L’affermazione della vita nella poesia del dolore di Emanuela Mannino – di Guglielmo Peralta
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- Category: Scritture
- Creato: 28 Gennaio 2023
- Scritto da Redazione Culturelite
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Sono cambiata, sono la stessa. Dipende. Sicuramente, ne ho fatta di strada. *Eppure*... la mia strada è nel mondo ed il mondo è sempre più in difficoltà. C'è da fare, tanto. Ma altrettanto da "non fare". C'è l'ignoto, come per tutti noi...[3]
Dove sono stata io / in tutti questi affanni cent’anni, / dove? / (…) io c’ero / per esserci ora / ora / non è ancora / la mia inutile ora / ora / la mia dimora / fra le diagonali del vento.
Riecheggia, nella congiunzione avversativa, la condizione esistenziale della nostra poetessa: quel suo esserci nel mondo, già heideggeriano, dove faticoso è il cammino alla ricerca del proprio essere, specie se viene meno l’interessere, ovvero, l’«essere-con»: la relazione e l’interdipendenza con gli altri, con la natura, con tutto ciò che ci circonda. E in questa fatica leggiamo tutta la fragilità di Emanuela: il timore e il tremore di chi si sente sperduto, senza dimora, senza radici; di chi acquista coscienza di questo smarrimento, che è il destino proprio dell’uomo, «deietto», gettato su questa terra e che s’interroga sull’esistenza propria e del mondo, come ancora Heidegger insegna. Un’eco profonda di tale condizione troviamo pure nei seguenti versi della Nostra, dove c’è, sì, pena di vivere, eppure speranza, una timida voglia di rinascita sia pure nella sofferenza, tra dimostrazioni di solidarietà vere, sincere, di affetto ritrovato, e dicerie anonime. Sì che, qui è dichiarata l’accettazione dell’esistenza, quel dire «Sì» alla vita nonostante tutto.
Come siamo fragili (…) Come siamo / più non siamo/ tremiamo di tremori sperduti / (…) Risorgere in campi di lacrime / tra fiori d’abbracci e bisbigli bianchi.
Eppure, questa congiunzione, che figura solo nel titolo della silloge, ma che è, tacitamente, trasversale in tutta la raccolta, non ha soltanto la funzione avversativa. Essa accoglie in sé quel «Sì» esistenziale, che le dà valore affermativo, e accompagna fin dall’inizio la nostra poetessa, nella cui voglia di vivere, di liberarsi della/dalla paura e nelle esortazioni che ella rivolge alla paura medesima, quell’affermazione aleggia facendosi coscienza e annuncio di una nuova primavera, di una possibile svolta da dare alla vita.
Più forte, / mia paura / parlami / voglio spegnere la notte / con il mio pianto, / mostrami la via / del sentiero infranto. / Mostrami l’acqua / che attraversa il deserto / mostrami la pioggia / che s’insabbia nel petto. / Sento la cima primavera / fiorire dal silenzio.
Dal silenzio nasce la poesia che promette la nuova stagione; è nell’ascolto del silenzio che la paura si fa parola feconda che può accompagnare e guidare Emanuela nel suo cammino esistenziale, volto a realizzare l’interazione, l’incontro con l’altro; che può proteggerla dal buio, dalla solitudine e soddisfare la sua sete d’amore consentendole di riallacciare i fili della comunicazione interrotta, di conciliare la vita intima e la vita sociale, “ordinare il disordine del fuori-dentro” e riconquistare spazi di riflessione per nuovi progetti, nuove ideazioni.
Una profonda malinconia, addolcita dalla musicalità che le conferiscono le figure foniche, attraversa e permea tutta la raccolta. E se alla conclusione di quest’ultima la Mannino si chiede: “(…) Quanto navigare / ancora, dovrò / (…) Quanto sentire / ancora / la carne del mondo / la mia carne, senza mondo? / Degna / la mia Vita, / di lacrime ed errori /di sogni in volo / di mani bianche / e di risvegli di guerra. / Degni / tutti i miei vuoti stanchi / ed i miei pieni infranti. / Eccoli i miei anni / in braccio / alla mia terra”, ebbene, lo sconforto, l’afflizione, l’amarezza, che trasudano da questi versi, trovano consolazione nell’amore e in quell’affidamento degli anni consegnati “in braccio alla terra”, che sembra echeggiare la condizione dell’uomo quasimodiano destinato a una vita fugace e alla solitudine “sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole”. È l’amore, soprattutto, quello “subliminale”, il “canto sommesso”, che esplode e trionfa nel “godimento infinito” e condiziona tutta l’esistenza garantendone l’affermazione, che mette la nostra poetessa in posizione d’attesa, disposta a riabbracciare il mondo, la propria terra. Perché lo richiede la sua anima: il ‘luogo’ privilegiato dell’ascolto e della contemplazione, in cui si tengono insieme la fede, la bellezza e la ragione. In virtù di questo felice connubio, se rivolgessimo alla Nostra la domanda che fu fatta ad Anassagora: «A quale scopo ti trovi sulla terra?», siamo certi che, come il filosofo, ella risponderebbe: «Per osservare e contemplare il cielo e la disposizione del Tutto».