La leggenda dell’Omo Morto

In epoca lontana fusa col tempo delle fiabe, quando i racconti degli anziani ci portando in altura ad ammirare mare e monti, lassù, dicono, c’era una valle tra le cime della Pania Secca e della Pania della Croce, in Garfagnana. Di quella sella verde però non v’è più traccia, scherma la tua vista della costa un sasso gigante chiamato “l’Omo Morto”.

In quella conchiglia verde i pastori d’estate, ciancicando una pagliuzza secca all’ombra degli aceri montani, seguivano il pascolo apollineo dei greggi, il naso puntato dei cani all’erta contro aquile o lupi. Coi primi freddi d’autunno, col giallo marcio e il rosso vinaccia delle foglie, sarebbero discesi al piano a respirare  lo iodio del mare. Là su quella erta valle, affacciandoti, t’appariva una striscia d’oro zecchino col sole a  ponente, una pennelleta d’azzurro chiaro al mattino , te la potevi  gustare avvolto nei pensieri tra quei due Febi austeri; sì perché anche pecore e pastori era dato di sognare il partire un giorno, chissà come, con quelle navi rivolte con la prua all’orizzonte.

Daremo un nome agli attori del racconto, quando il verbo ruppe la timidezza del silenzio e lui, frugolo impertinente, le chiese: ”Come ti chiami?”, “Armida e tu?” “Ruggero” rispose quel bimbo arruffato, il ghiaccio s’era rotto, i cuori tornati al loro posto, l’attesa, durata giorni e giorni, era d’incanto alle spalle e un piccolo zecchino d’oro entrò in quei cuori.

I due pastorelli, costretti dai babbi a pascolar le greggi fin da piccini, erano nati su quei monti, in case di pietra tagliata senza calcina, tetti di legno e frasche, un camino per cuocere sbobbe coi fagioli, cagliare il latte nei calderi, stendere le mani di geloni ad implorar calore. Come nei tapie indiani, o nelle capanne, si dormiva tutti assieme per scaldarsi al tepore dell’ultimo tizzone, tanti i frugoli seminati al ritorno da ogni transumanza, cadean le foglie, nascevano i figli.

Re Carlo l’era analfabeta. aveva tanti eredi su quelle Alpi della Garfagnana, Ruggero non sapeva scrivere un messaggio, neppure avesse avuto un hiphone, Armida non l’avrebbe mai letto, troppo complicato ricorrere a Pietro l’unico pastore con la terza elementare, un’autorità su quei monti, dicevano avesse mandato a memoria le Scritture, ne citava i passi secondo consiglio. Il lessico tra Armida e Ruggero erano gli sguardi trasparenti dei bambini, un  gesticolar veloce per spiegarsi i giochi condito da frasi dialettali, le corse spensierate per i campi, lo squittio delle risa a rompere i silenzi, dividere il pane col formaggio, masticare calmi seduti a rimirare il mare.  L’infanzia scorreva a grani di rosario tra lecci, querce, agrifogli, nei viottoli dei boschi, tirando sassi nei ruscelli, o sdraiandosi a contemplare stanchi la cupola del cielo scacciando mosche, ruminando steli come fanno i grandi. Venne la primavera della vita coi suoi temporali, lei scoprì che la natura l’aveva fatta donna, lui si fece pensieroso, solitario, non di rado bubbolava da solo, interrogando i cani, sussurrando alle pecore, tutti  poco propensi ad entrare nel discorso. Il fremito di Bacco invase i loro cuori, la realtà divenne una mosca fastidiosa anzi una gabbietta dalla quale i merli fischiano gridando: aiuto! La libertà cresceva veloce nella loro mente, soprattutto nella testa trasognata di Ruggero, era il volo d’Icaro oltre quei monti dell’uguale, le ribollite nei paioli, le lunghe scarpinate dietro il gregge, i silenzi eterni del padre, pane e frittata nel fazzoletto a scacchi, la capanna di canne per le notti. A sedici anni si viaggia sulle ali dell’ airone, sul tappeto volante d’ Aladino, se vivere è pericoloso si sceglie il pericolo lasciando in tenda l’uggia d’una vita segnata.

A dire il vero un fiore non mangiato dalle pecore c’era rimasto, sbocciato anni addietro attraversando soli, insieme, un tratto di bosco, la fifa c’era, tra i pastori girava voce d’ un branco di lupi nella zoma, avevano assalito uno stazzo facendo abbacchi d’una dozzina di pecore. Perciò agli occhi della fantasia di due bambini, il bosco l’era un orco celato dalle ombre fitte, scricchiolii, rumori strani. Ruggero e Armida avevano la pelle accapponata, solo i cani gli davano coraggio. Fu lungo quel viottolo petroso, diafana traccia sulla terra, che s’ abbracciarono forte per spremersi coraggio, scacciare col tepore delle mani lo spettro dei fantasmi, di quei racconti fatti dalle madri ai figli per ammansirli: se non fai il bravo viene il lupo cattivo che ti mangia”. Non incontraro lupi ma una famigliola allegra di cinghiali, i cani presero ad abbaiare, le pecore pensaron bene di prendere la fuga, furono botte da orbi tra ringhi, cariche, morsi, i pastori maremmani non sono chihuaua, la cinghiala al fine restò stesa, la pelle strappata ovunque, un morso alla gola, respirava piano, sempre più piano, volse lo sguardo al bosco, vide la nidiata salva, s’addormentò col cuore in pace d’una mamma. Ruggero e Armida erano impietriti, s’abbracciavano dietro un cerro facendo capolino, poi presero forza, urlarono ai cani con l’autorità dei grandi, riunirono pecore ed agnelli e via al trotto fino a sbucare da quel maledetto bosco raggiungendo in alto quella valle tra le due cime, ma un fiore in cuor loro era sbocciato, la prova superata assieme diede corpo a un sentimento.

Scoprirono quel giorno di volersi bene non da amici di monellate, ma come gli innamorati dei racconti, felici di scambiarsi il primo bacio, tenersi la mano, chiudere gli occhi per sognare insieme un’età dell’oro, una magia che fermasse in eterno quell’istante, la prima promessa d’amore fu  contemplando quella striscia turchese, laggiù, ov’era il mare. Coltivarono quel fiore negli anni, gemma preziosa d’ una vita grama, tornavano spesso a sedersi su quella sella verde, tempio del loro essere una persona sola, risa, scherzi, gioia d’abbracciarsi, respirare il profumo della pelle, baciarsi con passione senza mai oltrepassare il ponte.

“ Voglio andar via, prendere quella nave, viaggiare per vedere il mondo” disse, un meriggio, Ruggero, “ Io verrò con te, tu mi porterai, n’ è vero?”,” No, vado da solo, farò il mozzo, il marinaio, ho bisogno d’ America, Armì; ti porterò con me, guarda dove-indicando il cuore-vado per noi a cercar fortuna, per noi due, capisci? Qua non c’è speranza”. Armida si sentì morire ma Ruggero la serrò forte a se facendole una promessa: “ ritornerò presto, prima dell’inverno, per portarti via, lontano, vedrai torno a prenderti, tu aspetta. Credimi! Non mi credi? Guarda lo giuro sul mio cuore” e si portò la mano sul petto con le dita incrociate sulla bocca.

Venne l’inverno, finì la transumanza, Ruggero era partito o meglio era svanito, lasciando due righe sul tavolo di casa scrittegli da Pietro. La famiglia era in subbuglio ma la mamma stringeva al cuore quel pizzo del foglio con su scritto: “Mà, torno presto”.

Armida solitaria saliva alla sella tra i monti a interrogare il mare, osservava l’arrivo delle navi, “forse è su questa, o su quell’altra che compare“. Niente da fare, il cuore sempre in gola per l’attesa perché l’amore non perdona che muoia la speranza.

Il “dotto” Pietro c’aveva un figlio maschio di diciott’anni, l’aveva chiamato Elia come il profeta salito in cielo sul carro di fuoco. Armida era molto bella, alta il giusto, gambe dritte e ben tornite, fisico slanciato pieno d’ armonie, un viso largo con due grandi marroni negli occhi, labbra d’un rosa pallido colore dell’infanzia, fronte alta sotto la cornice dei capelli scrimati, lasciati cadere fino ai fianchi. Una dea bucolica bella più di Diana, sembrava uno smeraldo smarrito tra quei pascoli e ti chiedevi: a che serve tanta bellezza per guardar le greggi?

Elia ne era innamorato da sempre ma era timido, introverso, un Esaù per via dei peli e della barba precoce che aveva lasciato crescere per togliersi la noia di raderla ogni giorno. Ruggero aveva colto quella primula prima di lui, quell’amore era da tutti benedetto, già si ciacolava di future nozze, a lui restava la parte dell’amico onesto come nelle Notti bianche di F. Dostoevskij.

Poi però Ruggero era partito d’improvviso, erano passati mesi, sfumava, di giorno in giorno, la promessa del ritorno, non nel cuore di Armida, ma in quello degli altri. Notizie di lui? Soltanto voci. Forse era a Genova a lavorare al porto coi camalli, chi dice fosse sbarcato a Marsiglia, chi, con più  fantasia, lo dava marinaio su un transatlantico in rotta per l’America.

Col fiorire delle mimose, quella testolina del figliol prodigo non s’affacciava dal viottolo che saliva alla collina, Armida correva alla valle tra le Panie, scrutava, scrutava, ma niente di niente, solo pianto.

Più lei soffriva, più Elia l’amava, avebbe dato la vita per asciugare le sue lacrime, strappar via dagli occhi la bruma della tristezza, fare qualunque cosa per ridarle il sorriso.

Maledetta valle, pensava dentro di se, ah se non ci fosse! Armida non s’arrampicherebbe fin lassù ogni santo giorno a vedere se Ruggero ritorna. Lei oramai conosceva l’orario delle navi, si sedeva braccia conserte, fissava  il viottolo erboso che saliva dal mare nella fede di vederlo sbucare dal bosco, a piedi o sopra un carro, levar le braccia a salutarla, un cenno e lei gli sarebbe corsa incontro, quante volte l’aveva sognato. Passarono i mesi, un anno, poi tutto l’inverno lungo dei monti e pricipiò la primavera, due cicogne venute di lontano fecero nido sull’ alto comignolo d’una cartiera abbandonata, i bambini s’accorsero che non portavano neonati. Neppure le piogge, il freddo, la neve avevano distolto Armida dal salire alla valle, tornando sempre mesta solo a sera.  S’era fatta solitaria, chiusa a riccio, non voleva consigli, fuggiva le ragazze del villaggio, la infastidivano i timidi approci di Elia, se lo incontrava non rispondeva al suo saluto. Venne pian piano l’estate, l’amore dei due giovani era un incendio in cuori distanti, per spegnerlo Elia decise così di seguirla di nascosto fino alla valle alta, la trovò in piedi come una nike a guardare il mare.”Armida, Armida, m’ ascolti? Perché vieni qua tutti i giorni, ti fai solo del male. Lui non torna, non torna! lo capisci, ha macato alla promessa ", lei tacque. “ Mah, io…io, non sono venuto quassù per questo. Tu non sai quante notti ho passato insonne, gli occhi aperti nel buoio a cercare il tuo volto, se li chiudevo per dormire la testa mi scoppiava. Mangiavo con te, pascolavo con te, camminavo con te, ma tu non m’eri mai accanto, eri un fantasma, un chiodo nella mente e la febbre saliva. Correvo per scappare via da te  ma tu mi raggiungevi dovunque. E quante volte ho ripassato, su e giù per i campi, queste tre parole senza trovar il coraggio di tirarle fuori. Adesso basta, basta! Non ne posso più.” Diede un respiro, poi:” Io ti amo Armida, scusami, perdonami ma ti amo, ti amo, più d’ogni cosa al mondo. Nulla esiste per me senza di te.” Lei muta, smunta come un cero, le gocce rapprese sulle gote, lo invitò a sedersi con un gesto, gli prese la mano prendendo a raccontare la sua penosa storia e più entrava nei paticolari di quelle infinite gioie innocenti e più Elia si sentiva uno straniero. Amava solo Ruggero, non c’era uno spicchietto del suo cuore che non battesse forte di quell’amore, era tutta sua senza lasciar pertugi di speranza. Ma contuando così sarebbe impazzita, precipitata nella foiba della follia. Che fare Elia per evitare questo:”Dimmelo! Dio onnipotente. Parla!” urlò il ragazzo. Armida ridiscese sconsolata come sempre, Elia se ne restò lassù ad osservare quel camminare a passo lento, poi si volse al mare, piegò le ginocchia a terra, sentiva dentro se un dolore lancinante, il vuoto sul daffare per la creatura ch’era tutta, ma proprio tutta, la sua vita. Pregò singhiozzando sino all’imbrunire, poi come il profeta, sentì una brezza leggera carezzargli il volto, capì ch’era Lui. Amore per amore quest’era l’offerta, amore fino alla morte, al sacrificio come il Figlio. Per salvare Armida doveva chiudere la scena sulla tragedia d’una speranza mal riposta, l’agnello? Il non amato che pure il suo amore dona. Elia si sdraiò supino con la faccia al cielo, Venere lo fissava, stella della prima sera e del mattino, calma lo tirava a se col suo splendore, mentre lui si trasformava in un gigante di calcare.

Di buon mattino i pastori guardarono lassù in alto, la valle era sparit d’incanto, tra le due cime di Pania c’era un colosso, un’enorme testa che guardava il villaggio, il sipario verso il mare s’era chiuso. Lei  non salì più ad aspettare Ruggero, le bastava mirare dal basso quel titano buono, regalargli un sorriso ogni giorno, rivolgendo il suo amore a quella pietra.

 

Emanuele Casalena    

NB. liberamente tratto dalla leggenda popolare della Garfagnana sull’Omo Morto.

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