“La luce delle stelle morte” come nostalgia di futuro – di Maria Nivea Zagarella

Uno degli ultimi libri di Massimo Recalcati, il saggio La luce delle stelle morte, pubblicato a novembre del 2022, sviluppa un’articolata riflessione sulle esperienze emotivo-affettive del “lutto” e della “nostalgia”, che da sempre hanno scandito e scandiscono le vite degli individui, lasciando segni profondi nel bene e nel male. Le pagine coinvolgono il lettore non solo per la tipica scrittura di Recalcati, piana, discorsivo-didattica nel suo continuo tornare su se stessa, ricca di riferimenti e esemplificazioni attinti agli autori del settore della psicoanalisi (Freud, Lacan, Pontalis…) e alla pratica clinica, ma anche alla amata filosofia (Heidegger, Bergson, Sartre) e letteratura (Proust, McCarthy…), all’arte figurativa (De Chirico, Parmiggiani, Morandi, l’installazione di Burri a Gibellina, o Reflecting Absence di Arad e Walker a New York), al cinema (la Grande Bellezza, Nuovo Cinema Paradiso, Gran Torino…), o -senza reticenze- alla biografia stessa tormentata del soggetto/Massimo (<<Massimo, resta lucido!>> la “sua” frase/talismano -confessa- nella vita). Soprattutto, leggendo, si avverte che l’autore cerca vie di uscita alla palude delle coscienze contemporanee, “vie” per sé e per gli altri, perciò l’assunzione di un fenomeno astrofisico, la luce delle stelle morte, alias il cielo stellato nelle notti serene, quale metafora ideale di perenne, sempre possibile, rinascita. La morte infatti quotidianamente ci assedia, ci incalza. La morte fisica, che oltre alla vecchiaia e alla malattia inscritte per così dire nell’ordine naturale delle cose, registra oggi atroci primati aggiuntivi nelle guerre a sanguinose chiazze territoriali (Ucraina, numerose regioni dell’Africa, Yemen, Siria…), nei femminicidi inesorabili, nell’incremento dei suicidi giovanili e degli incidenti stradali per droga e alcol e di quelli ancora più colpevoli sul lavoro, e inoltre, le migliaia di morti anonime fra le masse dei migranti (vedi fra gli altri il naufragio di febbraio presso Cutro in Calabria), o quelle per violenza criminale e non, e non ultime le non dimenticabili vittime del Covid-19 e del tremendo, recente, terremoto in Turchia e in Siria, le quali, traumaticamente, ci hanno riportato anch’esse ai nostri insopprimibili limiti. E che dire poi delle innumerevoli morti/ferite spirituali a ogni fine o fallimento di un amore, di una amicizia, o per la delusione circa un progetto, una aspettativa, un crollo di ideali, o per gli “sradicamenti” necessitati dalla propria casa, territorio, nazione? Quanti profughi e rifugiati! Quali sono -si chiede Recalcati- le reazioni tutte le volte che si apre un vuoto nel mondo e dentro di noi per la perdita/sparizione di ciò che (persona, cosa, ideale) per “il soggetto” dà senso al mondo o al soggetto stesso?

Si può precipitare -risponde- negli opposti, entrambi autodistruttivi, dell’angoscia melanconica e della negazione maniacale del “lutto”, o mettersi costruttivamente per la strada lenta e lunga della “elaborazione” del lutto la quale, attraversati tutti i risvolti dolorosi dei ricordi e della sofferenza atroce per l’assenza reale e irreversibile dell’ “oggetto perduto”, conduce gradatamente (secondo le due note metafore di Nietzsche nella Prefazione a La gaia scienza) fuori dal “gelo d’inverno” del dolore grazie all’introiezione della perdita e al ri-orientamento, come “un vento di primavera”, del desiderio vitale e della significazione del mondo. Il desiderio umano -dice Lacan citato da Recalcati- ha infatti una doppia anima: è desiderio-rimpianto fondamentale per la Cosa, per il corpo della madre, per l’Oggetto da sempre perduto, ma anche desiderio-apertura verso il nuovo, l’inedito, l’altrove. Invece nella stagnazione melanconica del lutto, di fronte all’evento traumatico di una morte fisica, o di un crollo intimo e spirituale, il soggetto continua indefinitamente a identificarsi con “l’oggetto perduto”, idealizzandolo, colpevolizzandosi, anche odiandolo, ma sono tutti modi inconsci di “rigetto”, di non-accettazione della perdita, che bloccano l’individuo sul passato, impedendo alla sua vita di guardare avanti, già “morto" dunque con ciò che è morto. Come la giovane anoressica (paziente di Recalcati) “identificatasi” con il corpo smagrito della madre morta di tumore in un letto d’ospedale. Lo stesso rifiuto avviene con l’euforia iperattiva della “mania”, che reagisce al contrario cancellando subito la perdita, negando l’importanza dell’ “oggetto perduto” e sostituendolo con un ricambio continuo di oggetti/surrogato e una ostentazione eccessiva di vitalità e deliri progettuali fino a esporsi il soggetto al rischio stesso della vita, perché -spiega Recalcati- alla base della mania agisce la stessa pulsione di morte che nella melanconia clinica. E aggiunge che i soggetti maniacali vivono spesso una doppia vita: una falsa ma di successo, e un’altra vera ma profondamente depressa. Quando la “maschera maniacale” del successo, raggiante, iperedonistica, dedita alla festinazione perpetua e alla mondanità più vacua si sfalda, la profonda depressione/disperazione può esplodere contemporaneamente (sic!) in un suicidio e in un omicidio. E viene spontaneo chiedersi se e quanti abissi di frustrazioni e angoscia di esistere non si nascondano dietro la frenesia iperconsumistica e il mondano stress performativo dell’attuale società e dietro l’esplosione dei tanti drammi solo apparentemente “improvvisi”, in realtà già annunciati!...

Il “lavoro del lutto” invece, doloroso e lento, metabolizza psichicamente la perdita e realizza il distacco definitivo del soggetto dalla “cosa“ perduta (una persona cara, un amore, l’infanzia, il vigore giovanile, gli ideali, la patria…), che per Recalcati, a differenza di Freud (ed è Recalcati stesso a rimarcarlo), lascia tuttavia sempre nel soggetto un “resto”, una “traccia” indelebili. E su questo “resto” torna la nostalgia (etimologicamente dal greco nóstos, ritorno, e álgos, dolore) la quale -per l’autore- ha pure essa due volti. La “nostalgia-rimpianto”, che è regressiva come la cristallizzazione melanconica del lutto, vuole assurdamente bloccare il tempo, e alla maniera di una “calamita“ attira e rinchiude nello sguardo “verso il passato” che resta invece realisticamente irrecuperabile, perché -come dice Sartre, citato da Recalcati- gli uomini siamo viaggiatori con un biglietto di sola andata e la nostra condizione d’esilio, nell’accezione esistenzialistica, è permanente. Un esempio di nostalgia-rimpianto come atteggiamento collettivo potrebbe essere quello che Nietzsche, in Sull’utilità e il danno della storia per la vita, nella sua nota tripartizione della storia in monumentale, archeologica, critica, indicava -osserva Recalcati- quale l’errore di fondo compiuto dalla monumentalizzazione della storia cioè trasformare lo studio del passato nella sua venerazione conservativa, venerazione che è una componente essenziale dell’idealizzazione. Ma in tale ritorno conservativo (oltre la possibile degenerazione in pericolose retoriche nazionalistiche quale di fatto avvenne con il nazismo tedesco) -afferma con Nietzsche lo psicanalista di oggi- a farne le spese è sempre l’avvenire, poiché il culto conservatore del passato rende impossibile l’apertura critica verso il futuro. Si eternizza la presenza dell’ ”oggetto perduto” in quanto perduto (la salvezza solo in ciò che è stato). Diversa invece è quella che Recalcati chiama “nostalgia-gratitudine”, che paragona al fenomeno astrofisico della luce delle stelle, e quali ulteriori esemplificazioni evoca, a rincalzo, la luce dell’arte che viene sempre da un tempo antico, ma non per questo è meno nuova, e si sofferma su Petrarca e gli umanisti, i quali intuirono che la novità è contenuta proprio nel passato e nel suo ripensamento. Infatti, pur essendo le stelle morte anche da milioni di anni, nelle notti stellate la loro luce -dice- continua a visitarci e illuminarci, presenza viva di una assenza, luce ogni volta nuova. Allo stesso modo -aggiunge- ogni volta che il miracolo della forma si realizza, una luce che viene chissà da dove si accende e ci sorprende.

E a integrazione e chiarimento della sua citazione del Petrarca e degli umanisti si vuole qui richiamare l’attenzione su una interessante nota storica circa il Poliziano, poeta e filologo a un tempo, nota trasmessaci nei suoi Studi sull’Umanesimo e il Rinascimento dal critico Eugenio Garin, e su una puntualizzazione critico-letteraria dello stesso Garin. Angelo Ambrogini, alias Poliziano (1454-1494) dal nome latino del luogo di nascita, Montepulciano, sorrideva ironico del codice delle Pandette (trattazioni di diritto romano compilate da giuristi dell’antichità) che veniva mostrato a Palazzo Vecchio in cappella fra le luci delle candele. Per lui quelle antiche pergamene erano soltanto documenti di un passato che andava esplorato e conosciuto nella sua “verità”, ed erano sacre “quelle” pergamene come è sacra ogni opera umana valida, destinata non a chiudere per sempre ma ad aprire (sic!) le vie degli uomini. E Garin precisava negli anni ‘50 e ’60 del Novecento che la filologia umanistica fu in realtà una nuova filosofia: fu consapevolezza del passato come tale (scoperta cioè della sostanzialediversità” fra mondo classico, medioevo e la nuova età) e visione mondana della realtà e umana spiegazione della storia degli uomini (quale poieininfaticabile). La “liberazione” dei padri insomma fu “liberazione” dei figli e “nascita” di questi a se stessi, un “guardare indietro” che era un protendersi in avanti, uno scrivere originalmente e creativamente il futuro. Un movimento simile di “risignificazione” del passato Recalcati coglie nelle pagine di Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin che focalizzano la posizione dell’ “Angelo della storia”: anche se il vento lo trascina inarrestabilmente verso il futuro, egli resiste volgendo il suo sguardo alle macerie del passato, non per farne -scrive- delle reliquie malinconiche ma per riscattarne la sorte (e quale potente sollecitazione sarebbe questa per il nostro disorientato oggi!), per redimere tutte le innumerevoli vittime dell’ingiustizia e dell’infelicità. Sicché -prosegue l’autore- anche la lotta rivoluzionaria non si fa mai nel nome dell’utopia ma in quello del passato oppresso: destare i morti e ricomporre l’infranto.

Questo “memoria del futuro” o “al futuro” che Recalcati distingue dalla memoria-archivio (baule passivo dei nostri ricordi) e dalla memoria spettrale (il ripresentificarsi destabilizzante di un trauma) porta a ripensare profondamente la duplice funzione della “nostalgia”. Pietrificarsi sul passato? O “contemplare” lo splendore della Luce che appare, bussa dal passato come una promessa di avvenire? Ci sono -conclude Recalcati citando Pontalis- dei dettagli indelebili del passato morto (soggettivo e collettivo) in noi incorporati, non necessariamente, o soltanto, gesti eroici e grandi opere d’arte, anche dettagli “piccoli”, atti semplici del quotidiano che condensano in sé misteriosamente un intero mondo, come possono essere la frase di una insegnante (quella citata all’inizio: “Massimo, resta lucido!” della sua insegnante alle superiori, Giulia Terzaghi, ricordo del primo giorno del suo esame di maturità) o le parole di un padre, il gesto di una madre, uno sguardo/sorriso, il “fuoco” anche del timbro di una voce (quella per lui del cantautore amato della sua inquieta giovinezza, Claudio Lolli legato alla contestazione dei tardi anni ’70). Dettagli, che visitandoci dal passato come “luce” del corpo morto di quella stella, avvertiti cioè e ripensati quale vivificante eredità/illuminazione e apparizione di un “nuovo”, danno la spinta a proiettarsi verso l’avvenire, accendono il desiderio, “irradiano” forza verso una vita, un pensiero, un altrove sconosciuti, ancora tutti da vivere, da pensare, da realizzare… Alimentano per Recalcati generativamente la nostalgia di futuro. Un fuoco della memoria insomma -secondo le sue stesse parole- che viene ereditato dalla potenza affermativa di un desiderio nuovo!                                     

 

 

 

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