criticato, rimproverato, accusato di essere insensibile ed egoista per non avere manifestato interesse e apprezzamento per il loro “vernissage”, ovvero, per la grande collezione di oggetti belli e costosi, per i cibi raffinati, per il “gran spolvero” in cui “tengono la loro dimora”. Bedrich, che, in un primo momento, restando fedele ai propri principi e ideali, non accetta di omologarsi, di valutare positivamente quell’esposizione dell’effimero, finisce, di fronte al duro atteggiamento degli amici, per sentirsi in “imbarazzo, torna a sedere”. Egli - osserva il nostro autore - “è insomma l’immagine del fallimento e della mancanza di volontà per eccessiva tristezza di spirito”. In quest’epoca segnata da un irreversibile tracollo culturale, nella quale è diventata difficile l’interpretazione del mondo e “il tecnologico supera di gran lunga la comprensione degli umani”, l’intellettuale “è destinato a una sofferta solitudine”. La perdita del valore delle cose culturali che sono il fondamento della civiltà, il precipitare del mondo nel caos per mancanza di verità, d’amore, di sapere, e la conseguente angosciosa certezza dell’impossibile salvezza gettano l’intellettuale nello sconforto, nella disperazione e nella depressione. Questa situazione, tanto tragica quanto reale, ha una potente ‘rappresentazione’ nella pièce di McCarthy, Sunset Limited, raccontata e interpretata in maniera circostanziata da Perriera. In essa si fa strada nella mente dei personaggi - il Bianco e il Nero - la convinzione che il mondo è giunto all’ultimo ‘atto’ e che agli uomini non resta che “farla finita” dal momento che “la ragione non intravede più un oltre” ed è troncato definitivamente ogni possibile legame con la fede e col Trascendente. Tragica realtà è questo aberrante nichilismo, rintracciabile in molti scrittori - tra cui, Camus, Dostoevskij, qui citati dal nostro autore - e in pellicole cinematografiche, anch’esse citate, quali “La vita è meravigliosa” di Frank Capra, “Il settimo sigillo”, di Bergman, “Il cielo sopra Berlino”, di Wenders, dove non manca, tuttavia, un lume di speranza, una possibilità ‘alata’ di salvezza; dove la morte è agognata, evitata o ‘sfidata’ sulla scacchiera del tempo e della vita. C’è da chiedersi se il desiderio di “farla finita”, di annientamento, dal quale non è esente l’intellettuale, non sia ancora un inno alla vita, il desiderare - a fronte della sofferenza per l’impoverimento culturale e spirituale, per la vanità del tutto - l’amore, la verità, il sapere mancanti, e anelare, fortemente, alla loro conquista; se il cupio dissolvi, il pensiero dominante del suicidio, non contenga in sé il nuovo germe della vita e la nostalgia sempre rinnovata del pensiero dell’Essere, nel quale riporre la speranza di attraversare il buio, agguantare la luce e “assumere la migliore forma dell’umano”. Con questa speranza, con la fiducia accordata e riposta nell’intellettuale si conclude questo interessante e coinvolgente saggio di Gianfranco Perriera. “Possiamo attenderci dagli intellettuali – egli dice -  che rendano la vita meno banale e meno brutale. Che ci scampino, con le loro parole e i loro libri, dal precipitare nella spirale della violenza, quando cioè sarà troppo tardi per non essere banali e brutali: questo, tramite loro, possiamo augurarci”.

       Al di là dell’argomento di grande attualità, esposto con dovizia di particolari, con richiami a vari e ‘diversi’ autori e con risvolti filosofici, sociali, etici, politici, economici, è notevole la ‘rappresentazione’ delle “figure degli intellettuali” in questo libro, che si apre come una scena. I tempi, le epoche in cui gli intellettuali hanno agito sono tutte presenti e sono i ‘quadri’ della cultura e del pensiero messi a confronto con la loro ‘recita’ contemporanea, dove Perriera fa confluire le differenti performances evidenziando luci ed ombre, tonfi e trionfi, progressi e regressi del lungo e ‘accidentato’ cammino delle arti, delle lettere, del linguaggio, della storia del pensiero e della cultura fino all’epoca attuale, in cui ‘im-perversa’, incontrastata e acclamata da una maggioranza per lo più incolta e ‘digitalizzata’, la tecnologia sempre più asservita alla fantascienza e all’Intelligenza artificiale: epoca virtu-ale in caduta libera, che sembra essere l’ultimo ‘atto’ del ‘teatro’ del mondo, precipitato nel tragico e nell’assurdo, vuoto d’amore, di sapere e di senso; “al di fuori di qualsiasi orizzonte religioso di salvezza” e perciò destinato alla catastrofe, come profetizzano le nuove Cassandra: gli intellettuali - ormai in minoranza - di questi “tempi bui” che, sebbene ignorati e inascoltati dai ‘potenti’, non cessano di credere nel futuro, di sperare ancora nella civiltà del buon senso e della luce.  

 

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