La letteratura cosmica

Un sogno “Lunare di Giacomo Leopardi

 

 

Nel frammento poetico, il XXXVII “Odi, Melisso”, espressamente incentrato sul sogno della caduta della Luna  Leopardi mette in scena il pastore Alceta che racconta al compagno Melisso un sogno spaventoso e lunare, uno dei più umani e commoventi, sgorgati dalla sua magica penna.

La descrizione del sogno di Alceta è del tutto priva di ancoraggio al sapere cosmico, sia esso astronomico o astrologico, e si orienta piuttosto nel campo delle credenze popolari.

Il racconto di Alceta possiede l’aura della narrazione poetica da quel momento di vaghezza contemplativa: «Io me ne stava / Alla finestra che risponde al prato, / Guardando in alto».

La contemplazione si risolve nello stupore dell’improvviso distacco della luna che rapidamente si consuma nella caduta «in mezzo al prato». La prossimità con il corpo celeste dissolve l’aura contemplativa e limita l’osservazione a un corpo ardente, non più grande di una secchia che si spegne fumando, annerendosi e perdendo il suo candore. Dinanzi al materiale sconforto prodotto da un corpo così piccolo e limitato, privo di tutta la sua grandezza cosmica si scaglia l’angoscioso, agghiacciante sguardo al cielo che perde ora un punto forte di riferimento, un luogo familiare appare vuoto, divelto, violato nella sua perenne compiutezza: «Allor mirando in ciel, vidi rimaso / Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, /Ond’ella fosse svelta». Il dialogo che si avvia dopo la descrizione onirica vede in Melisso un pastore raziocinante e “illuminato” che nega ogni possibilità della caduta della Luna con un ragionamento non trascurabile per la sua “pochezza”. Melisso rassicura Alceta, che aveva paragonato la caduta della luna a quella, ben nota, delle stelle: «non veggiam noi spesso di state / Cader le stelle?», distinguendo la gran quantità di queste dall’unicità della natura, quasi che l’esistenza di molte stelle rendesse di per sé più probabile, e insomma poco dannosa, la loro caduta : «Egli ci ha tante stelle, / Che picciol danno è cader l’una o l’altra / Di loro, e mille rimaner. Ma sola / Ha questa luna in ciel, che da nessuno / Cader fu vista mai se non in sogno.». Si tratta di una riflessione risibile, in quanto non si dà alcuna consequenzialità tra la grandezza della quantità delle stelle e la loro caduta, come è risibile la conclusiva constatazione sperimentale, quasi che il fatto che nessuno abbia mai visto cadere la luna possa condurre a inferire che essa non cadrà mai in futuro.
Il sogno poetico di Leopardi esalta la dimensione immaginativa e fantastica a scapito di ogni delimitazione razionale dell’esperienza cosmica, con procedure che ritroviamo nell’ampio spazio riservato nei Canti alla visione poetica del cosmo, e della Luna in specie, sempre estraneo a una riduzione conoscitiva e astronomica. Naturalmente, una ricostruzione della narrazione letteraria e poetica della visione astronomica leopardiana richiederebbe un ampio saggio, e dovrebbe soffermarsi, oltre che sull’esame di molti Canti, anche su Operette come Il Copernico, il Dialogo della Terra e della Luna, la Scommessa di Prometeo e altre ancora. E non potrebbe essere trascurato, agli antipodi della sua produzione, da un lato il Saggio sopra gli errori popolari degli Antichi. Qui, nel Capo quinto del Saggio, Leopardi riprova il pregiudizio degli antichi di considerare i sogni come premonitori.
Di grande efficacia narrativa, e di pari rilievo come testimonianza dell’attenzione al mondo primitivo, appare la descrizione della scena del risveglio del primitivo.

«Turbato di nuovo e intimorito, se in quel momento, ricordandosi dell’Ente Supremo, egli attribuisce il suo sogno ad una causa soprannaturale, se lo riguarda come nunzio del futuro, egli che sa solo confusamente che il futuro non può esser preveduto, è degno certamente d’ogni scusa». Al di là di tale motivazione della premonizione dei sogni, originata dalla condizione “primitiva”, Leopardi stigmatizza illuministicamente il trasformarsi del sogno in una cosa divina «patrimonio degli auguri famelici».
Segue quindi – come d’uso nel Saggio – una gran messe di testimonianze letterarie classiche, più o meno note, spesso accompagnate da citazioni, dalla letteratura greca (Euripide, Omero, Senofonte, Pseudo-Didimo, Eliodoro, e tanti altri ancora, bizantina (Nicoforo Gregoro, Eustazio di Tessalonica, Niceforo, Leone I di Bisanzio). Alla nutritissima serie di citazioni dotte si aggiunge una presentazione dell’arte di interpretare i sogni: «divenuta – aggiunge ironicamente Leopardi – quasi meritevole di entrare nel numero delle scienze esatte», unita a un lungo elenco di dotti che «si presentarono in folla per rendere questo importante servigio alla umanità», scrivendo manuali sui sogni («Le loro opere si conservano con rispetto nelle nostre Biblioteche, senza che alcuno ardisca toccarle»). Indiscutibile la condanna leopardiana per questa presunta scienza, che testimonia invece la cecità dei saggi antichi, parzialmente redenta dai pochi che la smentirono: «fra tanti sognanti vi fu chi vegliò, e vide assai chiaro per conoscere la follia dei suoi contemporanei», scelti tra i poeti come Virgilio, Tibullo, Lucano, Teocrito, o tra i filosofi come Epicuro, Cicerone e Aristotele, che emerge e fa testo, in conclusione, per l’argomentazione riportata dal suo libro sui sogni. Conclude il capitolo una citazione di Leone I di Bisanzio che indica con l’esempio di Scipione l’Africano quanto la credulità nei sogni premonitori sia da ostacolo per la saggezza politica. Il capitolo del Saggio non presenta, in definitiva, un apprezzamento per la considerazione dei sogni nel mondo antico e soprattutto critica ogni valutazione dei sogni come premonitori della conoscenza futura. La presa di distanze del giovane Leopardi dalla onirocritica verrà mantenuta anche in età matura, come mostra il frammento Odi, Melisso, che se esalta la fantasia onirica non ne trae nessuna conclusione sulla comprensione dell’ordine umano e cosmico.

 

Il “male di luna” in Pirandello

 

 

 Nel saggio Sull’umorismo Pirandello tematizza espressamente l’aspetto “comico” della rivoluzione copernicana, con un chiaro riferimento all’operetta omonima di Leopardi: «Uno dei più grandi umoristi, senza saperlo, fu Copernico, che smontò non propriamente la macchina dell’universo, ma l’orgogliosa immagine che ce n’eravamo fatta.»
Si legga quel dialogo del Leopardi che s’intitola apporto dal canonico polacco. / Ci diede il colpo di grazia la scoperta del telescopio: « Mentre l’occhio guarda di sotto, dalla lente più piccola, e vede grande ciò che la natura provvidenzialmente aveva voluto farci veder piccolo, l’anima nostra, che fa? salta a guardar di sopra, dalla lente più grande, e il telescopio allora diventa un terribile strumento, che subissa la terra e l’uomo e tutte le nostre glorie e grandezze. / Fortuna che è proprio della riflessione umoristica il provocare il sentimento del contrari; il quale, in questo caso, dice: – Ma è poi veramente così piccolo l’uomo, come il telescopio rivoltato ce lo fa vedere? Se egli può intendere e concepire l’infinita sua piccolezza, vuol dire ch’egli intende e concepisce l’infinita grandezza dell’universo. E come si può dir piccolo dunque l’uomo? /»

Passando dalla riflessione teorica alla pratica di scrittura, a mio avviso il risultato lirico più elevato della mitopoiesi cosmica di Pirandello è racchiuso in due famose pagine che descrivono lo stupore e la magia del rapporto con la luna in Male di luna e in Ciàula scopre la Luna, due delle Novelle per un anno. Richiamo due passaggi “lunari” di Male di luna, particolarmente evocativi. Innanzitutto quello che rievoca l’incantamento di Batà, il licantropo della novella: «E Batà, dopo aver ringraziato con muti cenni del capo, prese adagio adagio a narrar loro la sua sciagura: che la madre da giovane, andata a spighe, dormendo su un’aja al sereno, lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto alla luna; e tutta quella notte, lui povero innocente, con la pancina all’aria, mentre gli occhi gli vagellavano, ci aveva giocato, con la bella luna, dimenando le gambette, i braccini. E la luna lo aveva “incantato”. L’incanto però gli aveva dormito dentro per anni e anni, e solo da poco tempo gli s’era risvegliato. Ogni volta che la luna era in quintadecima, il male lo riprendeva. Ma era un male soltanto per lui; bastava che gli altri se ne guardassero: e se ne potevano guardar bene, perché era a periodo fisso ed egli se lo sentiva venire e lo preavvisava; durava una notte sola, e poi basta. Aveva sperato che la moglie fosse più coraggiosa; ma, poiché non era, si poteva far così, che, o lei, a ogni fatta di luna, se ne venisse al paese, dalla madre; o questa andasse giù alla roba, a tenerle compagnia». Quindi il momento finale, nel quale Saro che si rifiuta di accondiscendere alla “vendetta” dalla moglie sul povero Batò, ovvero al suo tradimento, ritrovando la Luna che rideva «beata e dispettosa»: «E nel ritrarsi verso la porta, scorse anch’egli dalla grata della finestrella alta, nella parete di faccia, la luna che, se di là dava tanto male al marito, di qua pareva ridesse, beata e dispettosa, della mancata vendetta della moglie».
Ricordo ora il celebre passaggio di Ciàula, che scopre, infine, la Luna, nel segno di affrancamento dalla sua condizione di “schiavo”: «Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. / Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. / Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era: ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? / Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. / Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna! / E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore».

Nelle due Novelle traspare bene il valore “attivo”, antropomorfo, che Pirandello riconosce alla Luna come movente, nel bene e nel male, delle azioni umane, quasi a smentire umoristicamente la sua osservazione su Copernico che smonta «l’orgogliosa immagine che ce n’eravamo fatta».

 

Le COSMICOMICHE di Italo Calvino

 

 

Ben più approfondita e varia appare la concezione mitopoietica di  Calvino. L’idea del carattere originario del mito, anche come elemento propulsore della conoscenza scientifica, orienterà il progetto calviniano di letteratura cosmica, dopo l’agnizione favorita dalla scoperta della concezione della storia della scienza di Giorgio de Santillana (prof. a Roma insegno storia e filosofia della scienza), punto di partenza per le Cosmicomiche. Mito e cosmologia arcaica si intrecciano in narrazioni piene di fascino, che aprono a Calvino una visione unitaria dell’universo e pongono la questione cruciale di una letteratura scientifica, quella di come far nascere il mito dalla razionalità, l’«idea di raccontare l’universo come una grande macchina scientifico-cosmologica», rovesciando la direttrice individuata da Santillana, in una sfida che Massimo Bucciantini (prof. di storia della scienza) così sintetizza: «È possibile fare narrazione a partire dai risultati acquisiti dal mondo della scienza? Questa è la sfida che Calvino lancia a se stesso e da cui nasce il nuovo progetto […]. Ed è, a pensarci bene, l’esatto rovesciamento del progetto perseguito da Santillana, che era appunto quello di mostrare come nasce la razionalità dal mito, anzi, che la razionalità è forma del mito». Più in generale, Calvino si interroga – con un’evidente reminiscenza leopardiana – su che cosa pensano del satellite «i pastori dell’Asia centrale» e ricerca in questo nuovo orizzonte cosmico lo spazio per estendere i limiti dell’immaginario letterario: «Io vorrei servirmi del dato scientifico come d’una carica propulsiva per uscire da abitudini dell’immaginazione, e vivere anche il quotidiano nei termini più lontani dalla nostra esperienza; la fantascienza invece mi pare che tenda ad avvicinare ciò che è lontano, ciò che è difficile da immaginare, che tenda a dargli una dimensione realistica o comunque a farlo entrare in un orizzonte d’immaginazione che fa parte già d’un’abitudine accettata».

Tale sguardo cosmico non viene ospitato soltanto nelle scelte letterarie dell’ultimo periodo, ma traspare in annotazioni e osservazioni svolte a proposito di altre scritture; è il caso dell’individuazione di uno “stoicismo cosmico” in Montale (1981), che peraltro rievoca l’«universo inospite e avaro» di Leopardi: «Non c’è messaggio di consolazione o d’incoraggiamento in Montale se non si accetta la consapevolezza dell’universo inospite e avaro; è su questa via ardua che il suo discorso continua su quello di Leopardi, anche se le loro voci suonano quanto mai diverse. Così come, confrontato con quello di Leopardi, l’ateismo di Montale è più problematico, percorso da tentazioni continue d’un soprannaturale subito corroso dallo scetticismo di fondo. Se Leopardi dissolve le consolazioni della filosofia dei Lumi, le proposte di consolazione che vengono offerte a Montale sono quelle degli irrazionalismi contemporanei che egli via via valuta e lascia cadere con una scrollata di spalle, riducendo sempre la superficie della roccia su cui poggiano i suoi piedi, lo scoglio cui s’attacca la sua ostinazione di naufrago». Come scriverà in un articolo di cinque anni dopo, Filosofia e letteratura (1967): «La scienza si trova di fronte a problemi non dissimili da quelli della letteratura: costruisce modelli del mondo continuamente messi in crisi, alterna metodo induttivo e deduttivo, e deve sempre stare attenta a non scambiare per leggi obiettive le proprie convenzioni linguistiche. Una cultura all’altezza della situazione ci sarà soltanto quando la problematica della scienza, quella della filosofia e quella della letteratura si metteranno continuamente in crisi a vicenda». Il progetto di “letteratura cosmica” prende corpo concretamente nel 1963 e impegnerà Calvino fino alla morte. Calvino è andato avanti, alla ricerca di un approccio nuovo, più preciso, più rigoroso col mondo: negli ultimi racconti ha cercato, come dice lui stesso, di “impegnare un’immaginazione e un linguaggio siderali, col distacco dell’astronomia”, per raccontare situazioni tipicamente umane, situazioni drammatiche e angosciose, e risolverle con procedimenti d’astrazione, come se si trattasse di problemi matematici. Questo è stato il suo programma stilistico. E forse non solo stilistico».

Le Cosmicomiche Ti con zero, proseguono intenzionalmente il grande progetto mitopoietico avviato da Ovidio nelle Metamorfosi, proponendo una raccolta di miti moderni in sintonia con le più aggiornate teorie cosmologiche; e al riferimento ovidiano si aggiungono anche Lucrezio. Nella chiusa di La Luna come un fungo, che mette in scena il distacco della Luna dalla Terra in seguito a una marea solare, sempre alla luce della teoria di George H. Darwin, Calvino propone un desolato sguardo lunare: «Alle volte alzo lo sguardo alla Luna e penso a tutto il deserto, il freddo, il vuoto che pesano sull’altro piatto della bilancia, e sostengono questo nostro povero sfarzo. Se sono saltato in tempo da questa parte è stato un caso. So che sono debitore alla Luna di quanto ho sulla Terra, a quello che non c’è di quel che c’è».

E infine in Le figlie della Luna appaiono le oscillazioni imprevedibili di una Luna «malata» e «smarrita»: «Antiche espressioni come luna piena, mezzaluna, ultimo quarto continuavano a essere usate ma erano soltanto modi di dire: come la si poteva chiamare ‘piena’ quella forma tutta crepe e brecce che pareva sempre sul punto di franare in una pioggia di calcinacci sulle nostre teste? E non parliamo di quando era tempo di luna calante! Si riduceva a una specie di crosta di formaggio mordicchiata, e spariva sempre prima del previsto. A luna nuova, ci domandavamo ogni volta se non sarebbe più tornata a mostrarsi (speravamo che sparisse così?) e quando rispuntava, sempre più somigliante a un pettine che sta perdendo i denti, distoglievamo gli occhi con un brivido».

Mentre in Leopardi lo sguardo sul cosmo si risolve in uno “spettacolo senza spettatore”, in Calvino la presenza dello spettatore, spesso “troppo umano” per essere vero, rende inverosimile lo sguardo stesso mascherando la prospettiva cosmica con una veste comica. Un eccesso di umanità che ben si riconosce se si guarda – nell’occasione di un’eclissi – alla grande pietra sospesa, come propone Roberto Casati nella sua Scoperta dell’ombra: «Per la prima volta ho visto la Luna per quello che è veramente […]. La Luna è un sasso tenebroso piuttosto cospicuo che se ne sta a una certa distanza sopra la mia testa e stranamente non mi cade addosso. Naturalmente conoscevo le leggi che la tengono ben salda in orbita. (…) Di solito la luce diafana della superficie lunare regala allo sguardo l’illusione di una lanterna delicata e leggera. Durante l’eclisse la Luna perde la sua natura di semidea, si separa dalla corte degli altri oggetti celesti visibili, tutti brillanti. […] L’ombra della Terra rivela la vera natura della Luna». La pietra sospesa che l’Alcesti leopardiano sogna di veder cadere nel prato: piccola cosa materiale imparagonabile con la grande Luna immaginaria e poetica.    

         

Giovanni Teresi

 

Bibliografia:

Massimo Bucciantini, Italo Calvino e la scienza. Gli alfabeti del mondo, Einaudi, Torino 2007
Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, 2 voll., Mondadori, Milano 200 (1995)

Marco Antonio Bazzocchi, L’immaginazione mitologicaLeopardi e Calvino, Pascoli e Pasolini, Edizioni Pendragon, Bologna 1996

Luigi Pirandello, L’umorismo e altri saggi, a cura di E. Ghidetti, Giunti, Firenze 1994

Gaspare Polizzi, La letteratura italiana dinanzi al cosmo: Calvino tra Galileo e Leopardi, in «Lettere italiane», 62 (2010), 1, pp. 63-107

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